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Contesto e contaminazione: il "codice" debole dell'arte (Parol 5, 1989)

di Leonardo Bolognesi

Tra lettore e natura, tra soggetto e oggetto
non c'è frattura ma divisione di parti ...:
non potremo mai liberarci dei nostri occhi,
non arriveremo mai ad una descrizione
"assoluta" e noumenica dei mondo.

G. Prodi

... non c'è percezione che non comporti
un codice...

P. Bourdieu

"Supponiamo che io passi per una strada buia e intravveda una forma imprecisa sul marciapiede. Se non la riconosco, mi chiedo 'cos'è?', ma questa domanda viene sovente formulata come 'cosa significa?'. Se poi figgo meglio sii occhi nel buio, e valuto con più ponderazione i dati sensori a mia disposizione, riconosco alla fine l'oggetto misterioso come un gatto. Non ho fatto altro che applicare a un campo impreciso di stimoli sensoriali l'unità culturale 'gatto'. In questa occasione il campo stimolante mi si è presentato come il significante di un possibile significato che faceva già parte della mia competenza prima dell'evento percettivo in questione" [U. Eco, Trattato di semíotíca generale, Bompiani, 1975, pag. 223.]. Si può definire la conoscenza concependola come il riconoscimento della appartenenza di un oggetto ad una classe. Una classe è innanzitutto una unità culturale che appartiene, in qualche modo, ad un codice. La conoscenza di un oggetto presuppone, dunque, sempre un codice. Il problema è che talvolta non si sa a quale codice (in Eco si dice competenza) riferirsi. Il "contesto" in questo caso può essere d'aiuto (o d'inganno) imponendone uno come privilegiato o ammettendone diversi allo stesso titolo. In questo il contesto comunque determina una 'prima' significazione degli oggetti che lo compongono (se non altro indicandone il genere: dal fruttivendolo, si vendono prodotti di genere diverso da quelli venduti in una pasticceria, anche se la frutta di marzapane è "uguale" a quella vera). Chiamiamo contesto forte quel contesto che, imponendo un codice, induce alla conoscenza degli oggetti in base al codice imposto. Chiamiamo debole quel contesto che autorizza diversi codici interpretativi senza privilegiarne alcuno.

Ora un oggetto può apparire sconosciuto proprio perché non si sa bene a quale codice riferirsi per poterlo 'spiegare'. Oppure perché il codice a nostra disposizione appare 'impotente' nei confronti dell'oggetto da conoscere. (Keplero con la scoperta della traiettoria ellittica di Marte non fa altro che correggere un codice - quello del circolo - che in qualche modo si mostrava impotente; la difficoltà nell'indagine poliziesca sta proprio nello scegliere tra le varie ipotesi quella giusta che porti alla scoperta del colpevole). Vediamo di analizzare con alcuni esempi i due casi.

Poniamo di trovarci, per esempio, ad una conferenza internazionale, dove ogni relatore parli la propria lingua madre, e di conoscere solamente una lingua. Si avranno però a disposizione tutti i vocabolari delle varie lingue che verranno usate nel corso della conferenza. Bene, il problema quale sarà? Sarà di individuare il codice 'giusto' per capire i significati delle parole pronunciate dai vari conferenzieri. Nessuno dei codici è chiaramente privilegiato per cui nessuno degli oggetti-parole emessi sarà un oggetto fuori luogo, cioè fuori dal contesto linguistico genericamente inteso, in quanto non esiste nessun codice imposto, nessun codice privilegiato dal contesto. Si andrà quindi per tentativi ipotizzando, abducendo, un vocabolario (codice) che spieghi i suoni emessi come parole del codice ipotizzato. Quindi in questo caso, dati tanti codici, il problema è scegliere quello giusto che sia in condizione di disambiguare le occorrenze concrete che si presentano. Il contesto, come detto, non privilegia nessun codice in particolare.

Diversa è la situazione di chi, partendo per un paese straniero, si informa sulla lingua parlata in tale paese e si munisce del vocabolario corrispondente. Di ogni parola che si presenterà cercherà spiegazione nel vocabolario. Qui la tensione inferenziale non sarà più abduttiva, bensì deduttiva, avendo a disposizione la 'regola' da cui trarre il risultato. In questo caso può presentarsi una parola fuori luogo, cioè una parola che sia 'esterna' al codice usato. E' chiaro che più si conosce il codice e più è facile determinare la contaminazione dell'oggetto esterno, fino a classificarlo come estraneo alla lingua 'ufficiale'.

Non solo la lingua è regolata da codici ma qualsiasi pratica dell'uomo. L. J. Prieto chiama questi codici che regolano i rapporti tra gli oggetti e le loro funzioni, e sono presenti in ogni pratica umana, strutture semiotiche. Dire che la funzione di un cappello è di coprire il capo è come indicarne il significato (cfr. la citazione da Eco su riportata). In questo caso i termini "significato" e "funzione" sono equivalenti, Così come si intendono equivalenti i termini codice e struttura semiotica (e come tali li stiamo usando). Ciò che abbiamo detto in precedenza nei riguardi del rapporto contesto e codice sarà riconducibile al rapporto tra contesto e struttura semiotica nell'ambito delle pratiche. Per cui esistono dei contesti forti che impongono una determinata struttura semiotica. Poniamo di essere in una officina meccanica. Ogni oggetto di questo contesto troverà la sua giusta collocazione, il suo significato, all'interno della struttura che la pratica "meccanica" istituisce. Non ci sono dubbi. Il contesto ci induce all'uso di un codice determinato. Il contesto è un forte indicatore di codice (ci informa della 'lingua ufficiale' da usare). Il contesto è talmente forte che può provocare un abbaglio nel senso che tende a far classificare qualsiasi oggetto contenutovi come appartenente al codice istituito (il contesto ha a che fare con i codici, funziona come istruzione d'uso dei codici, talora imponendoli oppure permettendoli, si vedrà poi come). E' chiaro che più si conosce il codice e prima si determina l'estraneità dell'oggetto contaminante. Ma, in questo caso, a contesto 'forte' corrisponde codice altrettanto 'forte', per cui l'abbaglio durerà poco (i codici, dal canto loro, hanno a che fare con gli oggetti, in quanto li classificano, quindi ne determinano la conoscenza). Se, per esempio, nell'officina meccanica fosse presente uno strumento da enologo, l'osservatore ingenuo cercherebbe la sua funzione all'interno della pratica contestuale, mentre sia il meccanico che l'enologo (esperti di codici) individuerebbero rispettivamente come "estraneo" e come "proprio" l'oggetto suddetto.

Ora, cosa succede quando il contesto è una galleria d'arte, quando la pratica è artistisica? Sia chiaro che parlando di pratiche, le si intendono sempre determinate in senso sociale. Come prima parlando della pratica meccanica non intendevamo la pratica, magari idiosincratica, di un meccanico, così parlando di pratica artistica si intende l'uso artistico che una certa società (nel caso quella contemporanea) fa di certi oggetti. E' indubbio che anche in questo caso i1 contesto (la galleria) è un forte indicatore d'uso e ci informa che gli oggetti all'interno di tale contesto debbono essere "conosciuti" come oggetti artistici, affidando così alla struttura semiotica della pratica artistica il compito di individuare i singoli significati degli oggetti in questione. Qui la cosa si fa complicata. Per ora lasciamo da parte il problema dei singoli significati degli oggetti artistici. Concentriamoci invece sul famoso oggetto fuori luogo. Il codice o struttura semiotica che il contesto (forte) ci impone sarà in condizione di 'scoprire' l'intruso? Non è un falso problema se si pensa che non molto tempo fa alla Biennale di Venezia alcuni inservienti "restaurarono" un'opera di Duchamp credendola una porta malandata. In questo caso abbiamo un oggetto, 'proprio' del contesto, 'confuso' con un oggetto estraneo e (è da credere) contaminante. Ma è altresì piena la cinematografia di gags in cui vengono vissuti artisticamente oggetti di uso comune: la sedia del custode, la grata dell'aria condizionata e via dicendo.

Il codice appare così quasi inesistente in quanto sembrerebbe ammettere ogni oggetto possibile. Non è possibile in base al codice di questa pratica stabilire l'estraneità di oggetti contaminanti. Ed è curioso il fatto (si fa per dire) che, a differenza delle altre pratiche, nel caso dell'arte più si conosce la pratica ed il conseguente codice e più si è disponibili ad accettare come artistico qualunque oggetto. La pratica contemporanea dell'arte sembrerebbe poco disposta a giurare sull'intrusione di oggetti esterni.

Siamo, per tanto, in una condizione contestuale che impone come suo un punto di vista che ingloba in sé ogni oggetto " fuori luogo ", a cui però risponde un codice alquanto debole, in quanto non discrimina tra oggetti 'pertinenti' ed oggetti 'fuori luogo' (a differenza di ciò che avveniva nell'officina con i codici del meccanico e dell'enologo). Sembra un vocabolario senza pagine dove ci può stare tutto e nulla. Un codice tanto debole che non decodifica gli oggetti che annovera. Un codice così debole che molto probabilmente non ha più senso chiamarlo codice. Ma se è vero che non può darsi pratica alcuna senza struttura semiotica e quindi senza codice forte (in quanto è la struttura semiotica l'unica depositaria della conoscenza degli oggetti che intervengono nella pratica stessa, come dimostra ampiamente Prieto in Pertinenza e pratica [L. J. Prieto, Pertinenza e pratica, Feltrinelli, 1976, passim.]) sarà bene prendere atto di questa debolezza del codice artistico soltanto in prima istanza, e vedere se poi, essa, non sia frutto di un 'gioco' di codici più complesso proprio dell'arte. Perché la pratica artistica dovrebbe trasgredire il postulato della struttura semiotica e quindi non dar corso a un codice forte proprio di ogni pratica? In quanto pratica essa non può non avere un codice forte. In quanto "artistica" essa pare averlo 'debole'. Come conciliare le due cose?

La struttura semiotica della pratica artistica sembrerebbe presentarsi come un "metacodice" che organizza altri codici, quindi che non ha a che fare con oggetti ma con altri codici. Il codice dell'arte contemporanea demanda la significazione ad una pluralità di codici (i codici critici), ed è solo all'interno di quest'ultimi che è possibile parlare di contaminazione da parte di oggetti fuori luogo. Il fuori luogo nell'arte è determinabile unicamente partendo da un'idea di arte, da un paradigma critico. Il codice della pratica (socialmente inteso) non estromette nessun oggetto aprioristicamente, in quanto non esclude nessuna idea di arte, nessuna " poetica ".

Se vogliamo, questo "metacodice" artistico, questo idioletto (socioletto) artistico, per dirla con la terminologia di L. Nanni [L. Nanni, Contra dogmaticos, Cappelli, 1987, passim.], pur forte nel suo potere di legittimare l'uso della pluralità indefinita dei codici critici indicati, lo si può indicare come "debole", in quanto ampiamente 'democratico' nell'ammettere varie 'ideologie' critiche. In questo senso, la 'debolezza' potrebbe essere presa come specifico dell'arte contemporanea.

La pratica artistica si caratterizza per un 'passaggio' in più rispetto alle altre pratiche. Il contesto istituisce un codice (una pratica) in base al quale siamo indotti a considerare come artistico ogni oggetto che ci si presenta; il codice, a sua volta, delega ad altri codici l'autorità di stabilire i singoli significati (e quindi la possibilità di determinare il fuori luogo) degli oggetti.

Se "significazione" e "conoscenza" (di cui abbiamo già notato l'equivalenza) non possono non sottostare (dipendere) dalla pratica che il soggetto esercita, allora i vari codici critici di cui si diceva (le poetiche) si presentano come vere e proprie pratiche "autonome" alla pari della pratica "meccanica" dell'esempio precedente. Ma se possiamo sostenere che esiste una sola pratica meccanica (le cosiddetto norme UNI lo stanno a dimostrare) che determina la corrispondente "significazione" (in base alle caratteristiche ritenute pertinenti), appare evidente che la pratica artistica dal canto suo si articola in innumerevoli pratiche alle quali è delegato il compito di "significare", in modo indipendente, gli oggetti che intervengono nella pratica stessa (la cosiddetta "polisemia" dell'arte, e le talvolta antitetiche interpretazioni, stanno a dimostrare l' "autonomia" dei codici critici interpretativi-disambiguanti). Per cui, riprendendo il concetto di conoscenza di Prieto, si può dire che alla base di ogni significato attribuito ad un oggetto artistico vi è una pratica (una poetica).

In realtà è proprio in base alla conoscenza del codice artistico della cultura contemporanea che nessun oggetto in linea di principio può essere pensato fuori luogo. Molto probabilmente perché nell'arte contemporanea non vi è 'oggetto'. Nel senso che non è possibile stabilire l'appartenenza degli oggetti all'arte partendo dallo stesso concetto' di 'caratteristiche' pertinenti (interne all'oggetto) con cui si determinava l'estraneità nelle altre pratiche. Se la pratica meccanico distingueva nelle caratteristiche degli oggetti la loro più o meno "meccanicità", il paradigma artistico non distingue negli oggetti le caratteristiche pertinenti all'artisticità, in quanto, in base alla pluralità ammessa delle poetiche (dei codici critici), ogni oggetto può essere visto come artistico.

Si potrebbe obiettare che una pluralità di codici si può trovare anche in altri contesti che non siano artistici. Rimanendo nell'atmosfera dell'esempio precedente, il contesto 'ferramenta' sembrerebbe non imporre nessun codice in particolare, ma semplicemente una pluralità di strutture semiotiche conseguenti alle varie pratiche che il contesto autorizza. Possiamo così avere il codice dell'enologo, quello del meccanico, dell'elettricista o dell'idraulico senza che nessuno di questi abbia una qualche forma di privilegio 'conoscitivo' nei confronti degli oggetti contenuti nella ferramenta. Sarebbe perfino possibile intravedervi una sorta di "polisemia" qualora un oggetto possa essere usato,(essere quindi strumento) sia dal meccanico che dall'enologo nelle rispettive e codificate esigenze operative. Come si distingue, in questi termini, la pratica artistica dalla pratica della ferramenta? La ferramenta alla pari della galleria sembra essere un contenitore che non impone nessun codice ma ne legittima diversi. Alla pari della galleria essa demanda la significazione ad una pluralità di codici.

Crediamo che la differenza la si possa determinare in base al concetto dell'oggetto fuori luogo. Se la "contaminazione", nel caso della galleria (e probabilmente anche nella ferramenta) è determinabile solo in base ai singoli codici conoscitivi, il numero dei codici ammessi in una ferramenta è in linea di principio finito, quindi si determina un fuori luogo in estensione contestuale (la quantità di codici che possono essere attivati in una ferramenta) definita. Il numero dei codici ammessi dall'arte appare invece indefinito, così il fuori luogo è determinato in una estensione (la quantità di poetiche che possono essere attivate nelle istituzioni adibite ad esibire l'arte) indefinita.

 

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