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Linguaggio, tecnica, significato (Parol 11, 1995)

Pierre Boulez intervistato da Mario Campanino

Premessa

Nel 1959, in un intervento dal titolo Contraddizioni del linguaggio seriale, [Ruwet, N.,Contraddizioni del linguaggio seriale in Linguaggio, Musica, Poesia, Torino, Einaudi, 1983, pp. 5-24 (ed. or. Contradictions du langage seriel, "Revue Belge de Musicologie", n. 13, 1959, pp. 83-97; poi in Ruwet, N., Langage, musique, poésie, Paris, Edition du Seuil, 1972)]. Nicolas Ruwet denunciava la scarsa sistematicità dei musicisti post-weberniani impegnati nel processo di costituzione di un nuovo linguaggio musicale. Nel realizzare la generalizzazione del principio seriale a tutti i parametri del suono, altezza, durata, intensità, timbro, modo d'attacco, essi non avevano avuto "una coscienza sufficientemente chiara di ciò che significa il fatto che la musica è linguaggio" [Ibidem, p.7].

La critica di Ruwet parte dall'osservazione che la musica seriale, assai complessa in via di principio, nel progetto del compositore, appare semplicistica all'ascolto" [Ibidem, p.5]. Egli spiega le ragioni di questa incongruenza ipotizzando una similitudine strutturale tra il linguaggio verbale e quello musicale. Rifacendosi infatti a Trubeckoj, secondo il quale il sistema linguistico verbale sarebbe "un insieme di sistemi parziali" [Trubeckoj, N.S., Fondamenti di fonologia, Torino, Einaudi, 1971, p. 7 (citato in Ruwet,N., Contraddizioni del linguaggio seriale, op. cit., p.12)], Ruwet afferma che anche quello musicale può essere considerato un "sistema di sistemi"[ Ruwet, N., Contraddizioni del linguaggio seriale, op. cit.., p.12], laddove i vari sottosistemi sono rappresentati dai differenti parametri sonori. Ma se normalmente in un sistema linguistico i vari sottosistemi stanno in rapporti "complessi, rapporti di implicazione mutua, di complementarità, di compensazione", [Ibidem, p.13] il caso della musica seriale sarebbe diverso. L'aver organizzato ciascun parametro parallelamente agli altri secondo l'identico principio della serie, infatti, non avrebbe significato altro per Ruwet che "perder di vista le mutue implicazioni dei diversi sistemi" [Ibidem]. Sarebbe stata tale trascuratezza, poi, a trasformarsi sul piano fenomenico in una generica monotonia del continuum sonoro. Per questa ragione, conclude Ruwet, i musicisti seriali avevano fallito nel tentativo di costituire un nuovo linguaggio musicale [L'articolo di Ruwet non termina a questo punto. Da qui partono alcune riflessioni che il linguista effettua sul terreno concreto della fonologia e che non ritengo necessario, in questo contesto, esporre].

Volendo interrogare Pierre Boulez su alcuni aspetti della sua attività compositiva ho adottato come punto di riferimento critico il quadro cosí delineato da Ruwet [Anche se - a mio avviso - si potrebbe individuare nelle argomentazioni appena esposte una certa parzialità di vedute. Non era infatti solo a livello di struttura sistemica che i compositori, in ultimo, avevano inteso costituire un nuovo linguaggio musicale: bensí anche a livello del fenomeno sonoro globale, con tutti gli accidenti, le arbitrarietà, le deroghe alla logica stretta del sistema che esso può incorporare. Né le osservazioni di Ruwet sul piano fonologico sono sufficienti a colmare questo divario (perché si riferiscono esclusivamente alla microstruttura del tessuto musicale, laddove - sempre a mio avviso - quello del linguaggio è un problema di forma, dunque di macrostruttura). Non si può negare comunque la fondatezza di questa critica dal punto di vista puramente strutturale].

L'interrogativo fondamentale che ci si può porre dopo la lettura di queste pagine è infatti: data l'esistenza di un reale problema strutturale all'interno del sistema seriale integrale, Boulez è poi riuscito a costituire un nuovo linguaggio musicale? In che modo? Ma, innanzi tutto: anch'egli aveva percepito la monotonia denunciata da Ruwet?

Dalla lettura dei numerosi scritti di poetica di Boulez si osserva che già all'inizio dell'esperienza seriale (siamo nel 1951) egli in qualche modo presentava l'esistenza di un problema legato all'eccesso di teoria adottata nella composizione. Oggetto di critica erano in quegli anni i risultati ottenuti col primo libro di Structures per due pianoforti e con Polyphonie X. Piú tardi, ricordando quel periodo, egli avrebbe scritto: "Quando abbiamo cominciato a generalizzare la serie a tutte le componenti del fenomeno sonoro, ci siamo buttati a corpo morto - a testa morta, piuttosto - nelle cifre" [Boulez, P., Pensare la musica oggi, Torino, Einaudi, 1979, p.19 (ed. or. Musikenken heute 1, Mainz, B. Schott's Sohne,1963; tr. fr.., Penser la musique aujouord'hui, Paris, Editions Gonthier, 1964)]. E ancora: "La mancanza di riflessione propriamente estetica, connessa con gli sviluppi del linguaggio, era in gran parte responsabile degli slittamenti intellettuali, spettacolari o no, che non mancarono di prodursi" [Ibidem, p.153].

Nelle prime opere seriali in effetti la composizione corrispondeva quasi esclusivamente alla semplice combinazione delle sottostrutture parametriche. Il titolo che Boulez aveva in animo di dare al primo brano delle Structures, A' la limite du pays fertile, doveva proprio significare che quello era il punto massimo di alienazione del soggetto oltre il quale ci sarebbe stata solo infertilità, assenza di vita. Ma si potrebbe oggi affermare che proprio in quell'opera tale limite veniva già superato, dato che il senso formale della composizione - derivante da alcune decisioni compositive pur attuate - non riusciva sul piano percettivo ad emergere nella generale indifferenziazione del continuum sonoro.

Negli anni successivi si verificò quella presa di coscienza che portò ad elaborare l'originaria concezione del sistema seriale. Nel 1954 Boulez scriveva:

Questo stile "puntuale" presentava un altro inconveniente, non di poco conto. I piani di strutture si rinnovavano parallelamente in modo identico; a ogni nuova altezza sonora, una nuova durata con una nuova intensità. La variazione perpetua - in superficie - ingenerava l'assenza totale di variazione a un livello piú generale. Una monotonia esasperante s'impadroniva dell'opera musicale mettendo in gioco a ogni istante tutti i mezzi di rinnovamento [Boulez, P., Ricerche ora, in Note di apprendistato, Torino, Einaudí, 1968, p. 31 (ed. or., Recherches maintenant, "La Nouvehe Revue Francaise", n. 23, novembre 1954, pp. 898-903)].

 Da questo passaggio si può affermare con sicurezza che, molto prima di Ruwet, Boulez era assolutamente consapevole delle fondamentali contraddizioni del sistema seriale. Ma mentre il linguista belga, accertata l'impasse strutturale del sistema, concludeva che "le sue possibilità strutturali sono limitate" [Ruwet, N., Contraddizionioni del linguaggio seriale, op. cit., p. 24.], Boulez si mosse, per superare pragmaticamente il problema, in due direzioni: sul piano percettivo, approfondendo lo studio dei rapporti tra i vari parametri del suono, e sul piano fenomenico, considerando piú attentamente l'aspetto compositivo dell'opera. La perdita della dimensione linguistico-discorsiva della composizione, infatti, era dovuta nelle prime opere seriali alla mancanza di un'articolazione formale percepibile, a sua volta provocata dalla contraddizione strutturale che conosciamo. Nell'impossibilità di risolvere il problema strutturale Boulez pensò di introdurre, accanto al sistema seriale vero e proprio, altri principi costruttivi con i quali dotare l'opera di un senso formale percettivamente piú marcato. Veniva cosí riabilitato, ed era questo l'aspetto di maggior importanza, il ruolo attivo del compositore. Nonostante il rigido meccanismo di ingenerazione seriale instaurato dal sistema, infatti, quest'ultimo poteva ora compiere delle scelte compositive assolutamente arbitrarie e dunque riavere il completo controllo sulla dimensione estetica dell'opera. Fu solo attraverso questa riformulazione del problema che Boulez riuscí a costituire un linguaggio seriale dotato di "tutte le qualità di morfologia, di sintassi e di retorica necessarie alla comparsa di un discorso organico" [Boulez, P., Pensare la musica oggi, op. cit., p. 198.14].

L'impostazione generale di questa intervista è quella di un'indagine condotta parallelamente su tecnica e poetica musicali. Tale scelta è derivata dallo studio degli stessi scritti di Boulez in cui egli spesso riflette sul rapporto tra questi due aspetti della creazione musicale. Dalla lettura di alcuni passaggi si riceve infatti l'impressione che per Boulez tecnica e poetica siano intimamente legate, tanto da poter vicendevolmente parlare l'una dell'altra. E' per rendere piú esplicita questa visione che proprio in apertura del colloquio ho domandato al compositore di definire brevemente la natura di tale rapporto.

L'area del discorso che intendevo affrontare era comunque quella ruotante attorno al problema esposto in Contraddizioni del linguaggio seriale. La prima posizione da chiarire in questo senso era dunque: Boulez ritiene valido l'approccio alla musica attraverso gli strumenti della linguistica? In che misura i risultati ottenuti nello studio del linguaggio verbale sono trasferibili nell'ambito del linguaggio musicale? Per giungere infine al confronto: Boulez ha mai riflettuto sulla pertinenza della critica di Ruwet?

Mi sembrava interessante innanzitutto ripercorrere le fasi iniziali del periodo seriale. Oltre a riconsiderare, quindi, le esperienze del primo libro di Structures e di Polyphonie X, intendevo accertare un altro elemento. In Necessità di un orientamento estetico, il capitolo conclusivo di Pensare la musica oggi, Boulez afferma: "Vista retrospettivatnente, questa stagione del dubbio ebbe inizio senza che ci si rendesse troppo conto dei pericoli che comportava" [Boulez, P., Pensare la musica oggi, op. cit., p. 189.]. In Per volontà e per caso, invece, dichiara:

[...]questa specie di assurdità, di caos e di ingranaggio meccanico che tende praticamente al casuale, è assolutamente voluta ed è, probabilmente, una delle esperienze fondamentali della mia vita dí compositore. Ero ben cosciente di farla, fin dall'inizio [Boulez, P., Per volontà e per caso, Torino, Einaudi, 1977, p. 56 (ed. or., Par volonté et par hasard. Entretiens avec Célstin Deliège, Paris, Editions du Seul, 1975)].

L'interrogativo era dunque: Boulez era cosciente già in partenza di avere a che fare con un sistema "a rischio", dal quale sarebbe potuto derivare il totale annullamento del senso formale e discorsivo dell'opera, o ne è stato cosciente solo dopo aver verificato i risultati del proprio lavoro? E quanto è durato, se c'è stato, il periodo di riflessione critica?

Nell'ambito del discorso sul momento in cui Boulez aveva attuato la separazione delle componenti c'erano poi due aspetti che mi interessava chiarire e che riguardavano gli anni immediatamente precedenti l'esperienza seriale. Questi spunti provenivano dalla lettura di due scritti del compositore: Traiettorie: Ravel, Stravinskij, Schoenberg [Boulez, P., Traiettorie: Ravel, Stravinskij, Schonberg in Note di apprendistato, Op. cit., pp. 213-232 (ed. or., Trajectoires: Ravel, Stravinskij, Schonbeg, "Contrepoint", n. 6, 1949 pp. 122-142)] e Stravinskij rimane [Boulez, P., Stravinskij rimane, in Note di apprendistato, Op. cit., pp. 73-133 (ed. or., Stravinskzj demeure, in Souvtchinsky, P. (a cura di), Musique Russe, Paris, P.U.F., 1953, vol. 1, pp. 151-224)].

Nel primo dei due, redatto nel 1949, Boulez denuncia la parzialità e quindi il fallimento dei movimenti evolutivi impressi al linguaggio musicale da Schoenberg e Stravinskij. Il primo aveva infatti rivoluzionato, attraverso l'adozione della tecnica dodecafonica, i normali criteri di ordinamento delle sole altezze, mentre il secondo aveva elaborato straordinariamente l'elemento ritmico rimanendo in un contesto tutto sommato tonale. L'intransigenza nei confronti di queste parzialità induceva a pensare che Boulez ritenesse indispensabile una riconsiderazione globale dei parametri sonori. Nel seguito dell'articolo, però, egli critica questo stesso atteggiamento globalizzante imputando ad esso la colpa della insufficiente attenzione prestata sino allora ai problemi del ritmo. Da questa contraddizione scaturiva dunque la domanda: se una reale evoluzione dei parametri era possibile solo considerandone singolarmente i problemi, su quali basi Boulez aveva realizzato la separazione delle componenti pur sapendo che l'evoluzione avrebbe dovuto interessarle tutte in senso globale?

Il secondo articolo considerato, Stravinskij rimane (redatto nel 1951 e poi pubblicato nel 1953), consiste in un'analisi esclusivamente ritmica di alcuni frammenti della Sagra della Primavera. In seguito alla pubblicazione di questo lavoro Boulez fu pesantemente accusato da Boris De Schloezer di aver mantenuto un atteggiamento parziale e dunque analiticamente inefficace [Cfr. Schloezer (De), B., Retour à Descartes, "La Nouvelle Revue Francaise", giugno 1955, pp. 1084-1088. Per uno studio approfondito dell'atteggiamento analitico di Boulez rimando ad un mio saggio sull'argomento. Cfr. Campanino, M., Pierre Boulez: creazione e analisi musicale, "Analisi. Rivista di Teoria e Pedagogia musicale", Milano, Ed. Ricordi, N. 15, settembre 1994, pp. 25-30].

Esaminando gli scritti del compositore si nota che egli non ha mai concordato con questa critica, ma in effetti non ha mai piú realizzato analisi simili. Quel che mi sembrava interessante appurare dal mio colloquio era dunque se anch'egli, dopotutto, non avesse in seguito ritenuto poco valido quel tipo di approccio analitico.

Conclusa questa indagine sul primo periodo seriale, rimaneva da sapere se Boulez ritenesse di aver costituito, a un certo punto della propria esperienza, quel nuovo linguaggio musicale al quale tendeva. E dunque: in che momento aveva superato il problema del parallelismo delle sottostrutture parametriche e ripristinato il senso formale della composizione? Secondo quali criteri vennero riconsiderati i rapporti tra le varie componenti sonore?

Come abbiamo visto, a un certo punto della propria attività compositiva Boulez aveva ritenuto necessario affiancare al sistema seriale vero e proprio altri criteri strutturali che ricreassero e rendessero percepibile l'articolazione formale del brano. Uno di questi criteri fu quello di "formante". Avendo voluto approfondire appunto il significato di questo concetto, ho riscontrato una certa contraddizione. Boulez utilizza per la prima volta il termine "formante" per indicare ciascuna delle cinque parti (potremmo dire "tempi") che compongono la sua Troisième Sonate. Qualche anno dopo invece definisce il formante come un "insieme di criteri selettivi" [Cfr. Boulez, P., Forma in Punti di riferimento, Torino, Einaudi, 1984, pp. 68-75 (ed. or., Forme, in Points de repère, Paris, Christian Bourgois Editeur, 1981). Questo scritto consiste nel testo riveduto di una conferenza tenuta da Boulez a Darmstadt nel 1963. La defionizione è tolta da p.71].

Nel tentativo di risolvere tale dicotomia ho chiesto al compositore di chiarire il significato di questa nozione, davvero fondamentale nel quadro della nuova formulazione da lui data al linguaggio seriale.

Infine vi erano due punti, entrambi di estremo interesse, sui quali volevo interrogare Boulez. Il primo concerneva la nozione di "comunicazione" in musica. Scorrendo l'intero corpus degli scritti del compositore si nota che negli articoli del primo periodo egli parla pochissimo di comunicazione e solo piú tardi questo tema diviene oggetto di riflessione. Ho domandato dunque a Boulez di illustrare il significato di questo incremento di attenzione nel contesto della sua poetica.

L'ultimo argomento che intendevo affrontare era quello della scelta estetica. Credo infatti che questo sia il nodo principale intorno al quale si sono sviluppate la tecnica e la poetica di Boulez a partire dagli anni dell'operazione seriale sino ad oggi. Egli ha spesso dichiarato, infatti, che in quegli anni di tecnicismo radicale ciò che si voleva era mettere da parte le preoccupazioni estetiche per concentrarsi esclusivamente sui problemi del linguaggio. La grande scoperta degli anni successivi fu che il linguaggio non poteva fare a meno della decisione estetica, in quanto quest'ultima ne era un elemento costitutivo. Non vi poteva essere linguaggio laddove il soggetto non intervenisse, per mezzo di una decisione compositiva arbitraria, a selezionare la quantità e la qualità delle combinazioni strutturali possibili. Riconquistata questa dimensione estetica della "langue" musicale, dunque, l'unicità dell'atto di "parole" stava nel fatto che di fronte alle infinite soluzioni possibili in un dato momento il compositore ne sceglieva solo una, ed a quella sola affidava il determinarsi della fisionomia dell'opera.

L'adozione del sistema seriale, in origine, fu dovuta proprio alla volontà di limitare la libertà individuale nell'ambito della composizione, libertà che sul finire degli Anni Quaranta aveva portato a una notevole confusione stilistica e linguistica. L'opera di Boulez testimonia del suo cammino verso il ritrovamento di una "indisciplina nella disciplina", di una libertà non compromettente l'unitarietà liguistica del proprio sistema di riferimento.

Ho incontrato Boulez all'IRCAM di Parigi il 22 ottobre 1992.

Intervista

Campanino - Nell'immaginario dialogo con se stesso posto come introduzione a Pensare la musica oggi, lei afferma che "si considera volentieri la riflessione sotto l'angolo etereo delle speculazioni 'poetiche' " [Cfr. Boulez, P., Pensare la musica oggi, op. cit., p. 3], mentre gli aspetti puramente tecnici della composizione non sono spesso considerati altrettanto nobili. Quali sono, o quali dovrebbero essere, secondo lei, i collegamenti tra poetica e tecnica?

Boulez - Una poetica si esprime attraverso la tecnica. Essa non può assolutamente esistere senza tecnica; una "vera" poetica, voglio dire. Questi due lati dell'invenzione musicale devono essere assolutamente poggiati l'uno sull'altro: se non c'è una tecnica, una poetica resta nel vago e non può essere che una somma di "intenzioni" ma non di "realtà". L'intenzione è necessaria, certo, anche in partenza, anche se non si ha un'idea assolutamente chiara della realizzazione. L'intenzione è dunque come una specie di "approccio", e tale approccio è verificato, o cambiato, del resto, con la "realtà" delle cose. Si può partire con un'idea data e poi arrivare alla fine a una realizzazione che non ha necessariamente le stesse coordinate di quel punto di partenza. E' per questo che la poetica si crea procedendo nella composizione. La poetica è immaginata, innanzi tutto, ma la poetica dell'opera terminata è una poetica che si fonda sulla tecnica.

Campanino - In che misura ritiene pertinenti le analisi del linguaggio musicale condotte secondo i parametri della linguistica?

Boulez - L'utilizzo degli strumenti della linguistica mi sembra del tutto pertinente nel campo del linguaggio e della poesia, naturalmente. Credo che sia meno rilevante, invece, nell'ambito musicale dove per lo meno bisognerebbe "trasporre" questi strumenti, "manipolarli" altrimenti, perché le note non hanno alcun senso in se stesse, mentre una parola, qualsiasi essa sia, ha un senso proprio, per quanto vago sia; voglio dire che esse non indicano un albero preciso, un fiore preciso, ma comunque il concetto di "fiore", il concetto di "albero" non si possono confondere con una tavola o una sedia. In musica, al contrario, un accordo, una nota non significano niente in quanto non si trovano in un contesto, o meglio non si trovano in una "grammatica". Se si ha ad esempio un accordo classico, diciamo un accordo perfetto, possiamo chiederci: che funzione ha? E' questo che determina il suo senso, perché esso non ha senso in se stesso. Ha una sonorità, ha un significato acustico, ma non ha un significato semantico. E' proprio questa la grande differenza con il linguaggio ed è anche il punto in cui, trovo, i linguisti che hanno guardato la musica l'hanno guardata un po' da lontano. Essi non hanno colto veramente la differenza molto profonda di natura tra l'espressione verbale e l'espressione musicale. La musica può solo fare allusione ad altre cose, ma non può rinviare che a se stessa. Il linguaggio può rinviare, anche per distorsione, a dei fenomeni quotidiani: la musica non rinvia a nulla di quotidiano.

Campanino - Ricordo un passo in cui lei afferma che la musica può fare riferimento a qualcosa di estraneo a se stessa, ma in questo caso si tratta unicamente di fenomeni storici.

Boulez - Sí, è proprio cosí infatti. Tali fenomeni possono essere di natura simbolica o in altri casi può trattarsi di "connotazioni" storiche, ma, ad esempio, nel caso di opere molto lontane nel tempo, tali connotazioni sono poi del tutto "smarrite".

Campanino - Si potrebbe dire che si perde cosí il valore semantico dell'opera?

Boulez - Esattamente. Ci sono ad esempio delle musiche, anche del Rinascimento ma parlo del Medioevo in particolare, delle musiche dicevo con dei testi religiosi e dei testi laici e si è assolutamente incapaci di fare la differenza tra ciò che significa, in rapporto alla musica, il testo religioso e il testo laico. L'espressione è un qualcosa che ci sfugge, noi abbiamo una veduta assolutamente "fissa" di tali fenomeni musicali. 'E un po' la stessa cosa - solo per gli specialisti, naturalmente, ma parliamo qui proprio di specialisti - che per la scultura. Nelle chiese, ad esempio, tutti ci estasiamo perché una certa opera è del tredicesimo secolo, ma siamo incapaci, in generale, di distinguere il "buon" tredicesimo secolo, le opere che erano considerate di valore, da ciò che era affatto ordinario. Si perde il senso del valore dal momento in cui si perde il senso del contesto al quale l'opera si rapporta.

Campanino - Nel 1959 Nicolas Ruwet, con l'articolo Contraddizioní del linguaggio seriale, metteva a dura prova i fondamenti teorici dell'operazione di serializzazione integrale. Lei ha mai riflettuto sulla critica di Ruwet?

Boulez - No. Io ho scritto un articolo prima di lui molto prima, su questo problema. Deve essere stato nel '54, non ricordo il titolo in questo momento, un articolo che pubblicai su "La Nouvelle Revue Frangaise" [Cfr. Boulez, P., Ricerche ora, op. cit.]. Lí dicevo che si era verificato una specie di ipnotismo nei riguardi dei rapporti piú o meno cifrati, dei rapporti numerici, dei rapporti punto a punto, e che questi rapporti punto a punto si annullavano gli uni con gli altri. Dicevo che se c'era sempre una perpetua variazione non c'era piú assolutamente modo di riconoscere alcunché, e dall'istante in cui non c'era piú riconoscimento non si poteva seguire nulla. Si è cosí di fronte ad una sorta di espressione caotica in cui ci sono troppe informazioni per poter farne qualcosa. Tale situazione può servire per un breve momento, ad esempio, ma essendo passato questo momento bisogna ritrovare la possibilità di riconoscere.

Campanino - L'adozione del sistema seriale integrale comportava dei grossi pericoli, tanto che lei stesso in seguito ha parlato di "caos", "assurdità", "monotonia esasperante". Ne era consapevole già in partenza o solo dopo un certo periodo?

Boulez - Dall'inizio. Devo dire che ho sempre molto diffidato di una specie di "determinismo meccanicista", ed è per questo che in fondo la struttura piú meccanicista che ho mai fatto è la Structure 1A per due pianoforti [Si parla del primo dei tre brani che compongono il primo libro di Structures.], e volevo intitolarla in partenza

A la limite du pays fertile [Dal titolo di un quadro di Paul Klee, Monumento al limite del Paese fertile] per ben provare che sapevo che questo determiniamo cosí rigido non avrebbe condotto da nessuna parte se non si sapeva utilizzarlo. Ma volevo sperimentare fino in fondo, diciamo, questa specie di determinismo per vedere a quali risultati avrebbe portato. D'altronde anche in questo caso il determinismo è pur sempre molto limitato, perché se si guarda questo pezzo, che è davvero semplicemente una sovrapposizione delle differenti serie, si vede tuttavia che c'è un criterio di densità. Tale criterio di densità è affatto arbitrario: voglio dire, è il mio arbitrio. Sono io che scelgo di cominciare con una voce, poi due, poi sei, poi ritornare a quattro, ecc. Così creo già all'interno di un universo, anonimo, se posso usare questo termine, un senso della forma, mettendo io stesso una qualsiasi densità che non è forzatamente determinata. Subito dopo, quando ho cominciato a lavorare al Marteau sans maitre [La composizione dei Marteau sans maitre ha impegnato Boulez dal'53 al '55], ho fatto in modo di avere delle serie contenenti degli oggetti che non fossero"uno - uno - uno" ma in cui ci fossero degli accordi, e tali accordi si potevano descrivere in non importa qual modo [Si tratta della tecnica dei "blocchi sonori", il primo dei criteri introdotti da Boulez per dotare la composizione di un'articolazione formale piú evidente]: ho introdotto cioè il libero arbitrio all'interno di una disciplina per cercare appunto di uscire da questa rigidità. 

Campanino - Quale valore ha avuto l'esperienza di Polyphonie X, opera che si colloca proprio all'inizio dell'avventura seriale?

Boulez - Polyphonie, esattamente, è situata sul cammino che ha portato a questa sorta di totale determinazione. Non era del tutto eteroclita, al contrario, non era per l'appunto abbastanza eteroclita. Curiosamente essa era meno rigida e piú "contrariante". Quando ho scritto il primo libro di Structures, e in particolare il primo dei tre pezzi che lo compongono, c'era una unificazione dei parametri, cioè una cosa estremamente artificiale, poiché la dinamica non è percepita come l'altezza, l'altezza non è percepita come la durata, ecc. C'era, dunque, un tentativo di unificazione anche se ciò si rivelava assurdo quanto alla percezione (non era altro che una comodità, una comodità di scrittura). In Polyphonie, invece, c'erano delle specificità per ciascuna dimensione, cioè c'erano, naturalmente, delle serie di altezze; c'erano poi delle "forme" ritmiche, cioè non soltanto delle durate in serie ma delle "cellule" ritmiche, cosa piú importante; c'erano anche dei raggruppamenti timbrici, che non erano a dodici ma a sei o sette in questo momento non ricordo precisamente. C'era veramente una specificità che era molto più adatta a ciascun parametro, in definitiva. Ma, naturalmente, in quanto ciascun parametro aveva la sua specificità, era molto piú difficile adattare tutto ciò in senso globale. Se avevo, per esempio, delle cellule ritmiche di tre o di cinque note, esse non si adattavano necessariamente con le altezze che erano in numero di dodici; e se avevo dei raggruppamenti di strumenti prefissati, ciò poneva per il registro problemi alquanto complessi. Dunque tutto ciò era nello stesso tempo più specifico - piú adattato, in definitiva - ma infinitamente piú contrariante, ed è per questo che ho ridotto in seguito tutti questi elementi ad un'unità: perché era molto piú facile manipolarli. Il pianoforte, infatti, almeno per quanto riguarda i registri, non pone alcun problema.

 Campanino - In Trajectoires, del 1949, lei affermava di credere che le componenti andassero considerate senz'altro globalmente in vista di uno sviluppo efficace, ma attribuiva a questo stesso atteggiamento la responsabilità della mancata attenzione prestata fino a quel momento ai problemi del ritmo. Qual è stato il suo comportamento di fronte alla contraddizione di dovere separare le componenti per farle evolverei e nello stesso tempo sapere che esse non avrebbero dovuto essere considerate separatamente?

Boulez - Vede, nel periodo di cui stiamo parlando - per quanto riguarda in particolare la separazione delle durate e delle altezze - io ero molto influenzato da Messiaen. Alcune sue opere, tutti i suoi canoni ritmici, in particolare, non sono legati fatalmente a degli intervalli ma sono delle costruzioni già preesistenti sulle quali lui in seguito ha messo qualcosa, sulle quali lui ha creato un fraseggio. Era questo che mi aveva innanzi tutto colpito della sua maniera di procedere. Quasi analogo è d'altronde il caso di certi passaggi di Stravinskij in cui, per esempio, ci sono degli "ostinato" ritmici che sono veramente stabiliti prima di concepire degli intervalli (tutto ciò, in Stravinskij, in una maniera molto piú semplice, certo). In quel periodo ero anche estremamente interessato alla musica del Medioevo. Avevo letto un articolo sui mottetti isoritmici, quelli cioè in cui si hanno delle simmetrie e tutta la costruzione ritmica è concepita praticamente in anticipo. In questo caso dunque si "mette" un linguaggio, diciamo una "grammatica" sonora, su uno schema ritmico già concepito. Ciò mi aveva molto interessato. Naturalmente va da sé che si può concepire poi l'invenzione degli intervalli in funzione della ritmica. Un esempio può essere la terza scena del terzo atto del Wozzek di Berg, in cui assolutamente tutte le note dipendono da un solo ritmo. In questo caso lo scopo da raggiungere è di ordine espressivo, è vero, ma la costruzione c'è: un solo ritmo irriga tutta la polifonia. Si vede, dunque, che per colui che lo faccia intelligentemente il ritmo può benissimo preesistere agli intervalli. Potremmo dire che il ritmo non è qualcosa di "naturale", che cioè dall'invenzione degli intervalli non deriva necessariamente un determinato profilo ritmico.

Campanino - Lei ha realizzato nel 1951 un'analisi di alcuni frammenti della Sagra della primavera di Stravinskij prendendo in considerazione l'elemento ritmico in maniera pressoché isolata e per questo ha ricevuto pesanti critiche. Boris De Schloezer l'accusava di non aver tenuto in considerazione la struttura musicale nella sua totalità. D'altra parte mi sembra che in seguito lei non abbia piú effettuato analisi di questo genere: forse non ritiene piú valido quel tipo di approccio?

Boulez - E vero, non ho piú realizzato analisi di quel tipo, ma devo dire che si è presa questa analisi della Sagra della primavera per ciò che non era. Essa consisteva, e io l'avevo bene annunciato in partenza, unicamente in un'analisi ritmica. Solo quando ve ne fosse stata la necessità si sarebbero indagati altri ambiti. C'è per esempio qualche accenno al linguaggio armonico, ma molto poco; descrivo talvolta gli intervalli, o alcune soluzioni canoniche, ecc., ma lo scopo dell'articolo non è quello di analizzare la Sagra della primavera nella sua interezza. D'altronde io ho analizzato solo alcuni episodi, ed erano gli episodi che mi interessavano in relazione all'innovazione ritmica di Stravinskij. Non era quindi un'analisi del suo linguaggio, assolutamente. Era un'analisi sulla maniera in cui egli ha utilizzato il tempo nella musica, e ciò, trovo, è affatto giustificato separarlo dal resto. Ho ben conosciuto De Schloezer all'epoca, era un grandissimo partigiano della Gestalttheorie, a tal punto che si arrivava a ragionamenti di questo tipo: se si ascolta la quinta sinfonia di Beethoven e dopo le quattro note iniziali si sentono le quattro immediatamente seguenti, bene, - egli diceva - non erano la stessa cosa, perché non erano gli stessi intervalli, là una terza maggiore e qui una terza minore, ecc. Io rispondevo che avevo prestato molta attenzione e, sebbene naturalmente percepissi quelle differenze, ritenevo che ciò che caratterizzava quegli oggetti musicali era tuttavia la singolarità ritmica. Certo, essi non avevano la stessa funzione armonica, ma analizzando ritmicamente erano la stessa cosa. Anche effettuando un ascolto globale si opera, sí, una sintesi, ma si fa nello stesso tempo un'analisi, allo stesso modo in cui se si vede una parola, ad esempio "tavola", essa non è solamente "tavola": è anche "ta-vo-la", tre sillabe, è sei lettere, è una sequenza di accenti forti e deboli, ecc. E se dico per esempio "favola", bene, mi accorgerò che c'è lo stesso numero di sillabe, lo stesso numero di lettere, lo stesso rapporto vocali-consonanti, ma si tratta di due parole che hanno un senso completamente differente. Ciò non toglie che, guardandole contemporaneamente, riconosco subito una struttura comune. E là accade la stessa cosa: se analizzo un pezzo cosí, riconosco - bene - "tavola", "favola", e quindi dico che si tratta di tale o di talaltro accordo; ma poi questo non mi interessa piú. Quello che guardo in seguito è lo sviluppo ritmico. Ciò andava, all'epoca, affatto contro questa specie di "globalità" della Gestalttheorie che voleva che si considerassero sempre tutti gli elementi in maniera unitaria. Questo meccanismo era un po' analogo a quello che si ritrova nei caratteri cinesi. Se si aggiunge "tu" a "uomo" si ottiene "casa": molto bene, voglio dire... ma per i caratteri cinesi!

Campanino - In Per volontà e per caso, riferendosi al primo libro di Structures, lei afferma che a partire dal secondo pezzo si ristabilisce "una certa direttiva in mezzo a quest'universo statisticamente differenziato" e nel terzo la direttiva è ancora piú marcata [Cfr. Boulez, P., Per volontà e per caso, op. cit., p. 55].

Pensa dunque di aver fornito una risposta costruttiva alla

critica di Ruwet già con questa composizione? Oppure in quale opera crede di averla fornita?

Boulez - Credo di averlo fatto esattamente dall'inizio del Marteau sans maitre. Il primo brano che ho composto dopo le Structures è stato quello del Marteau per voce e flauto, il terzo dell'intera composizione. In esso volevo dimostrare - anche a me stesso, del resto - che si poteva inventare qualcosa di estremamente flessibile, morbido, "arbitrario" - ma nel senso buono del termine, cioè con delle scelte possibili, scelta degli intervalli, scelta dei melismi, ecc. - e che c'era malgrado tutto la possibilità di uscire da questa rigidità della costrizione avendo nondimeno una direttività molto forte.

 Campanino - Parliamo ancora del problema del parallelismo strutturale messo in luce da Ruwet. Appare chiaro che per superarlo fu assolutamente necessario valutare piú attentamente i rapporti esistenti tra le differenti sottostrutture - sapere, ad esempio, in quale misura un determinato registro fosse compatibile con una certa gamma di durate, ecc. Ritiene che tali valutazioni riguardino esclusivamente la dimensione percettiva o che in esse intervengano anche considerazioni di tipo "estetico"?

Boulez - Credo che questo problema sia di natura puramente percettiva. Di fatto l'estetica deriva dalla percezione, e proprio per questo è innanzi tutto una questione di percezione. Ed è per questo che lungo la mia evoluzione sono andato progressivamente da una specie di teoria del linguaggio - separata, al momento, dalla percezione - verso la percezione stessa, poiché un linguaggio è una coerenza e una significazione. Se si architettano delle costruzioni che non sono percepite, diventa un po' inutile farle. Non dico che tutte le speculazioni, che tutte le strutture sono fatte per essere percepite. Quando si ascolta un mottetto isoritmico, ed anche se lo si ascolta molto attentamente, è estremamente difficile percepirne le simmetrie. Queste ultime inoltre sono unicamente nel tempo e non negli intervalli, e ciò rende ancora piú problematico la corretta percezione del ritmo. La stessa cosa accade, ad esempio, per certi canoni molto complessi di Bach, in particolare i canoni per aumentazione. In alcuni corali ce n'è di molto lunghi, con una, due pagine iniziali e poi quattro pagine di canone. Ci sono veramente pochissime possibilità di seguire lo svolgimento della struttura, soprattutto mentre le altre parti continuano a fluire in modo libero, perché la memoria si offusca a causa della grande differenza di tempo. Se ancora il canone è esatto la memoria può ritenere un certo numero di informazioni, ma con un'aumentazione e qualcosa al di sopra ciò diventa impossibile. Come ho già scritto una volta, in un testo intitolato L'oeil et l'oreille [Il titolo quì menzionato da Boulez corrisponde in realtà ad un documento sonoro realizzato verso la fine degli anni '70. L'argomento toccato dal compositore si trova esposto in Boulez, P., Lécriture du musicien: le regarde du sourd? in Jalons. (Pour une décennie), Paris, Christian Bourgois Editeur, 1989, pp. 293-315], il musicista "scrive" la musica per cui, fatalmente, c'è un aspetto speculativo dell'occhio - simbolico oppure no, non ha importanza. E all'occhio, certo, lo si "sente" molto bene; tutto ciò che retrograda, in particolare, sembra molto buono. All'orecchio invece lo si percepisce in una certa misura come "insolito". E davo l'esempio, nel periodo classico, della fuga dell'op. 106 di Beethoven. Ad un certo punto in questo brano si ascolta un ritmo che è completamente inconsueto in Beethoven: ebbene, si tratta semplicemente della retrogradazione di un frammento del tutto usuale esposto precedentemente. Ecco dunque che si percepisce che c'è qualcosa di insolito senza comprendene il perché, e ciò vale almeno per la maggior parte della gente. Solo chi conosce la tecnica della retrogradazione può risalire allo stimolo grafico che ha determinato quel risultato sonoro. Allo stesso modo, in Bach, quando si hanno dei canoni molto complicati, molto complessi, si hanno anche dei rapporti di intervalli molto insoliti. Ad esempio i contrappunti rovesciabili: ci sono dei pezzi che terminano sull'accordo di sesta, e ciò non si verifica mai altrimenti. In definitiva, si hanno sempre dei fenomeni che attirano la percezione su qualcosa di inusitato: alcuni di questi sono segnali di una particolare soluzione strutturale.

Campanino - Vorrebbe parlarci brevemente della nozione di "formante",nozione che sembra essere stata di grande rilievo nella sua poetica e nella sua musica?

Boulez - Un formante per me è esattamente una caratteristica o una sovrapposizione di caratteristiche, piú o meno importanti, che diminuiscono, aumentano, ecc. Per esempio, nella mia Troisième Sonate [La composizione della Toisième Sonate, cominciata nel 1955, è ancora in corso], in Constellation - o nel suo contrario, Constellation-Miroir - il primo formante è tra "punti" e "blocchi". E' proprio questo contrasto a costituire la principale caratteristica di questa parte della composizione. Un altro formante è il registro: tutti i punti sono nel registro medio e tutti i blocchi partono dall'estremo per arrivare a ricongiungersi nel mezzo (se si legge Miroir naturalmente è il contrario). Un formante non è una caratteristica acustica né tanto meno una caratteristica motivica o tematica precisa: è veramente qualcosa di sufficientemente generale da inglobare numerose particolarità. E queste particolarità sono, diciamo, caratterizzate o da un tipo di evoluzione, o da un tipo di contrasto, o da un tipo di scrittura.

 Campanino - Potremmo dunque dire che è la varia utilizzazione di differenti formanti a dare il senso della forma?

Boulez - Esattamente.

Campanino - Negli articoli del periodo precedente e contemporaneo alle sue prime opere piú radicali - Polyphonie X e il primo libro di Structures - lei non parla spesso di comunicazione. Solo negli anni successivi la sua attenzione verso questo problema è andata gradualmente incrementandosi. Che valore ha avuto tutto ciò per la sua poetica?

Boulez - Vede, bisogna dire che si hanno continuamente le proprie esperienze. Ad un certo punto mi sono reso conto, sia eseguendo io stesso le mie proprie opere, sia dirigendole, sia ascoltando le opere degli altri della mia generazione, che in quel momento c'era un disagio veramente forte relativamente alla comunicazione. Io ho cominciato con delle opere che erano molto "dirette", diciamo; la mia Première Sonate pour piano [Composta nel 1946], ad esempio, è veramente cosí. In seguito ho voluto trovare un linguaggio che fosse contemporaneamente piú personale e piú elaborato, e c'è stato un momento in cui sono andato veramente molto lontano nell'elaborazione, nella speculazione. Quando ho sentito i risultati mi sono ben reso conto che la speculazione aveva, talvolta, pochissime relazioni con la realtà della percezione. Se, ad esempio, si è fatto un lavoro anche estremamente ben costruito ma che non ha proprio nulla che possa soddisfare la percezione, o nel quale la percezione sia costantemente disorientata o non stimolata, lí evidentemente la comunicazione non ha luogo anche se l'atto sonoro concreto si realizza nell'esecuzione. Dunque, una volta che si è fatta questa esperienza, in primo luogo non la si dimentica e in secondo luogo si cerca di rimediare. Quando ho cominciato a dirigere - ed è stato molto presto, visto che all'epoca dei concerti del Domaine Musical avevo ventisette, ventotto anni - era proprio il periodo in cui ero molto interessato alla speculazione, ma nello stesso tempo ho sempre considerato il lato pratico delle cose. Certo, non amo i musicisti che sono unicamente pratici, perché non scoprono mai nulla; e non amo i musicisti che unicamente speculano, perché non hanno alcun contatto con il materiale musicale e soprattutto con lo svolgimento del materiale sonoro. In fin dei conti si tratta di "sentire": non c'è niente di peggio di un compositore che non "sente", anche qualora gli si suonino le sue cose. Individuo subito i compositori di questo genere, si vede dalla scrittura. Amo invece i compositori che ascoltano le proprie opere e riescono a reagire con esse.

Campanino - Per concludere. Lei ha dichiarato di aver messo in secondo piano, all'inizio dell'avventura seriale, le preoccupazioni "estetiche" [Cfr. in particolare Boidez, P., Per volontà e per caso, op. cit., pp. 59-60]. Si potrebbe però affermare che anche lasciare proliferare il materiale in modo autonomo sia in qualche modo una scelta estetica, la scelta di non scegliere, potremmo dire. A quanti livelli si situano, dunque, le preoccupazioni "estetiche"? Non si attendeva davvero nulla, in questo senso, dal suo viaggio "al limite del paese fertile"?

Boulez - "La scelta della non-scelta", sí, in effetti si trattava esattamente di questo. In tutti i modi, però, non si può fare completamente una non-scelta. Voglio dire che la non-scelta sarebbe esattamente, ad esempio nel caso delle Structures, quella di dare ad un computer una serie di altezze, una serie di registri, una serie di densità, una serie di dinamiche e poi dirgli: adesso sbrogliatela tu. Questo solo sarebbe il vero non-estetico, perché se non si dà assolutamente alcun criterio di scelta, se ciò che si vuole sono semplicemente le cose lavorate in se stesse, si è veramente di fronte all'assenza totale di direttività. Ciò si può realizzare oggi con una macchina - non si hanno poi dei risultati entusiasmanti! - ma esiste. Quel che invece si preferisce è, diciamo, "imitare" tutto ciò, cioè cercare per quanto possibile di prendere le proprie decisioni, tra le tante che si potrebbero immaginare, operando un po' come si vuole. Ma è evidente che dall'istante in cui si "scrive" una soluzione - o anche se si scrivono due o tre o quattro soluzioni, come ho anche fatto un tempo, in cose in cui c'erano diverse scelte - si ha nondimeno un testo che è stato scelto in un dato momento. E dunque, voglio dire, anche in questa "sventurata" prima Structure, il fatto che io abbia scelto dei registri fa sí che ci sia già una scelta estetica. Lí ho scelto dei registri molto ampi, ottenendo sempre dei salti disgiunti: era già un'estetica. Quando la si osserva, quindi, questa struttura si rivela meccanicista e nello stesso tempo presenta tante cose che potrebbero essere altrimenti. IL senso della forma, ad esempio, potrebbe essere diverso. IL brano potrebbe cominciare con una densità di quattro o di sei, o terminare con la densità di uno; si sarebbe cioè potuto avere una descrizione del pezzo davvero differente. Ciò che avrei potuto fare è anche avere dei registri molto differenti, cioè dei registri molto stretti oppure molto localizzati, al grave, all'acuto, ecc. Dunque, all'epoca, volevo cercare di provare che c'era un certo anonimato: anche il materiale iniziale di questa Structure io non l'ho scelto ma l'ho preso da Messiaen, proprio volontariamente, per non inventare qualcosa e per lavorare con un materiale che non era di mia invenzione.

Se guardo retrospettivamente, davvero, vedo delle scelte dappertutto; non si può evitare di fare delle scelte. Dall'istante in cui si scrive, voglio dire, il cervello comincia a comportarsi come una macchina a corto-circuito. Un computer troverà diecimila soluzioni nello spazio di cinque minuti e si può esaminarle una per una. Ma il nostro cervello non le penserà tutte e diecimila: troverà invece una o due soluzioni perché si verificherà un cortocircuito. E' esattamente lo stesso fenomeno a cui si assiste nel gioco degli scacchi al computer. Un giocatore di scacchi, certo, riflette, immagina un certo numero di mosse, non immagina sicuramente le diecimila possibilità che la macchina vede; ma saprà scegliere esattamente tra queste diecimila mosse, pur non vedendole, quelle maggiormente interessanti - una o due, non molte di piú. Un computer può fornire l'elenco di tutte le mosse possibili, ma non scegliere.

 

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