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Filosofia dell'arte e problemi di restauro: il caso di Cesare Brandi
di Cesare Chirici


Il grande sviluppo che ai nostri giorni è stato raggiunto dalla disciplina del restauro, con la straordinaria proliferazione di interventi di ogni genere in atto sul nostro territorio, costituisce la testimonianza incontrovertibile di un successo operativo la cui risonanza, indipendentemente dalle occasioni più o meno liete che la suscitano, eccede tuttavia di gran lunga l'auspicabile conforto di un più circostanziato fondamento teorico-critico e metodologico che vada ben al di là di una semplice ricognizione tecnico-storica e scientifica degli interventi o, in circostanze meno occasionali, di una meno implicita e più articolata motivazione critica dei suoi presupposti. A parlare di restauro, dei suoi effetti visivi nonché dei risultati eclatanti che ne suggellano le singole operazioni, sono veramente in molti fra gli addetti ai lavori e non, e la sensazione che se ne trae è quella di un'attività destinata a superare le più ottimistiche previsioni e aspettative culturali, producendosi in una vera e propria "restituzione degli antichi valori" messi a repentaglio dal tempo e dagli uomini. E' alquanto difficile trovare, almeno da noi, testimonianze di un atteggiamento meno disponibile verso quell'ottimismo diffuso che ormai caratterizza le iniziative e le affermazioni dei responsabili del restauro, e che influenza a tal punto l'opinione pubblica da farle credere che restaurare un'opera significhi non tanto conservarla il più possibile ma farne rivivere i fasti di una volta, come se la ruota del tempo potesse girare a ritroso ed il passato mostrarsi interamente nella sua verità incontrovertibile.

Le cose stanno alquanto diversamente, almeno a nostro avviso, e ciò deriva soprattutto da una presa di posizione che fa appello a talune discipline (come la filosofia dell'arte) che non sono direttamente coinvolte nel processo di discoprimento storiografico dei veli che nascondono la presunta verità del passato ma che possono fornire strumenti utili per un'adeguata problematizzazione di tali questioni. Agendo, per così dire, a latere, esse minano in realtà taluni convincimenti, avvertendo che il senso complessivo dell'operazione di restauro non possa prescindere dai risultati di una riflessione teorica che da qualche tempo ha posto a repentaglio le antiche certezze circa la possibilità di un recupero tout court della tradizione. Nonché restituire un passato nella sua monocorde e univoca verità storiografica, l'operazione di restauro sembra in realtà non poter far altro che attualizzarne le potenzialità che esso nasconde, conferendo all'operazione un significato critico e creativo che la sottrae a qualsiasi vocazione retroattiva. L'esito di un tale ragionamento è completamente diverso da quello che si deduce dalle riflessioni più diffuse nel settore: più che farsi portavoce di una ricognizione storiografica e critica volta a strumentalizzarlo ai fini di una constatazione veritativa inoppugnabile suffragata dagli apporti della scienza, il restauro tende a sottrarsi a ciò per collocarsi sul versante di una vera e propria riformulazione testuale. Essa racchiude peraltro, al suo interno, le diverse implicazioni legate ai differenti effetti prodotti sul fruitore nel corso dei tempi, effetti che non consentono alcun ritorno a una fonte testuale primaria ma costituiscono il risultato di una condensazione visiva delle molteplici stratificazioni di cui l'opera è testimone con la propria storia.

Uno degli equivoci più diffusi nell'esercizio della nostra disciplina è quello che riguarda il recupero dell'originale, sbandierato sovente con ostinata pertinacia. L'operazione di restauro viene considerata necessaria soprattutto in funzione di un tale recupero, e l'eliminazione di tutto ciò che ostacola o rende quantomeno difficile la piena lettura dell'opera viene considerata pre-condizione ai fini di un ritorno al testo originario. Si ricordi a questo proposito la diltheyana sospensione retroattiva della coscienza storica, che si muove a ritroso sospendendo il proprio rapporto col vissuto esistenziale per muoversi liberamente in un tempo altro. A nostro parere non appare possibile alcun ritorno al testo originario: il risultato del restauro non è un'operazione a ritroso, ma è la riformulazione di un'ipotesi che serve a rendere fruibile e a sottoporre il senso stesso dell'opera alle condizioni di possibilità della nostra percezione e della nostra interpretazione, che sono diverse da quelle di un tempo e non consentono alcun recupero del vero senso di un testo. Lo stesso Brandi, teorico del restauro sovente malinteso, parlando della fruizione di un'opera restaurata e resa quindi più perspicua ai fini del suo riconoscimento, sottolinea che si tratta di un approccio che implica la ricognizione critica di tre modalità del tempo che l'opera condensa in sé: il tempo della formulazione (celato segretamente al suo interno), quello che ne racchiude coi suoi segni l'esistenza o il Bios (per dirla con Umberto Baldini) ed infine quello relativo alla sua recezione storicamente determinata che la materia dell'opera d'arte al momento consente e manifesta. Una tale articolazione esclude tassativamente, nelle sue differenziate scansioni diacroniche, che appaiono coestensive all'opera e al tempo stesso chiaramente percepibili attraverso una serie di riscontri intuitivi e analitici, ogni possibilità di rendere il tempo reversibile. L'incontrovertibile lucidità di una tale affermazione, con le sue inevitabili conseguenze critiche che se ne possono trarre, costituisce uno degli apporti più significativi delle riflessioni del critico senese, ma viene spesso fraintesa nelle considerazioni sul restauro che non fanno tesoro di un approccio complessivo assai originale ed insolito, ove estetica, critica e storiografia dell'arte sono tra loro strettamente intrecciate.

La teoria del restauro non ha fatto molti passi avanti, soprattutto nel settore delle discipline pittoriche, dopo le considerazioni brandiane, che rappresentano la singolare testimonianza di un impegno teorico e storiografico tre i più significativi nel panorama della nostra storiografia dell'arte e richiedono una profonda comprensione dell'insieme delle sue argomentazioni, svolte su vari piani. Il critico senese fa i conti con una serie di problemi che vanno bel al di là dei confini tradizionali entro i quali si dispiega, non di rado con sussiego e compiacimento, la storiografia dell'arte più abituata a una mappatura acquetante del patrimonio artistico, alla ricerca per ogni testimonianza sottoposta al restauro della propria casella attributiva e temporale, quasi si trattasse di una questione di mera tassonomia e collocazione di "cose" nel quadro di eventi agevolmente ricostruibili. Il Brandi intendeva la critica come una questione destinata a impegnare una più profonda riflessione sui fondamenti stessi del pensare la storiografia e le opere d'arte, e tale sforzo non poteva escludere il restauro che costituiva un "momento" irriducibile della restituzione dell'opera al circuito della fruizione e dell'interpretazione. L'importanza del critico senese è stata quella di aver cercato per la nostra disciplina un fondamento teorico adeguato che avesse il suo punto di riferimento, insieme con la stessa storiografia, nella riflessione filosofica, alla quale la tradizione attribuisce un ruolo centrale sia per la messa a fuoco dell'arte e delle sue diverse manifestazioni storiche che dei fondamenti della stessa storiografia, altrimenti ridotta a mero determinismo nel quadro di un positivismo rivisitato. La filosofia dell'arte non consentiva, a chi si mostrasse disposto a ripercorrerne alcune formulazioni a partire dalla riflessione idealistica fino ai suoi più problematici sviluppi successivi, culminati nel pensiero di Husserl ed Heidegger, un approccio al problema del restauro che potesse configurare tale disciplina come una sorta di supporto ancillare al recupero e al dispiegamento veritativo dell'originale. Il restauro diveniva per Brandi qualcosa di più complesso, che entrava in gioco nella stessa interpretazione dell'opera d'arte come suo momento metodologico essenziale, destinato a divenire coestensivo alla stessa attività critica della coscienza, che è attività creativa nel momento in cui con la stessa operazione restaurativa "riconosce" l'opera d'arte. Ma la coscienza che intenziona l'opera d'arte e che ne consente la recezione tramite la stessa operazione di restauro è una coscienza storicamente fondata e l'interpretazione, che fa aggio sulla percezione, trova nella materia come tramite dell'opera (che in quanto tale ne impronta la manifestazione epocale e la stessa fisicità che l'esprime) la referenza ineludibile per la stessa comprensione, che assumerà il restauro come momento metodologico della medesima. Il restauro fa corpo con la percezione e costituisce il presupposto della stessa circolazione mondana del manufatto: l'alternativa è una conservazione tout court.

L'espressione brandiana "riconoscimento dell'opera d'arte" mira ad escludere il rischio che l'interpretazione cui dà corpo lo stesso intervento sia qualcosa di "creativo" tout court e quindi conferisca al restauro una finalità che ecceda i confini di una sorta di metalinguaggio. Ma non è dubbio che se di metalinguaggio dobbiamo parlare, quando è in gioco un problema di restauro, tale accezione non implica affatto che la referenza testuale cui l'intervento si riferisce sia deducibile sic et simpliciter dalla rete dei rimandi cui il testo debba rinviare tout court per decifrarne il contenuto. Nell'economia del discorso brandiano si esclude che tra l'opera e il contesto in cui essa nasce esista una relazione di dipendenza, o quanto meno un rapporto vincolante e tale da fornire di per sé gli elementi necessari per la sua corretta interpretazione. Il rapporto stretto tra l'opera e il suo sfondo originario, suscettibile di fornire le coordinate della sua lettura, viene revocato in dubbio sin dall'inizio dalla particolare connotazione che, insieme con la critica, riceve il restauro nell'economia del discorso brandiano, secondo cui l'oggetto dell'intervento è un'opera d'arte. Costei è tale in virtù di una particolare disposizione della coscienza intenzionante, che fonda quel giudizio esclusivo in base alle leggi della percezione, che eccepisce la particolare fisionomia dell'opera qua talis da ogni esplicito riferimento ai "contenuti" che pur essa custodisce e che si riferiscono allo sfondo storico che la vide nascere. L'investitura di opera d'arte libera la testimonianza dai legami con la mondità e le conferisce un particolare valore, che la rende attuale e la svincola dal proprio contesto per collocarla in una sorta di extratemporalità.

In questa prospettiva, se l'opera d'arte è tale in virtù di una prerogativa che la fa essere sempre presente, sempre attuale, indipendentemente dalla sua origine storica (senza che quest'ultima venga peraltro negata insieme con le vicende successive della sua esistenza singolare), il restauro, che si muove di concerto con l'interpretazione e anzi ne costituisce la sua vera e propria estrinsecazione mondana, è momento vitale del riconoscimento dell'artisticità e quindi acquista di per sé un particolare ruolo, non di mera conservazione ma di revitalizzazione e attualizzazione (sono qui presenti chiari riferimenti alle coeve riflessioni heideggeriane). Il suo eventuale carattere di metalinguaggio, come si diceva in precedenza, è legato al fatto che si tratta pur sempre di un'ipotesi riproponibile a debita distanza di tempo, nel qual caso la referenza dell'opera, la matrice cui pur sempre il restauro deve far riferimento, è collocata in una sorta di luogo virtuale dell'esperienza che viene rinverdito dalla continua prensione della coscienza storica nel momento, sempre nuovo, in cui l'opera fa il suo ingresso nella circolazione mondana. Il metalinguaggio, in questo caso, è tale solo in relazione al "linguaggio" dell'opera d'arte che sfugge sia alle regole della spiegazione razionale che ai legami che la vincolano al proprio tempo originario.

Nell'economia di un tal discorso è difficile contenere il restauro nei limiti di un approccio metalinguistico di natura filologica e meramente constativa, volto a conservare una testimonianza per consegnarla come tale al futuro senza assumere impegni che vadano al di là di una semplice ma al tempo stesso importante e distaccata salvaguardia. Il restauro diviene un momento vitale dell'interpretazione, un'operazione coestensiva alla restituzione in circuito dell'opera e alla sua valorizzazione pubblica, un viatico necessario alla stessa diffusione, nonché fruizione culturale del manufatto. Si può ben dire che senza l'operazione di restauro l'opera non sembra presentare le condizioni fisiche e strutturali necessarie ad essere recepita ed apprezzata. Il restauro in tal caso può essere anche qualcosa di virtuale, nel senso che la cultura restaurativa dell'epoca fornisce i presupposti per l'apprezzamento dell'opera che fanno parte del sistema d'attese del fruitore indipendentemente dal fatto che determinati manufatti si manifestino appieno con quelle credenziali o che siano stati realmente restaurati. Ad esempio, la nostra epoca è caratterizzata da un modo di restaurare che tende a evidenziare al massimo le varianti cromatiche dei dipinti antichi, facendo quasi il verso alle opere pittoriche contemporanee, realizzate ad es. coi colori acrilici, le quali fanno evidentemente da volano in queste circostanze. Tutto ciò costituisce una caratteristica ormai imprescindibile e tale da influenzare le nostre assuefazioni visive e il nostro approccio alle opere. Il nostro sistema di attese così forgiato dalla attuale cultura del restauro rende la vita difficile ad ogni atteggiamento che non rientri in quelle caratteristiche e che quindi per conseguenza viene considerato obsoleto e sbagliato. La tendenza omologante della nostra società rischia peraltro di creare consuetudini che offrono poco spazio a voci e atteggiamenti non allineati, che forse nel restauro potrebbero assumere una loro validità e una funzione di stimolo per evitare l'imporsi di un monocorde gusto dominante.

L'importanza del Brandi, come si diceva, è quella di aver insistito sulla rilevanza del restauro come fatto coestensivo alla critica d'arte e momento vitale della restituzione delle opere alla circolazione e fruizione culturale. Si tratta di un atteggiamento che ha poco a che fare con una visione della nostra disciplina come mera operazione ricognitiva e constativa. Il restauro revivifica l'opera, perché convive con la critica, la invera e autorizza il transito della medesima al presente della coscienza individuale. Senza restauro non si dà luogo a transiti di senso, non si effettua il passaggio da un passato "sospeso" e virtuale a un presente che rimette in circolo e revivifica una referenza indeterminata. Tutte le concezioni conservazioniste del restauro presentano qualcosa di freddo ed asettico, scostante, rispetto ad un modo così vitale e creativo di concepire un'operazione senza cui avremmo a che fare soltanto con mere "ombre esangui del passato"

La vitalità di questo rapporto col passato non dipende tuttavia da "ricostruzioni" storiografiche, da una semplice questione di anagrafe attributiva che il restauro si limiterebbe semplicemente a suffragare a sostegno di una mera tassonomia topografica e attribuzionistica. In ciò sta la rilevanza delle riflessione brandiana, la sua particolarità nel panorama degli orientamenti teorici che sempre accompagnano i contributi storiografici di una mente originale e penetrante, che indaga i fondamenti di una disciplina. Se il restauro si misura con l'opera d'arte e la sua critica implicita comporta una prensione "vitale", allora la critica non abdica a un ruolo di selezione e di giudizio che richiede una scelta senza cui il passato diviene ricettacolo di "monumenti involontari" (per dirla con Riegl), di un insieme affastellato che si impone nella sua sterminata uniformità, che occorre far proprio senza residui.

E' viva nel discorso brandiano la questione delle scelte, il problema dei valori che il presente si dispone a suffragare, la necessità di operare per taluni versi come nelle epoche preindustriali, ove il rapporto con la storia non si stabilisce in virtù di una visione onnicomprensiva e unificante del passato ma di scarti selettivi che contemplano memoria ed oblio. Il rapporto coestensivo tra restauro ed opera d'arte viene stabilito proprio in funzione di una scelta culturale che rifiuta appiattimenti edificanti e omologazioni indifferenziate, conferendo alla critica un ruolo non meramente burocratico ma attivo e valutativo che essa è venuto perdendo nel corso del tempo.

Il rapporto col passato pare istituirsi vieppiù sulla base di una crisi dei valori e di una perdita dei legami con la tradizione che la critica otto-novecentesca ha analizzato con particolare acume. Il Brandi si colloca all'interno di questo orizzonte: per lui se il passato non transita agevolmente al presente occorre stabilire dei legami più profondi di quelli che la storiografia tradizionale cerca di mantenere limitandosi tuttavia a un atteggiamento meramente ricognitivo e documentario.

  

Il restauro come critica: riconoscimento  o ri-creazione ?

Le riflessioni di Brandi sul restauro, che mutuano dal Denkmalkultus di Alois Riegl alcune questioni importanti come quelle del "valore dell'antico" e del "valore artistico relativo", costituiscono nel loro genere forse l'esempio più significativo di un approccio sistematico al nostro problema, in quanto coinvolgono tutto il pensiero dell'autore (sui legami della Teoria con una particolare concezione estetica si è soffermato giustamente Paolo Montorsi, in un suo contributo recente sul restauro dell'arte contemporanea). Nel tentativo di cogliere il senso del suo discorso s'è cercato anche di richiamare quegli spunti in cui il Nostro vuole indagare la specificità dell'arte contemporanea, rilevandone il suo carattere di "segno" e la sua vocazione all'effimero e al transeunte. E' in questo frangente "segnico" che l'intenzionalità della coscienza, senza cui non può darsi alcuna ricognizione del senso dell'artisticità, fa emergere in tutta la sua portata la funzione dello spettatore, che assume pian piano un ruolo assai più attivo nell'interpretazione e pone a repentaglio quel "circolo chiuso" della testimonianza che costituiva nel caso del patrimonio storico una conditio sine qua non dell'approccio critico- restaurativo in termini di riconoscimento. Inutile dire qui quanto il rilievo che lo spettatore assume nella determinazione dell'artisticità sia importante nel settore dell'arte contemporanea, a partire dagli anni Sessanta del Novecento.

E' proprio la "segnicità" dell'arte contemporanea, il suo anteporre una declinazione semantica in nome di una funzione "transitiva" dello stesso significante che la riveste, ad esaltare il ruolo attivo del recettore ed a farne gradualmente un protagonista dell'interpretazione, idest conservazione. L'intenzionalità della coscienza, nel frangente socio-culturale in cui viene pienamente a manifestarsi questa particolare connotazione dell'artisticità contemporanea ove il significato fa aggio sul mezzo che l'esprime, rischia di relegare il problema della conservazione della materia a un rango più modesto, se quest'ultima viene considerata qualcosa che sussiste e che riceve pertanto investitura proprio dall'interpretazione stabilita dalla coscienza stessa. E' all'interno di quest'ultima, di una coscienza fenomenologica foriera a pieno titolo di un'estetica della ricezione, che si gioca una partita decisiva in cui viene chiamata in causa quella critica come riconoscimento che assume, anche indipendentemente dalle intenzioni del Brandi, una diversa e assai più decisiva caratterizzazione.

Se per il Brandi il restauro è fatto critico, il problema è di analizzare la funzione della critica, che è duplice: essa si occupa dapprima dell'essenza dell'opera in quanto opera d'arte, e successivamente dell'opera in quanto maturata in un certo mondo e in una certa cultura nonché offerta all'esperienza delle generazioni successive. I due tipi di critica sono interagenti ed evidenziano comunque il rilievo dello spettatore e il rapporto dialettico da istituirsi con l'opera, con conciliazioni sempre nuove. L'opera non può essere oggetto di mero rispecchiamento: la ricezione come critica oltre ad essere imprescindibile diviene elemento attivo (e qui i legami con la riflessione riegliana sono innegabili).

Il restauro è atto critico, e in quanto tale non restituisce all'opera la semplice funzionalità eventualmente perduta. Esso presuppone il riconoscimento dell'opera d'arte, che è individuale e avviene storicamente. Perché opera d'arte vi sia, essa va riconosciuta in occasione delle diverse recezioni che si effettuano storicamente nell'intervallo che trascorre dalla formulazione d'immagine al momento della sua fruizione nel presente della coscienza storica: tutto ciò, afferma il Brandi, indipendentemente dalle premesse ideologiche o filosofiche. Egli non ritiene che i pregiudiziali orientamenti teorici debbano esercitare un diritto di prelazione decisivo ai fini di quel riconoscimento dell'opera che precede il restauro. Anche a dipartirsi da presupposti ad es. pragmatisti, il riconoscimento resta essenziale ai fini del restauro dell'opera d'arte.

Tale riconoscimento è legato all'essere nel mondo di ciascun individuo e al presupposto della fisicità e concretezza strutturale dell'opera, che è un punto inoppugnabile da cui prendere le mosse. La differenza tra una concezione idealista e una pragmatista è però questa: la seconda afferma che ogni volta che l'opera d'arte è riconosciuta come tale dalla coscienza "essa viene ricreata". Il Brandi, dopo aver richiamato questa considerazione di Dewey, aggiunge che "fino a quando questa ricreazione o riconoscimento non avviene, l'opera d'arte è opera d'arte solo potenzialmente, o, come noi abbiamo scritto, non esiste che in quanto sussiste, in quanto cioè, come risulta anche da Dewey, è un pezzo di pergamena, di marmo, di tela".

Importante e pregiudiziale è quindi il riconoscimento o la ricreazione perché l'opera d'arte sia tale, ai fini dello stesso restauro. Non è tuttavia una questione da poco il fatto che il riconoscimento dell'opera d'arte avvenga in base a presupposti filosofici differenti: se ad es. per il Dewey esso coincide con la ri-creazione, la conseguenza che ne deriva è di grande portata per lo stesso restauro, anche se il Brandi pare sottovalutare un'eventualità del genere. Se l'arte che si riconosce si ricrea ogni volta, diviene difficile accettare una concezione del restauro ispirata ai presupposti del rispetto assoluto per l'originale, della difesa dell'istanza storica, ecc. Il Brandi non sembra poter assimilare le due operazioni, senza sottolinearne le diverse conseguenze. Ciò tuttavia non accade, forse, perché il critico senese, partendo da una concezione "idealistica", ritiene che ogni riconoscimento divenga di fatto una sorta di ri-creazione, ed in ciò emergono gli assunti "crociani" rivisitati in seguito alla sua frequentazione fenomenologica, legata ab initio assai più ad Husserl che ad Heidegger.

Se riconoscimento e ricreazione trovano uguale plausibilità, pur all'interno di posizioni diverse, come s'è visto, le conseguenze per il restauro non possono esser lasciate sotto silenzio, anche se il Brandi insiste molto, nella sua Teoria, sul fatto che il restauro ha a che vedere con una testimonianza del fare umano che si presenta come un circolo chiuso che non si può riaprire, e ciò implica l'impossibilità di "ricreare" l'opera stessa.

Il riconoscimento o la ricreazione precedono dunque l'intervento, e ciò è abbastanza ovvio, se si rimane all'interno di quelle coordinate. Un restauro destinato all'opera d'arte deve subordinarsi ai presupposti che lo governano e lo dirigono. L'opera potrà essere restaurata anche in funzione di un'eventuale restituzione funzionale, qualora si tratti ad es. di un'opera architettonica o di arte applicata, ma questa modalità diviene complementare "rispetto alla qualificazione che l'intervento riceve dal fatto di dover essere attuato su un'opera d'arte".

I procedimenti pratici di restauro non possono servire ad articolare il suo concetto, che dipende dall'artisticità. Nessuna operazione pratica contribuisce a definire il restauro nella sua sostanza. I procedimenti pratici restano ancorati ineluttabilmente alla sussistenza dell'opera d'arte come materia, in termini ad es. di pergamena, marmo, pigmenti, ecc. Il riconoscimento è atto meramente coscienziale, e non ha nulla di coestensivo all'operazione concreta che resta confinata a un ruolo destinato a garantire una sussistenza pura e semplice. Se l'opera d'arte non viene riconosciuta rimane solo un oggetto tra gli altri, il cui destino dipende dal riconoscimento. Un riconoscimento mancato può essere fatale per l'opera poiché ne relativizza la persistenza, legata soprattutto all'uso pratico e alla contingenza di quell'uso nell'economia della rete di relazioni mondane che lo legittimano.

Una volta che il riconoscimento intenzioni l'oggetto come opera, quest'ultima si trova a ricevere un'investitura mirante ad eccedere la persistenza consueta degli altri prodotti del consorzio umano, e qui nascono i problemi perché la resistenza al tempo soggiace a regole che premono sull'inevitabile contrasto tra matericità e oggettualità della testimonianza. L'eccedenza rispetto a quel rapporto coestensivo investe problemi non irrilevanti, sulla cui soluzione è difficile pronunciarsi. Il giudizio di artisticità è l'espressione di una coscienza storicizzante che individua il valore originario dell'artisticità nell'economia di una sorta di ritorno che configura la genesi alla luce di un compimento, l'immediatezza alla luce della mediazione, un inizio alla luce di uno sviluppo. La coscienza dell'arte è l'espressione di un ritorno alle origini che si verifica alla fine di un periplo all'interno della psicologia della coscienza percettiva dell'interprete.

Dunque, per il Brandi l'opera d'arte condiziona il restauro, non c'è restauro che non presupponga il riconoscimento dell'opera. Quest'ultima fa il suo re-ingresso nel mondo dopo la sospensiva creata dall'atto critico che esercita una sorta di "riduzione" rispetto all'oggetto. Una volta 'ridotto', l'oggetto ritorna a vivere con questa nuova credenziale che richiede un particolare trattamento. Ogni restauro che si verificherà sarà connesso col legame iniziale che lo stesso stabilisce con l'opera d'arte al momento della recezione che produce l'epoché. L'investitura artistica dell'oggetto presiederà ad ogni restauro che l'oggetto stesso subirà: l'atto iniziale non è altro che il presupposto al cui nome gli interventi successivi devolveranno le proprie istanze e i propri obiettivi.

Quanto dell'opera sussiste non solo come prodotto umano ma soprattutto come materia (dato, fatto "esterno") dipende dall'atto primo propiziato dall'istanza estetica, che non emargina tuttavia l'altro polo, legato alla storicità e al premere dell'opera nel mondo come prodotto dell'uomo, realizzato in un certo tempo e luogo e fruito in tempi e luoghi diversi da quello che lo vide nascere. La materia come qualcosa di esterno e dato costituisce una sorta di residuo ineffabile rispetto alla bipolarità con cui l'opera si presenta per Brandi alla coscienza L'espunzione della materia rappresenta, tutto sommato, un "residuo" idealistico che la fenomenologia tende a conservare, soprattutto se la si intende nell'economia della riflessione husserliana. Un'attenzione a tale problema viene riservata in modo originale da Heidegger, nella sua nozione di Erde (terra) che postula una plausibile resistenza dell'implicito o dell'indefinito rispetto all'apertura che regola i rapporti tra le cose del mondo esistenziale.

La consistenza fisica non è tuttavia irrilevante nel discorso brandiano, se egli definendo il restauro come "momento metodologico del riconoscimento dell'opera d'arte " parla proprio della " fisicità " per giungere alla polarità estetica e storica dell'opera. La consistenza della materia appare e scompare all'orizzonte della riflessione del Nostro. Dice infatti il Brandi: " la consistenza fisica dell'opera deve necessariamente avere la prevalenza, perché rappresenta il luogo stesso della manifestazione dell'immagine, assicura la trasmissione del'immagine al futuro, ne garantisce quindi la ricezione nella coscienza umana". L'opera è importante soprattutto nella sua fisicità ai fini della sua conservazione al futuro. La coscienza individuale che riconosce l'opera d'arte diviene coscienza universale, e incombe sul "riconoscitore" la responsabilità di promuovere la conservazione, che si snoda su una gamma infinita di comportamenti, dal rispetto all'intervento più radicale. Qui il Brandi implicitamente giustifica l'accostamento tra ri-conoscimento e ri-creazione, effettuato all'inizio del capitolo, rischiando di attrarre il primo nell'orbita della seconda, e quindi di stabilire un'egemonia della coscienza estetica che rappresenta l'elemento più dirompente e pervasivo del restauro critico nei confronti dell'oggettualità della testimonianza. Si tratta di una questione assai delicata, e l'oscillazione che in merito mostra il suo pensiero denuncia la difficoltà di contenere la critica nei dovuti limiti, conformemente cioè alle precisazioni in merito al riconoscimento che il Brandi ha modo di fare sia nella Teoria che in un altro suo famoso testo, Le Due vie.Se la critica consistesse nel mero "riconoscimento" di qualcosa che persiste indipendentemente dalla scelta operata dall'atto critico stesso, il restauro dovrebbe limitarsi a conservare l'oggetto di quel riconoscimento che in qualche modo esercita una certa prelazione anche rispetto alla coscienza che lo coglie uscendo dagli stessi confini dello husserlismo cui Brandi pare aderire (c'è un momento nel suo discorso ove egli, parlando dell'opera d'arte, sembra implicare un qualcosa che sta al di là della coscienza che la coglie). Se invece la coscienza "decide" rispetto al riconoscimento, come si evince in sostanza dal suo pensiero, allora è difficile che il restauro "conservi" una testimonianza che s'impone all'interno di un circolo chiuso. Il dilemma è rilevante, e corrisponde al dilemma interno alla riflessione teorica dell'autore, che è attratto da trascendentalismo husserliano pur essendo al tempo stesso influenzato dall'ontologismo heideggeriano.

 Il Brandi non abbandona comunque il terreno della consistenza fisica dell'opera d'arte cui fa aderire il concetto di conservazione, che meglio vi si attaglia. "Per questa consistenza materiale dovranno farsi tutti gli sforzi e le ricerche perché possa durare il più a lungo possibile". Egli quindi si sofferma sulla conservazione della consistenza fisica, ma lo fa sulla base della pregiudiziale del riconoscimento. Una volta che l'opera è riconosciuta si può restaurare, se ve n'è bisogno, agendo sulla materia. Si restaura solo l'opera in quanto sussiste come materia. La forma dell'opera preesiste al restauro: quest'ultimo riceve un'adeguata investitura solo in occasione del riconoscimento, pur agendo soltanto sulla fisicità del manufatto. In altri termini, l'atto di restauro non decide dell'opera d'arte ma soltanto della sua materia.. Qui torna di nuovo la distinzione tra materia dell'opera d'arte e opera d'arte; la critica precede il restauro, e il restauro segue i dettami della critica. C'è una critica come restauro solo se essa è intesa come una pre-condizione dell'intervento che la invera, garantendo la trasmissione al futuro dell'opera conservata. Il restauro come atto pratico non è critica, è tecnica, è prassi, il restauratore è un "tecnico".

Eppure, il concetto brandiano di materia dell'opera d'arte non è poi del tutto coestensivo a quella sua costituzione fisica che, in quanto tale, rimane appannaggio della scienza. Al di là della materia che può essere scientificamente investigata e che riguarda la mera prassi di restauro da intendersi come momento secondario rispetto al riconoscimento che lo promuove, se ne individua un'altra accezione, che la caratterizza come entità interna all'immagine. Appare qui una chiara e non prevista distinzione tra materia e mezzi fisici. I secondi vengono definiti come mezzo affinché l'immagine si manifesti, mentre la prima esercita qualche prelazione in più rispetto ad es. alla tradizione idealistica che l'ha sempre sottovalutata.

Afferma il critico senese che nel rapporto con l'opera "la materia acquista una precisa fisionomia ed è allora in base a tal rapporto che deve essere definita". E' con l'opera d'arte che la materia risalta, diversamente da quanto avviene per l'oggetto mondano che sta dentro una rete di relazioni strumentali. La materia qui sembra costituire un momento essenziale all'opera e ciò non soltanto perché essa rappresenta il tempo e il luogo dell'intervento.Fenomenologicamente, la materia concorre all'apparizione dell'opera come un qualcosa, però, che s'ostende come "quanto serve all'epifania dell'immagine".

La fenomenologia rinuncia alla sostanza per l'apparenza, e in ciò conta la Wirkung che la materia produce sulla coscienza, l'effetto di immagine (che presuppone un distacco rispetto all'esperienza sensibile più coinvolgente e rimane più "segnata" dall'approccio con la realtà). Al Brandi, fenomenologicamente, non interessa l'ontologia dell'immagine, il problema cioè di una più complessa provenienza dell'immagine stessa. Tutto si sposta sul recettore, su un soggetto intenzionato in termini contemplativo-intuitivi più che logico-dialettici. Dapprima la materia è ciò che serve all'epifania, poi essa diviene l'epifania; ciò che serve si ritrae ostendendo, l'epifania si ostende ma al tempo stesso nasconde qualcosa in ciò che ostende. Questo qualcosa che è nascosto Brandi lo chiama struttura, anche nel tentativo di non ridurlo a un'entità meramente accessoria perché non tematizzabile.

Ciò che appare non tematizzabile (la materia dell'opera d'arte come qualcosa di coestensivo ma non facilmente esplicitabile) viene in realtà tematizzato operando una cesura che produce un'oscillazione simile a quella relativa alla bipolarità originaria dell'opera d'arte che è dialettica ma anche conflittuale: quest'ultimo aspetto richiama proprio quella dimensione non tematizzabile della materia che da struttura si traduce in epifania e svanisce risolvendo ogni contrasto.

Astanza-semiosi, segno-immagine, struttura-aspetto, storia-estetica, sono le bipolarità che Brandi esibisce e che fanno capo a una dialettica positiva la cui sintesi non può che implicare l'antitesi affinché l'esito sia favorevole al primo dei due termini senza che l'altro sia vanificato. La dialettica di quegli opposti è costrittiva, nel senso che ambedue hanno agio di contemperarsi-compenetrarsi salvo rari casi di conflitti, peraltro suscettibili di "conciliazioni sempre nuove".

Aspetto e struttura non sono facilmente distinguibili, né ciò è sempre possibile ai fini pratici. La bipolarità di aspetto e struttura non è così limpida, lascia intendere Brandi, in certi casi, mentre in altri occorre postularla considerando la rilevanza che la materia assume nella sua costituzione fisica in seguito all'elaborazione tecnica dell'artista che la trasforma in immagine. La storicizzazione della natura attuata dall'uomo richiede una particolare ricognizione critica della materia che Brandi risolve a favore dell'apertura di un'incolmabile discontinuità tra struttura e aspetto. Sul fatto che la dimensione strutturale della materia costituisca un qualcosa di non tematizzato adeguatamente si sofferma lo stesso Brandi, affermando che "l'aver trascurato, come avviene nelle estetiche idealistiche, il ruolo della materia nell'immagine, deriva dal non aver riconosciuto l'importanza della materia come struttura, arrivando allo stesso risultato d'assimilarne l'aspetto all'immagine ma dissolvendola come struttura".

Brandi sottolinea quindi l'importanza della struttura per non dissolvere il ruolo della materia nell'opera d'arte, ma non fa molti passi avanti oltre questa sottolineatura, oscillando tra riconoscimento e misconoscimento della questione. La polarità, e la dialettica ad essa relativa, finisce per far gravitare l'assunto verso la direzione meno impervia, cercando a sostegno della soluzione più agevole corollari che servono soprattutto a stornare il discorso che s'è iniziato nel momento in cui il terreno appare più difficile da dissodare.

 

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