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Dalla centralità dell’opera alla centralità dell’artista: Marcel Duchamp

di Carla Casu

È opinione condivisa che uno dei tratti distintivi dell’arte moderna – forse il principale – sia l’aspetto prettamente concettuale dell’opera d’arte. Ben prima della stagione del concettuale propriamente detto l’opera d’arte, inizia infatti una lenta trasformazione del suo statuto oggettivo che la porta a somigliare sempre meno a un manufatto e sempre più a un enunciato.

Crocevia di questa trasformazione è senza dubbio il ready-made e, più in generale, tutto il lavoro di Marcel Duchamp. Con lui l’opera d’arte intesa in senso classico, come espressione di valori formali, lascia il passo a un’arte che non ha più il suo fondamento nei valori visivi. Una rivoluzione che, a ben vedere, pone le sue premesse già nell’Ottocento quando la nascita della fotografia da un lato e le proto-secessioni realista e impressionista dall’altro mettono per la prima volta in discussione la natura stessa della mimesi. Altri movimenti indagheranno a fondo i meccanismi della visione ma sarà un pittore solitario a scomporre per primo la realtà in volumi astratti: toccherà a Cézanne infrangere lo specchio della rappresentazione provocando una miriade di frammenti che potranno essere ricomposti solo con l’ausilio di una valida teoria. Seguendo una linea che attraversa, a partire dal Padiglione del Realismo (1855), tutta la seconda metà del XIX secolo, gli artisti prendono inoltre a organizzarsi in gruppi, diciamo così, di rivolta, dando vita a un circuito espositivo alternativo alle esposizioni ufficiali.

Con questi presupposi, sin dal primo decennio del Novecento le Avanguardie stabiliscono una sorta di primato intellettuale dell’arte, pur restando in un ambito propriamente figurativo che si muove, in altre parole, all’interno di un codice rappresentativo convenzionale, per astratto che sia. Picasso e Braque allargano le prospettive dello spazio pittorico e inventano un’arte “di pensiero”, secondo la definizione che ne diede Guillame Apollinaire. Altri ne seguiranno l’esempio, offrendo le loro personali declinazioni dell’avanguardia, tutte basate sull’opposizione ai canali ufficiali e sulla fede in un saldo principio teorico. Dopo il Fauvismo e il Cubismo (e la filiazione che da questo deriva) dopo Die Brücke, Der Blaue Reiter, il Futurismo e molte noiose diatribe volte a stabilire chi per primo si sia interessato alla rappresentazione del movimento, è la volta di Dada, la più radicale delle avanguardie storiche. Per la sua mancanza di un centro di gravitazione univoco e, soprattutto, per la grande fenomenologia espressiva, Dada, a rigore, non andrebbe neppure considerata un’avanguardia ma, piuttosto, una protesta estrema contro l’accademismo in cui si stavano incanalando anche i movimenti d’inizio secolo.

Marcel Duchamp muove per molti versi d’anticipo rispetto allo stesso Dadaismo, abbandonando precocemente la pittura per dedicarsi a operazioni il cui tratto saliente è il prevalere dell’aspetto concettuale. Più tardi, ricostruendo le tappe di questa sua decisione il maestro ricorderà: “Ci fu un incidente che, se così posso dire, mi rivoltò lo stomaco. Avevo presentato il Nudo che scende le scale al Salon des Indépendants e fui invitato a ritirarlo prima dell’inaugurazione. E furono alcuni degli artisti più avanzati dell’epoca a chiederlo, mostrando una miopia incredibile, una sorta di terrore. Persone come Gleizes, peraltro estremamente intelligente, giudicarono che il mio Nudo non rispettava del tutto la linea che avevano tracciato. Era da appena un paio d’anni che i Cubisti si erano affermati e avevano già stabilito una linea di condotta eccezionalmente precisa, rigida, a cui doveva attenersi tutto ciò che veniva prodotto. Tutto questo mi parve puerile, insensato. E come reazione a questo comportamento, che veniva da artisti che io credevo liberi, mi cercai un lavoro[1]”. Non è dunque un caso che Braque e Picasso disertassero gli appuntamenti della Section d’or: per loro, come per Duchamp, non è necessaria alcuna sede in cui affermare la propria ortodossia attraverso inutili sfumature cervellotiche.

Il successo ottenuto dal Nudo e dagli altri dipinti (Giovane triste in treno, Ritratto di giocatori di scacchi e Il re e la regina circondati da nudi veloci, tutti venduti) esposti nel 1913 all’Armory Show, dove l’artista era stato invitato da Walter Pach, non muta in questo senso le sue convinzioni. È vero piuttosto che il successo ottenuto in America è funzionale al suo cammino: per compiere gesti radicali bisogna avere credibilità e Duchamp la ottiene certificando la sua appartenenza autorevole alla comunità artistica internazionale. Ora che il nuovo continente lo ha acclamato eroe della pittura moderna i tempi sono maturi. 

Duchamp ha intuito che l’arte è entrata in una fase di stallo che la porta a cadere nella ripetizione sterile di forme consolidate, procedendo per piccoli strappi che si limitano a contraddire quanto detto in precedenza senza uscire dal paradigma del gusto, e ritiene di poter uscire da questo meccanismo con una contestazione radicale del concetto stesso di opera d’arte che passi per l’azzeramento di ogni valore estetico. Continuare a vender quadri, ormai, ha rilevanza solo da un punto di vista commerciale: “Non fanno neanche dei quadri, fanno degli assegni[2]”.

Dalla considerazione che ogni forma espressiva è ridondante e superflua al ready-made il passo è breve: nel 1913 nasce Ruota di bicicletta; due anni dopo è lo stesso Duchamp a coniare uno dei termini più importanti del vocabolario dell’arte contemporanea. Preciserà in seguito che la parola, così come l’oggetto, non mirava a nessuna scelta estetica ma, piuttosto, ad annullare ogni tipo di reazione emotiva nei confronti dell’opera d’arte, creando una sorta di anestesia, un’indifferenza totale di buono e cattivo gusto. Proprio l’annullamento del gusto sarà la parte più complessa del percorso: il “pregiudizio” della bellezza si rivelerà molto duro a cadere e poiché i valori formali possono essere applicati anche a posteriori, sullo Scolabottiglie come su un quadro, si rivelerà più semplice addomesticare il canone estetico per applicarlo a oggetti che, se qualcuno non li avesse trasferiti dalla famiglia degli oggetti d’uso a quella delle opere d’arte, non sarebbero letti entro un tale sistema di valori. A furia di vederlo riprodotto nei manuali di storia dell’arte anche lo Scolabottiglie diventa bello e si finisce per apprezzarne la fattura, come fosse una qualunque opera scultorea. È noto, d’altronde, che alcuni critici hanno letto Fontana in chiave formalista, apprezzandone le qualità sensibili fino ad accostarla all’opera di Henry Moore. Ma mentre una scultura, così come un dipinto, richiede tempo e perizia il ready-made è un oggetto anonimo che grazie alla scelta dell’artista si trasforma in un’opera d’arte non creata. Un vero e proprio cortocircuito. “È critica attiva: un calcio contro l’opera d’arte seduta sul suo piedistallo di aggettivi. [3]”, ma anche contro il sistema arte e dunque anche contro lo spettatore. Nel momento in cui lo aggredisce con la provocazione Duchamp reclama una sua presenza più attiva, chiedendogli di leggere la mappa di segni di cui l’opera è disseminata secondo un codice interpretativo che prevede il ricorso al proprio vissuto.

Un cambiamento di prospettiva radicale che non può che comportare una maggiore importanza dell’artista: d’ora in poi sarà lui a irradiare l’artisticità sul proprio lavoro, e non viceversa, nel momento in cui crea per gli oggetti un pensiero nuovo, dimostrando che è sufficiente un atto mentale per modificare lo statuto degli oggetti. L’aura che Benjamin voleva smarrita per via della riproducibilità tecnica si riversa così sull’artista stesso e da questi sull’oggetto che ha promosso arte. Materia, forma, colore non sono più indispensabili: il ready-made proclama la sua artisticità semplicemente tramite la sua esistenza, come un paradigma imposto dall’esterno dall’artista-sciamano, dal gallerista, dall’ambiente. Celebre in questo senso l’episodio raccontato da Leo Castelli che, listate a lutto le opere esposte in galleria per protesta contro la condanna che aveva colpito uno degli artisti, vide una spettatrice prendere appunti su ciò che credeva una nuova corrente.

Sulla ragione che fa convivere I promessi sposi e Merda d’artista all’interno della stessa famiglia, sul perché un tavolo con sopra dei libri di filosofia analitica esposto al  New York Cultural Center, sia un’opera d’arte mentre quello di casa nostra è solo un piano di lavoro[4], sul perché infine un’opera d’arte sia tale in virtù delle relazioni che lo spettatore intrattiene con essa, indagheranno eminenti estetologi come Nelson Goodman, Arthur C. Danto, Gérard Genette, Luciano Nanni.

Duchamp ha posto le premesse fondamentali per dimostrare che l’opera d’arte è tale quando qualcuno la sceglie, e non in virtù di sue qualità intrinseche. Per fare questo si è posto in rotta di collisione con un mondo che riteneva svuotato di senso e capace di ridurre l’artista a marionetta e il pubblico a mero assertore di concetti già approvati: ha visto una falla nel sistema-arte e l’ha attraversata. In questo senso la sua arte è già pienamente concettuale perché inaugura la riflessione sugli stessi processi creativi e sulla loro fruizione come prassi artistica. Fare i baffi alla Gioconda e accompagnarne la riproduzione con una scritta oscena è certo un gesto iconoclasta, ma non è a Leonardo, né al suo capolavoro che Duchamp si ribella, bensì ai meccanismi che trasformano Monna Lisa in un bel viso da riprodurre su qualunque genere di souvenir.

La nascita dell’arte borghese e del mercato hanno cambiato profondamente la condizione sociale dell’artista, un tempo soggetto ai margini e oggi perfettamente integrato, trasformando la sua in un’occupazione come le altre, da cui differisce solo per la maggiore responsabilità intellettuale che ne consegue[5]; per questo non ha più senso creare dei manufatti: occorre pensare, liberarsi dalle convenzioni, anche da quelle più difficili da abbandonare come l’idea che l’opera d’arte si fondi sulla bellezza. Il processo mentale deve prendere il sopravvento sull’atto demiurgico, diventando esso stesso atto creativo.

Il ready-made è, dunque, un vero e proprio atto di fondazione che riporta l’artista a nuova dignità intellettuale, alla “libertà di pensare e agire in disaccordo con il principio di autorità (ma piuttosto obbedendo al principio del piacere) – a un’ampiezza di vedute raramente raggiunta in passato, una diretta conseguenza dell’approccio radicalmente nuovo verso la problematica del cosa sia un’opera d’arte e cosa determini le sue qualità estetiche[6]”. Il primo passo di una catena di contraddizioni che, in un certo senso, può mettere in salvo l’opera d’arte da sé stessa.

Una rivoluzione di questa portata richiederà lungo tempo per essere compresa e assorbita, ma Duchamp è cosciente anche di questo, come pure è cosciente del destino dei suoi ready-made che, dapprima diverranno oggetto di contraffazione (ma per lui poco importa) per sostituirsi, infine, al manufatto nella liturgia della celebrazione dell’opera d’arte. Per quanto possa sembrare un paradosso, è proprio qui che risiede la sua continuità col passato perché ci dice che l’arte non può uscire da sé stessa, ma solo trovare dei contenuti più o meno validi, più o meno in linea con il proprio tempo. La prova è iscritta nei fatti: si produce arte, si fanno delle mostre e c’è ancora qualcuno disposto a spendere fortune per avere una sua collezione. Duchamp ha dimostrato che quand’anche l’opera fosse azzerata, non sarebbe comunque possibile fare a meno di essa perché il meccanismo che la celebra non può interrompersi ed è disposto a innalzare nuove cattedrali per celebrare il rito.

Solo la storia decreterà il senso della sua operazione, ma persino di questo Duchamp sembra essere consapevole: “Forse occorrerà aspettare quaranta o cinquant’anni per trovare il tuo vero pubblico, ma questo solo mi interessa[7]” e ancora: “L’artista può gridare ai quattro venti che possiede del genio, dovrà aspettare il verdetto dello spettatore perché le sue dichiarazioni assumano valore sociale e finalmente la posterità lo citi nei manuali di storia dell’arte[8]”. In molti di quei manuali Duchamp è citato non solo come padre dell’arte moderna, ma come termine di confronto tra un prima e un dopo che non sarà più uguale: “Non c’è dubbio che Duchamp abbia formulato la concezione estetica più radicale del nostro tempo. Con lui qualcosa è cambiato per sempre. “Così come la storia dell’uomo è divisa in avanti Cristo e dopo Cristo, la storia dell’arte dovrebbe tener conto di un prima di Duchamp e dopo Duchamp[9].

Nel 1975 un celebre giornalista americano passato alla storia per aver coniato il termine radical chic, illustrerà con candore il principio secondo cui “Non possedere una teoria convincente significa esser privi di qualcosa di fondamentale, dei mezzi stessi mediante i quali la nostra esperienza delle singole opere si collega alla comprensione dei valori da esse rappresentati”[10].

Duchamp aveva già intuito questo fenomeno e aveva opposto alla centralità sterile dell’oggetto non la teoria, troppo spesso propensa a trasformarsi in teorema, bensì la centralità del pensiero e del suo portatore.

[1] M. Duchamp, Ingegnere del tempo perduto. Conversazione con Pierre Cabanne, trad. it. A. Tizzo, Milano 2009, p.13

[2] D. De Rougemont, pagine di diario pubblicate in “Preuves”, n. 204, Paris, febbraio 1968, ora pubblicato con il titolo Marcel Duchamp come se niente fosse, in E. Grazioli cit., p. 73

[3] O. Paz, Apparenza nuda. L’opera di Marcel Duchamp, Milano, 2000, pp. 28-29

[4]  I due paragoni sono rispettivamente di Luciano Nanni e Arthur C. Danto

[5]  Cfr. M. Duchamp, L’artista deve andare all’università? Intervento pronunciato a Hofstra il 13 maggio 1960, ora in E. Grazioli cit., pp. 59-60

[6] A. Schwarz, The complete works of Marcel Duchamp, New York, 2000, p. 46

[7]  Conversazione con James Johnson Sweeny cit., p. 40

[8] M. Duchamp, Il processo creativo, testo di un intervento pronunciato in inglese a una riunione della Federazione Americana delle Arti a Huston, Texas, nell’aprile del 1957; pubblicato in “Art News”, vol. 56, n. 4, New York, estate 1957, Ora in E. Grazioli cit., p.25

[9] A. Schwartz cit., p. 47

[10]  T. Wolfe, Come ottenere successo in arte, Torino, 1987, p. 7

 

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