events
themes
call for papers
ideology busters
links
staff

Home

Adest opus: contra dogmaticos (Studi di Estetica, n° 7, 1987)

di Luciano Nanni

Il rinvio è subito (il titolo che ho voluto dare a queste pagine può subito, intendo, rinviare) a S. Agostino e anche, seppure in modo - per questo versante - del tutto vago, ad altri, a molti altri. Tra questi a Johann Gottlieb Fichte. E sia, ma in ben strutturato sintagma e secondo, diciamo cosi, una doppia elica metaforica a iso-semantismo perfetto. Diversi i modi del dogmatismo, anche se di medesima sostanza. Il deciso rinvio a Fichte (il Fichte che si intende citare) ne indica esaurientemente il tipo (il modo) che qui, in rapporto alla conoscenza che oggi abbiamo dell'opera d'arte, intendo tematizzare.

Per questa via, dogmatica è la coscienza cui è precluso il passaggio dall'essere al pensiero. Il pensiero arriva al massimo, per questa strada, ad intendere la semplice serie naturale (meccanica) delle cose: l'unico livello di realtà che una coscienza cosi strutturata possa ospitare. La rappresentazione (la consapevolezza della rappresentazione) in simile coscienza è impossibile: le manca lo spazio in cui costituirsi e finisce inevitabilmente per essere azzerata sull'oggetto che dovrebbe rappresentare, cosa tra le cose. Chiarissime le conseguenze a livello epistemologico: ipostatizzarsi della pur inevitabile rappresentazione e suo necessitarsi secondo i modi di una specularità assoluta; farsi, di fronte ad un oggetto attivo e cogente, del tutto inerte e passivo del soggetto, fino alla sua pretesa autoriduzione a puro e semplice registratore della verità dell'essere (del mondo); radicale sostanzializzarsi della conoscenza e allora metafisicizzarsi in immobilità (e quindi autodistruggersi) della cultura, ovviamente etimologicamente intesa. Quale spazio può mai rimanere, infatti, alla cultura (alla nostra creativa coltivazione del mondo inteso nella sua totalità, sia in senso fisico che mentale) se ciò, cui possiamo approdare, non è altro che la sua semplice e meccanica (per altro voluta come naturale e facile) riproduzione? Caratteri, questi, che il realismo ingenuo di filosofica memoria tutti insieme riassume e bene per tutti codifica: le cose (tutte le cose) si darebbero alla fin fine a conoscere come esattamente sono e nulla più.

E Agostino? Ad Agostino il merito di averci suggerito certo non per primo, ma sicuramente secondo un particolare dire tutto efficacemente suo - il "contra", le decise modalità insomma di rifiuto di un tale dogmatismo. E' vero, una delle sue bestie nere furono anche gli Accademici, si sa, ma si sa anche che non furono per lui cosa diversa (viene finalmente buona l'iso-semantica cui ho voluto auto-precettarmi, accingendomi - ad apertura di queste pagine - a coniugarli con Fichte) dai dogmatici: per potere affermare il verosimile, ricorda loro Agostino, occorre presupporre il possesso del criterio del vero e senza dubbio alcuno, fissare insomma ore rotundo e per sempre - e allora non forse dogmaticamente? - il presunto "noto". "Noto" che, se non è reale essenza (e come si può sicuramente dire che lo sia?), lo diviene, nel caso, in forza, si direbbe oggi, di ideologia. E se il "noto " non può che essere "rappresentazione" (che altro, se no?), anche per questa strada viene fatta (la rappresentazione) cosa e ad essa (alla sua immobilità) la nostra mente viene asservita. Ora chi sono i dogmatici, cui ci si vuole, qui, interessare e quali i fatti capaci di contrarli? Per i dogmatici si farebbe presto a dire; all'indicazione dei fatti ipotizzati a loro danno, sarebbe invece necessario premettere ancora alcune considerazioni di carattere più generale, senza le quali la loro individuazione, appunto, risulterebbe meno precisa del dovuto. Si dà allora la precedenza a tali preliminari, associando al rinvio dell'elencazione dei secondi (dei fatti) anche quella dei primi (dei dogmatici).

1. Tra genesi e risoluzione

Indicando, con orizzonte della genesi, l'orizzonte di concepimento di qualsivolgia entità materiale e, con orizzonte della risoluzione, l'orizzonte d'uso di queste stesse entità e, insieme, la loro concreta realizzazione (si può forse usare qualcosa, senza averne tradotto, prima, il progetto in realtà - si riducesse pure, questa sua traduzione, al suo semplice azzeramento allo stesso suo progetto e quindi alla semplice sua utilizzazione come tale?), si può vedere, nella coniugazione di entrambi, l'habitat unico di ogni entità culturale: inevitabilmente, se - come anticipato - per cultura si vuole intendere alla fin fine semplicemente la coltura (da colo, is ecc.) del mondo, materialmente e spiritualmente inteso, avente per soggetto - per agente - l'uomo (oh, che forse, oltre ai campi, non si coltivano anche i caratteri, le menti ecc.?). Habitat, questo, di ogni entità culturale e allora anche dell'opera d'arte. Certo, in quanto nostro umano prodotto. Che altro, se no? Al postutto, anche una sua identità metafisica sarà sempre una sua identità voluta come tale e, perciò, fondata su una sua postulazione umana e quindi, anch'essa, del tutto storica e culturale. Habitat inclusivo, allora, del suo nascere e (perché no?) del suo morire, di tutta la sua vita, insomma.[1]

Sappiamo, dalla parte della genesi l'opera d'arte non può risolversi che nella sua poetica (appunto nel suo progetto), [2] mentre, dalla parte della risoluzione, essa non potrà che fare corpo unico con la sua fruizione, con il suo uso in quanto opera d'arte. Un uso implica sempre l'inclusione nel proprio campo semantico di qualcosa, appunto, da usare. A meno che non si voglia paradossalmente associarlo al nulla, ma potrebbe ancora essere un uso (voglio dire, qualcosa) l'uso del nulla? Tertium non datur: l'opera d'arte, considerata del tutto in sé (slegata, insomma, del tutto da queste due pratiche - e con essa ogni altra entità-coltivata, si capisce), non può mai avere - nè di fatto ha - a partire da noi con noi stessi un qual che rapporto. Anche la sua conoscibilità e inconoscibilità (è in potere della storia far sua l'una o l'altra di queste polarità) e questione unicamente circoscrivibile alle convenzioni sottese all'orizzonte generale delle sue pratiche. Il polo della genesi e il polo della risoluzione, costituendone la vita, ne costituiscono anche la sua unica, per noi, materialità possibile: mai sola, mai da essi cognitivamente separata e separabile.

Originariamente non siamo gettati (si perdoni al termine l'allure heideggeriana) di fronte alle nude cose, ma sempre nelle loro pratiche (cognitivamente parlando, nell'universo della loro interpretazione). Lo si sa. Lo sanno in molti, tra i moderni. Lo sapeva già Protagora. Lo sapeva benissimo Aristotele, ma anche - checché se ne dica - lo stesso Platone. Va tuttavia ribadito, perché lo si dimentica troppo spesso, oserei dire ad ogni piè sospinto. Non si può partire da altro, a meno di ammettere, certo, la diretta epifania dell'essenza (della Verità) delle cose stesse, anche se - pure in tal caso - , che cosa potrebbe poi confermarci in questa loro voluta epifania, se non la sua stessa pratica in quanto tale, la pratica voglio dire ovviamente assolutamente unica e estesa ad ogni uomo della loro epifania appunto come loro epifania? Confermarci sempre congetturalmente, s'intende, mai in via apoditticamente definitiva, ma non mi pare proprio questo il problema, il luogo, insomma, delle nostre possibili (sensate) interrogazioni al riguardo. Conviene piuttosto chiederci se questi due orizzonti (genesi e risoluzione), costitutivi per noi della identità delle nostre cose, sono poi ancora pensabili, anch'essi, come entità separate e non invece, a loro volta, come cangiante fenomenologia di una pratica (di una funzione) unica e di fondo.

Le poetiche, nel caso, e cioè le opere-d'arte-viste-in-genesi non sono poi semplicemente usi, cioè a dire opere-d'arte-viste-in-fruizione e viceversa? Vediamo. E bisogna provare a guardarci dentro in tale questione, se ci si deve interrogare sulle modalità con cui l'opera d'arte ci si dà a conoscere. Ridotta inevitabilmente l'opera d'arte a un groviglio di pratiche, saranno altrettanto inevitabilmente le interrogazioni circa queste stesse pratiche e la logica del loro vivere a dovere venire in primo piano. S'intende, non per parlare di esse, ma proprio e solo dell'opera d'arte.

l.1 Non si danno che poetiche.

Mi sia concesso di spiegarmi, icasticamente, con una storiella da mondi possibili. Supponiamo che il governatore della Banca d'Italia decida, in tutta segretezza. di addobbare il suo albero di Natale in modo del tutto inconsueto, che decida cioè di portarsi a casa la carta del Tesoro e le macchine della Zecca (tutto l'occorrente insomma) per stamparsi in allegria, in famiglia, una buona serie di banconote da centomila, con le quali appunto addobbare il suo albero di Natale. Avremmo banconote vere o false? Nessuno, credo, si rifiuterà di ammettere prima di tutto che li, in quel momento, il nostro governatore si trasforma in un falsario della più bella specie e poi di riconoscere che la falsità delle banconote nulla può avere a che fare con la loro materialità. Materialmente esse sono perfette: stessa carta, stesso cliché, stessi inchiostri ecc. di quelle autentiche, che escono dalla Zecca (non potrebbe essere diversamente: tutto l'occorrente è stato preso da lì). La loro falsità (e allora evidentemente anche l'autenticità di quelle autentiche) è dovuta a qualche cosa di diverso. E a che cosa, se non alle convenzioni sociali che vogliono appunto che una banconota, per essere autenticamente tale, non debba affatto venire emessa in tal modo. Ciò è tanto vero che banconote materialmente imperfette (con difetti di stampa, insomma), ma emesse secondo convenzioni validate e validanti, non sono affatto false (la Banca sempre si preoccuperebbe di ritirarle e di sostituirle con altre, vere come queste, ma prive di difetti). L'identità di banconota di una banconota non è allora mai un fatto fisico, bensì l'effetto di un accordo culturale (di un accordo sulle modalità della sua lavorazione - coltivazione -) , non importa se consapevole o inconsapevole, se esteso molto o poco. Un accordo è sempre tale a sua volta per convenzione, non per natura e vale per chi lo sente e vuole, non per altri: storico allora, come storica 'è l'identità della banconota che, nel caso, è stata considerata ad esso connessa. Una banconota non è necessariamente valida per sempre, né per tutti. Alla sua materia è affidato unicamente il compito di rendere sensibili queste convenzioni di natura ideale (materialmente impalpabili), di raccoglierne insomma la delega di tradurle, appunto e per così dire, in carne e ossa. In casi simili si parla anche di effetti simbolici. L'autenticità di una banconota non sarebbe allora altro che l'effetto di un consenso sociale. Si può dire: la simbolicità di una banconota sta proprio nel fatto che essa è un'entità materiale, che rinvia secondo necessità (non altro indica la radice etimologica del termine simbolo) all'entità ideale (le convenzioni predette) che la costituisce. Di questa essa è soltanto, per dirla in altro modo e con il poeta T.S. Eliot, il correlativo oggettivo. Ciò, dal punto di vista della sua genesi; il che non vuole poi dire che necessariamente debba continuare a rimanere simbolo anche nel suo uso. Simbolo, s'intende, nel senso saussuriano: ancora come un segno, anche se con legami motivati tra i suoi livelli.[3] La nostra banconota resta tale anche nell'uso, ma altre entità culturali (altre entità geneticamente simboliche) possono venire convertite dall'uso in entità a loro volta da simbolizzare, oscurate - insomma - e insieme riconvertite in segno, ma al plurale (in segni virtuali o reali, che siano). E si è con ciò di nuovo in tema.

Estendendo lo statuto della banconota ad ogni entità culturale, s'è indirettamente affermato che tale statuto è anche dell'opera d'arte. Sottolineando poi che nell'uso una tale entità potrebbe arrivare a perdere (non importa se necessariamente per una meta-convenzione ancora storico-culturale) questo suo statuto fino a "regredire" dal simbolizzato al simbolizzabile, non se è fatto altro che anticipare quelle che saranno le conclusioni di questo saggio circa il suo tema e cioè il nostro specifico modo di conoscere, oggi, l'opera d'arte. Ma stiamo ora all'assunto immediato: non ci sono che poetiche. Non rappresenta forse anche l'opera d'arte il correlativo oggettivo di un'idea, s'intende, di arte? Anche l'opera d'arte non trae e non potrà mai trarre la sua identità d'opera d'arte da se stessa, dalla materia di cui è fatta (qualsiasi materia - qualsiasi linguaggio - può diventare opera d'arte, come, del resto, può diventare moneta), ma la trae e la trarrà sempre (finché vivrà finché accadrà ovviamente) da una delega d'artisticità ad essa in qualche modo culturalmente associata, cioè a dire da una qualche concezione dell'arte e allora non forse da una poetica? La poetica vince sempre: senza poetica non ci sarebbe opera e non è vero il contrario. Una poetica può sempre rimanere virtualmente in attesa di essere realizzata, di divenire opera insomma, ma un'opera virtuale o è appunto poetica o non e nulla.

Tutto questo esigerebbe prove: mi si conceda di rinviarne l'esibizione al momento in cui, contrando i dogmatici - almeno intenzionalmente, s'intende -, non potrò esimermi dal riprendere questa questione del ruolo della materia nella costituzione dell'identità culturale delle cose (e perciò dell'arte), che i dogmatici appunto (almeno i dogmatici di cui qui si fa questione) difendono. Ora vorrei continuare ad attenermi strettamente a quanto messo a rubrica. Non si danno che poetiche ho affermato. E l'estetica? E la critica?

Per la critica è presto detto. Tanto nel caso di una critica valutativa, quanto in quello di una critica più semplicemente analitico-descrittiva, la poetica rimane la sua struttura fondamentale. Nella critica così-detta valutativa, perché senza un'idea dell'arte (senza una poetica) l'emissione del giudizio di valore è impossibile. Per affermare che un film è un'opera d'arte devo necessariamente ospitare in me, in modo più o meno conscio, un'idea di arte e così via. Nella critica analitico-descrittiva, perché in essa si rinuncia si alla valutazione diretta ma non a quella indiretta. Non ci si preoccupa di giudicare qualche cosa opera d'arte o meno, perché si assumono attribuzioni d'arte (opere d'arte) decise da altri (spesso dalla cultura corrente in cui l'analista-descrittore stesso si trova immerso), ma tali attribuzioni (tali valutazioni) sono comunque indispensabili, diversamente questa critica analitico-descrittiva non avrebbe su che esercitare le proprie analisi e le proprie descrizioni.

E cosi per l'estetica. Se ogni costituzione d'arte è in potere delle poetiche, a un'estetica che non voglia a sua volta confondersi con una poetica (è ciò che accade alle estetiche dogmatiche di filosofica memoria) non resta altro che studiare le poetiche stesse, implicite nell'opera o esplicite che siano. In ogni caso la poetica vince ancora, decidendo inevitabilmente anche dell'estetica e del suo destino. Certo le poetiche possono avere soggetti (essere insomma in proprietà di soggetti) a diversa estensione: singoli (un poeta, un pittore, un musicista ecc.), plurali (movimenti, gruppi e scuole d'arte) e diffusi. Si può parlare di poetica - sto pensando a poetiche a soggetto diffuso - di un'intera cultura e non più di un individuo o di un gruppo soltanto (ad esempio della cultura cinese distinta sincronicamente, oggi, dalla nostra, europea occidentale) o anche di epoche ben definite all'interno di una stessa cultura (ad esempio del medio-evo diacronicamente distinto, nella nostra cultura occidentale, dalla modernità o contemporancità che dir si voglia, e così via). Nel caso di una compresenza di poetiche a soggetti diversi (è ciò che accade sempre in culture che, per quanto pluralistiche, restano comunque individuatili nella loro macro-unità) è naturale che la poetica a soggetto diffuso si trovi sottesa alle altre e ne divenga insieme, diciamo, madre e matrigna. Madre, giacchè concede loro di vivere; matrigna, giacché poi le fa vivere, a mo' di metacodice, per vie non sempre indolori, a modo suo.

Tutto ciò comporta ovviamente diverse e differenziate avvertenze per l'estetica che le studia. Avvertenze innanzi tutto in rapporto al loro ritaglio. Operazione difficile. "E' cosa ammirevole infatti separare l'oggetto della propria ricerca, immediatamente, dal resto delle cose se ciò è fatto senza errore... " annotava già Platone, [4] ma non c'è scampo: la scienza, in quanto tale, non può inventare a piacere i propri oggetti di studio. [5] Se nelle poetiche a soggetto singolo o plurale, l'estetologo è guidato ai loro confini dagli scritti stessi di chi le propone, con una poetica a soggetto diffuso ciò proprio non si verifica. Come accade ad una lingua cosiddetta naturale, anche una poetica a soggetto diffuso non si dichiara direttamente. Semplicemente essa vive, come competenza profonda, nei comportamenti della cultura (dell'epoca) che costituisce: all'estetologo il compito di congetturarla (di portarla alla coscienza) a partire appunto da tali diffusi comportamenti, con tutte le difficoltà, certo, che un tale stato di cose comporta. Prima di tutto difficoltà di individuazione e raccolta di tutti i dati (di tutte le pratiche - ma questo è ovvio) da questo punto di vista congeneri e, poi, difficoltà (enormi) circa, la necessaria scoperta della loro logica unificante. Ma che fare? Lavorando alla ricognizione di una poetica a soggetto diffuso, non si può partire da altro testo che dalla vita della cultura stessa e dalle sue costanti operative.

Siamo cosi ad una curiosa constatazione circa l'affermazione da cui s'è partiti. Poste le sole poetiche, e cioè le opere-in progetto realizzato o virtuale che sia, si arriva invece a scoprire che se la poetica a soggetto diffuso coincide con un progetto, questo non può che coincidere con la messa in opera (il lettore sarà contento: non si è proprio usciti d'argomento) di un modo di usare le opere prodotte da poetiche a soggetto singolo o di gruppo e basta. Non sono forse le istituzioni pubbliche che, non importa se spesso solo virtualmente, ci unificano (andando a caccia di una poetica a soggetto diffuso non si può che andare a caccia di una nostra unificazione dal punto di vista dell'arte, ovviamente): scuola, tribunale, mercato, bar ecc.? E sono forse tali istituzioni altro da convenzioni (le uniche veramente intersoggettive, trascendentali - si potrebbe dire - risignificando il termine in senso del tutto storico e culturologico), poste a modo di intercapedine, tra i nostri vari "io" e le cose, a regola d'uso generale delle cose stesse (del mondo), fosse pure a regola d'uso generale, tra le cose tutte, del solo linguaggio? Nel caso dell'arte, allora, non sono le istituzioni stesse dell'arte (collane editoriali, teatri, gallerie ecc.) a unificarci (sintomaticamente a farci vedere che lì - esse sono lì, identiche per tutti - siamo di fatto unificati)? E non sono queste stesse istituzioni a unificare (a omogeneizzare) nell'uso le opere (le poetiche) appunto più diverse? Le opere (le poetiche) possono essere (e sono) delle più diverse, ma il circuito in cui come arte entrano (e allora il sapere artistico che le fa vivere) è lo stesso per tutte.

Se cosi è per la poetica a soggetto diffuso, perché cosi non dovrebbe poi essere anche, attraversando le apparenze, per la poetica in genere? Perché, insomma, anche le poetiche a soggetto singolo o di gruppo non dovrebbero coincidere con un progetto d'uso piuttosto che con un progetto di produzione? La produzione di opere d'arte non sarebbe affatto (ci mancherebbe altro) messa in discussione: verrebbero solo prodotte (considerate prodotte) non in astratto, ma in rapporto ad un fine, a un bisogno. Cosa del resto più che ragionevole: non si fa nulla per nulla. Vediamo.

1.2. Non si danno che usi.

Affiderei ancora a figuranti il compito di icasticamente significare anche quanto voglio dire per questo secondo versante. A un primo, innanzitutto, venerando e pieno di fascino, anche se poi qualcuno non lo vorrebbe così lontano dal grigio e anonimo governatore del paragrafo precedente (le idee si rapporterebbero alle cose, nella sua filosofia, non diversamente dai timbri e dai sigilli alle loro convenienti scartoffie, ancora insomma con modalità del tutto burocratiche). Intendo Platone e, in particolare, un luogo della sua Repubblica, lì anch'esso per tutti, da sempre.

Luogo di interrogazioni e risposte, come spesso in Platone,

dimessamente profonde, fondamentali:

--S'intende forse il pittore di quali debbono essere le redini e il morso? O invece non se ne intende nemmeno chi li ha fabbricati, il fabbro e il cuoiaio, bensì colui che sa farne uso, cioè il solo cavaliere?

-- Verissimo.

--E non diremo in tutto che le cose stiano così? ...

-- La virtù, la bellezza e giustezza di ogni oggetto e animale, non sono esse in funzione d'altro che dell'uso, a cui ogni singola cosa sia stata fatta o nata?

-- Così è.

E cosi via fino a riassumere questa sua convinzione in modo del tutto lapidario:

del medesimo oggetto il fabbricante avrà una retta credenza [.] mentre chi lo usa avrà vera scienza. [6]

Non credo che al mio lettore occorra molto altro, per intendere quanto voglio dire. Un sellaio può produrre una sella solo se si porta dentro un (se il suo sapere al riguardo coincide interamente con quello di un) cavaliere. Un fabbricante di flauti se si porta dentro un suonatore di flauto e cosi via. Perché non pensare, allora, che se un artista (un gruppo di artisti una cultura) produce arte è perché agisce in lui (in loro) un - come dire? - bisognoso di arte, un qualcuno insomma, che non solo la produce, ma la usa, un qualcuno in conclusione che la produce solo perché la usa e mai viceversa. La sella e tratta alla nostra presenza (dal nulla all'esistenza) dal bisogno nostro che ci sia e cosi il flauto e, allora, perché non l'opera d'arte? Il progetto dell'opera (la sua poetica, appunto) potrà forse essere qualcosa di diverso dal modello d'uso (non importa se di un solo individuo o di un gruppo o di una comunità intera) dell'opera stessa di cui è progetto? Il progetto di un'opera d'arte (e cosi di ogni altra cosa) non viene, logicamente parlando, prima dell'ideazione del suo uso: il progetto è soltanto l'invenzione di cui l'uso si serve per portare se stesso dalla potenza (dall'astratto) all'atto, alla vita. L'uso (il fine) non solo coincide con la causa agente (costitutiva) di ciò che usa (di ciò di cui è fine: voglio servirmi di un'arma e allora la faccio), ma anche con la sua causa formale, insomma con la sua concezione, il suo progetto (voglio ferire e allora, l'arma, la costruirlo a punta; voglio, invece, soltanto intontire e allora la costruirlo rotondeggiante e in qualche modo morbida, ecc.). Non vale qui (a questo livello) il qualunquismo dei punti di vista: un punto di vista non vale affatto un altro a definire il costituirsi dell'identità di una qualche entità culturale. Mi si dice spesso: - Beh! Qualcuno può vedere una data entità da un certo punto di vista e qualcun altro da un altro punto di vista. Non va forse bene? - Va bene, si, ma per un'entità considerata come già data, già costituita, appunto, non per il concreto processo del darsi di questa stessa entità come un'entità ben determinata, di un certo tipo e non di un altro. Va bene (e provo a spiegarmi meglio) se, per tale via, non si presuppone di potere dare ragione della specificità costitutiva di una determinata entità, ma soltanto di farla vivere, una volta considerata già costituita, relazionandola al nostro sapere (alla nostra cultura) in generale. Una zappa in quanto tale non può essere costituita da un qualsiasi punto di vista. Solo il punto di vista (la pratica) dello zappare può considerarsi legittimamente capace di dirci qualcosa circa (di essere alla radice del) costituirsi della zappa in quanto tale. Non altri. Certo, possono darsi diversi modi concreti di zappare, ma questo interno pluralizzarsi della pratica dello zappare non pluralizza ancora il numero dei punti di vista legittimamente utilizzabili per dare ragione dell'identità della zappa in quanto tale, ma pluralizza la zappa stessa: zappa, zappetto, piccone ecc. Così per la sella, così per il flauto ... e così' ecco, anche per l'opera d'arte. [7]

Ciò non toglie che una stessa opera d'arte possa poi, oggi, essere legittimamente fatta (e si continua con le anticipazioni) oggetto di studio (di critica) da più punti di vista (e chi, più di me, può essere d'accordo?), ma ciò non sposta di una virgola quanto si è appena detto circa il necessario legame della sua identità d'opera d'arte con un punto di vista ben determinato e solo con quello, con una pratica ben determinata e non con altre. [8] Se l'artisticità di un qualcosa coincide, oggi, con la sua possibilità di vivere sincronicamente in modo polisemico, ciò non significa che questa sua disseminazione, per così dire non debba essere a sua volta costituita (non debba fondersi a partire) da un ben preciso punto di vista (da una ben determinata pratica): quello (quella), che esclude, nel caso, la possibilità della sua univocità (linearità) comunicativa e referenziale. I livelli sono diversi e non vanno confusi. [9] Artisticità, questa di cui qui si sta parlando, sempre controllata, si capisce, a livello di poetica a soggetto diffuso, di coscienza collettiva in generale insomma: non ad altri. A livello, infatti, di poetiche a soggetto individuale o plurale (ma di gruppo) non 'è affatto detto che l'artisticità di un'opera debba darsi allo stesso modo che per l'intera coscienza collettiva: i bisogni (gli usi) dei singoli e dei gruppi in proposito, possono essere diversi e anche in contrasto tra loro e con la coscienza collettiva che li innerva.

Fluidificazione e unificazione di cause, anche questa della riduzione del principio costitutivo dell'identità di un'entità, qualunque essa sia, arte compresa, al fine per cui viene prodotta (al suo uso), a nostra disposizione, anch'essa, da sempre, se e vero che tutta la riflessione di Aristotele (non si smette di ricorrere a figuranti) ne ha fatto il suo perno. Ora, associatosi a quello di si autorevoli garanti (per di più uniti circa una questione sulla quale la loro esegesi li vorrebbe tradizionalmente divisi) può forse stupire che il mio discorso non s'industri di trovarne altri? Ne uscirebbe certamente più ricco d'erudizione, ma non d'autorità, che è, all'osso, invece ciò che più conta.

1.3 Dell'uso, sotto mentite spoglie.

Le spoglie mentite sono quelle genetiche (progettuali) di ogni e ben determinata entità: spoglie di produzione, se considerate - dette entità per la loro struttura; di emittenza, se considerate, invece, per la significazione che le deve in qualche modo socialmente identificare.

Ora, se quanto s'è venuto fin qui dicendo ha una qualche credibilità, tali spoglie non possono che farsi "mentite" tutte le volte che si pretende siano di un ordine diverso da quelle d'uso, magari per legittimare la delegittimazione di queste seconde, per cosi dire, a dar corso a "culture" devianti. E' ciò che accade in quei settori della contemporanea teoria dell'arte, che, trovatisi di fronte a una pluralità reale - o possibile, non importa - di interpretazioni di una stessa opera d'arte, pensano di poterne tranquillamente uscire ricorrendo alle ragioni del suo emittente (dell'artista, insomma) e pretendendo ad esse una generale adesione. Che diamine! Se l'opera d'arte deve avere un significato, chi più del suo autore può essere in grado di indicarcelo? Filologia! Filologia! Atteggiamento (disciplina) serissimo, purché sappia di non occuparsi di un'emittenza distinta da un uso, bensì sempre e solo di un qualche uso - Platone insegni - fenomenologizzatosi in emittenza. Un uso, che può semplicemente presentarsi (in culture come la nostra, internamente differenziate e plurali) come uno dei tanti, né di più né di meno valore. Consapevolezza che dovrebbe, questa, liberare di per sé l'atteggiamento, che potremmo continuare a dire latamente filologico, da ogni tentazione ideologica: solo non sapendo che, postulando l'omogeneizzazione di tutta l'utenza a una qualche emittenza, si chiede in pratica la sua omogeneizzazione non a qualcosa di diverso dall'utenza stessa, ma soltanto a qualche suo interno e parziale settore - cosi indebitamente privilegiato - , si può pensare a questo atteggiamento come sensato e difendibile, non in consapevolezza contraria. Oppure, anche all'interno di questo diverso e avvertito sapere, ma con la penale appunto di una volontaria caduta nell'ideologia. [10] Cosa che nessuno, pare, ammetterebbe di voler perseguire.

2. Una poetica in-forma di noi.

Dovendo rispondere alla domanda "Come conosciamo l'opera d'arte? ", a preliminari finiti, mi sembra naturale che appaia come doveroso il compito di ricercare, tra gli usi dell'opera d'arte (tra le poetiche), quello (quella) che più ci accomuna (o che semplicemente ci accomuna) e cioè il suo uso (la sua poetica) a soggetto diffuso. Inevitabile, se il " noi " implicito nella domanda, a cui si deve tentare di rispondere, deve avere un qualche valore. Converrà, a questo fine, muoverci per ben distinti momenti, cominciando con il precisarne in formula, icasticamente, la scansione.

2.1 P1® TT® EE® P2: una metodica.

Questa formula, che - anche cosi semplificata -, vuole imbrigliare, in K. Popper, non solo il metodo della ricerca scientifica, ma anche la modalità di successione delle teorie scientifiche stesse, oltre che le modalità di apprendimento di tutti gli organismi, dall'ameba fino ad Einstein, e la logica dell'evoluzione biologica (e allora tutta la cultura, cosi come nel corso di queste mie pagine si è dichiarato di concepirla), viene qui rimemorata e trascritta solo in funzione del suo primo compito: la registrazione, in sinossi, dei passi da far fare ad una volontà di ricerca, che voglia provare ad essere scientifica.

La formula, come si può constatare, prende l'avvio dal rimando ad un problema [P1] Ogni ricerca comincia da un problema, ma qui si tratta di un caso particolare. Prima di tutto, perché la poetica, di cui si è in cerca, essendo a soggetto diffuso, non può avere in alcun individuo né in alcun gruppo, atomisticamente inteso, il proprio emittente, ma può essere solo congetturata a partire da tutti i vari comportamenti di una società intera circa l'opera d'arte e se ogni ricerca di poetica costituisce un problema, quella di una poetica implicita in tali comportamenti lo costituisce ancora di più. E poi, perché è proprio l'emergere di un problema che ci conferma, sintomaticamente, l'esistenza di questa poetica come una, se è vero che si tratta di un problema che è uno e come tale riconosciuto (e in quanto tale assunto come fondamentale) da i più diversi (da tutti i più diversi) settori della nostra, contemporanea, ricerca estetica di ispirazione scientifica (attenta ai fatti, insomma). Tutte queste diverse "estetiche" ritengono di doversi impegnare a portare luce dentro uno stesso problema: ciò significa che il problema intuitivamente le precede, presentandosi cosi come ad esse trasversale e di fondo, da un lato, e, per altro, che il suo habitat non è dentro le teorie stesse, ma nel loro comune contenitore? E che sarà mai tale contenitore? Non forse la nostra (generale) cultura? E potrà mai significare, il problema in questione, qualcosa di diverso da un'esperienza (da un insieme di norme per produrre esperienza) veramente comune? Esperienza, ovviamente, le cui modalità il problema stesso non può che sintetizzare e, insieme, evidenziare. Poetica comune, quindi, a tutti noi. Certo, anche il noi presuppone dei confini: che, nel caso, farei coincidere con tutta l'odierna cultura cosiddetta occidentale e, naturalmente, con ogni altra cultura che si vada, in qualche modo, logicamente occidentalizzando. Tutto quanto si dirà in queste pagine, ambirebbe ad avere validità in questo ambito e solo in questo, ma stiamo al problema. Di quale problema si tratterà mai? Con la risposta a questo interrogativo si darà anche effettualità (corporalità) al primo momento della formula, appena assunta a nostro canovaccio.

2.2 P1, della polisemia dell'opera d'arte.

Ecco il problema: l'irresolubile polisemia (le anticipazioni cui, qua e là, ci si è lasciati andare trovano qui il loro punto fermo) dell'opera d'arte. [11] Vediamo.

L'opera d'arte non è forse e sempre fatta di segni o, comunque, di materia in qualche modo segnata (in qualche modo storicamente indicizzata)? Naturale, allora, che di fronte alla sua ambiguità ci si aspetti di potere, come vuole l'uso corrente dei segni, ricorrere al suo emittente (all'artista stesso, insomma) per disambiguarla. Se al bar un cliente chiede qualcosa in modo incomprensibile, convenzione non vuole forse (non siamo forse tutti d'accordo) che va interpellato, affinché formuli il suo "messaggio" in modo finalmente chiaro e comprensibile? Non sentiamo tutti (non siamo, insomma, tutti d'accordo) che non gli si può servire una bevanda qualsiasi? Ebbene è proprio questa convinzione - convenzione (questa legalità) che nella vita dell'opera d'arte sembra paradossalmente non avere [12], collettivamente parlando, corso ed è questo che rende la sua polisemia (la sua ambiguità, se si vuole) un problema. Nella pratica dell'arte, il ricorso all'emittente (all'artista) per sapere cosa l'opera significhi convince solo, tautologicamente, chi già, per tale via, desidera essere convinto: non è, però, via sentita da tutti come obbligata. Molti, al contrario, ritengono, oggi, di potere ridurre il dire dell'artista circa la sua opera ad un semplice parere, uno dei tanti possibili. E poi, in molti casi, ci penserebbero gli artisti stessi a vanificare codesto desiderio, diciamo così, filologico. Spesso non rispondono o, se rispondono, il più delle volte lo fanno declinando ogni responsabilità: anch'essi non sanno, anch'essi sentono non tanto di parlare, ma piuttosto di essere parlati e cosi via. Sull'onda di queste constatazioni, R. Barthes arriva - e non direi tanto paradossalmente a dire che, oggi, l'opera d'arte realizza appieno il suo più intimo statuto proprio ad artista (ad autore) morto. [13] La vita semiologica dell'opera non ha bisogno di lui: la sua presenza puo solo intopparla, se non addirittura inquinarla. E con Barthes se ne accorge, si diceva, tutta la riflessione estetica del Novecento di ispirazione (ribadisco) scientifica.

Senza stare a dire di William Empson, per esempio, e di tutto il New Criticism anglo-americano, basti pensare alle osservazioni di R. Jakobson ("Ciò che caratterizza le ambiguità' della poesia [...] è l'uso, a livello di emissione, di questo carattere "ambiguo" della sua ricezione"), [14] a quelle di J. Mukarovsky, che, dopo avere definito l'opera d'arte un "segno autonomo", sottolinea appunto che proprio dei "segni autonomi" non è di non comunicare, ma di comunicare in modo non univoco, [15] e ancora al simbolo "unconsummated" di S. Langer, [16] al "locus semantico del polisenso" di G. Della Volpe [17] al "vivente geroglifico" di L. Anceschi [18] e cosi via fino ad inglobare nell'elenco anche un B. Croce, ancora - in questa fase - del tutto attento ai fatti. [19]

Il problema è sotto gli occhi di tutti, è alla portata, insomma, dell'uomo comune (non per nulla lo si è, qui, scoperto per conto nostro, confrontando quanto succede al bar con quanto succede nella pratica dell'arte). Diviene dell'estetologo se l'uomo comune si fa estetologo e come estetologi gli studiosi dell'arte, qui, direttamente e indirettamente richiamati, fanno sulla causa di tale problema comune (sulla sua chiave, insomma) discorsi, a volte, molto diversi, in linea, ovviamente, con la diversità dei loro orizzonti teoretici (strutturalista, s'è Visto, marxista, fenomenologico, simbolico, idealista ecc.) di partenza. Considerazioni, queste, che ci pongono di fatto, all'interno del secondo punto del nostro canovaccio, in quel TT appunto, dove la rassegna delle soluzioni date al problema in questione va rubricata e dove i nostri dogmatici saranno finalmente portati allo scoperto. Dogmatici in senso stretto (estetologico) e in senso lato (epistemologico in generale).

2.3 TT o della polisemia come confezione (come genesi).

Confezione, innanzitutto, secondo due significazioni: confezione linguisticamente - semiosicamente - ambigua del segno artistico, primo, e secondo, confezione tout court. Se i teorici di questa equazione (confezione linguisticamente semiosicamente - ambigua del segno = artisticità - e polisemia come sua specificità -) sono, come sono, i dogmatici qui chiamati in giudizio, la prima accezione di "confezione " realizza il livello estetologico del loro dogmatismo e la seconda ne realizza quello epistemologico tout court.

Vediamo, innanzitutto, chi vuole il primo livello dell'equazione, quello per cui la polisemia (l'artisticità per noi) sarebbe semplice effetto della composizione linguisticamente semiosicamente - ambigua del segno artistico (dell'opera d'arte). Teoria secondo cui l'autore dell'opera sarebbe, poi, impossibilitato ad intervenire per scioglierne la polisemia, giacché alla fin fine "confuso" dalle modalità strutturali del suo stesso prodotto.

Lo vuole, per esempio, la teoria estetica di Eco, che nella frase "le idee verdi senza colore dormono furiosamente" [20] arriva a vedere un oggetto linguistico (semiosico) del tutto congruo alla sua intensione, ma lo vogliono anche, oggi, numerose altre. Ad esempio quella di R. Jakobson. Non afferma Jakobson che si ha arte (poesia) quando, in qualche oggetto verbale, si ha in dominante la funzione poetica? E non vincola poi la funzione poetica allo spostamento sull'asse della combinazione del principio d'equivalenza proprio dell'asse della selezione (in poche parole, del principio della metaforicità) ? [21] Or bene, proviamoci a costruire, in contesto referenziale, qualcosa di linguistico (di semiosico), in cui la finalità prima non sia la comunicazione in senso corrente (referenziale), ma proprio lo spostamento suddetto: finiremo per ritrovarci sempre fra le mani entità dello stampo della frase proposta da Eco. Del resto, per sua stessa esplicita ammissione, Eco non vuole fare altro, in tal caso, che trascrivere a livello semiotico l'estetica linguistica di Jakobson. Lo vuole poi J. Muka?ovsk? ma è comprensibile: non sono stati, Jakobson e Muka?ovsk?, i sodali fondatori dell'identità estetologica di un'unica Scuola: quella di Praga? Le vuole inoltre R. Barthes, anche se in Barthes la polisemia si ritrova a far sistema, più che con la confezione diretta dell'opera, con la confezione data (metafisica) di una grande lingua, mitica o simbolica - lingua delle "grandi forme vuote" R. Barthes, [22] - che dir si voglia, di cui l'opera non sarebbe che semplice epifania. E' nota l'accidentalità di statuto che l'opera d'arte arriva ad avere in R. Barthes: non è l'opera, in fondo in fondo, ciò che per lui conta, ma proprio quella sua matrice profondamente significante (quella scrittura) che l'opera può solo malauguratamente interrompere e spezzare. [23] Jakobson non viene citato da Barthes - Barthes lo cita spesso - in oblio dell'importanza da lui data alla confezione, ma a sostegno proprio della confezione di questa lingua (di questa scommessa) di fondo. Lo vogliono, in fine, altri, di cui qui non si sta a dire. Non tutti, però, i rappresentanti dei vari orizzonti rassegnati, per cosi dire, in P1, ma coloro che non lo vogliono, da questo punto di vista, non contano, giacché non è che, in alternativa a questa teoria, arrivino a proporne altre. Molti si limitano a fare del problema, diciamo, un meta-problema, ritrascrivendolo pari pari a livello speculativo e rifilandoci poi, magari, tale sua semplice ritrascrizione come una sua teoria di risoluzione. Altri cercano in tutti i modi di uscirne praticamente e solo praticamente. Cosa degnissima, ma pertinente all'etica (alla politica, in senso lato) e non alla scienza di cui qui si fa questione. Scienza, che queste posizioni estetologiche portano implicitamente a quel più generale traguardo, che, ad apertura di queste pagine, s'è detto del realismo ingenuo. Primo: perché, volendo esse la polisemia, e quindi l'artisticità per noi - oggi -, come diretta e necessaria emanazione di un suo "vestibolo" - il termine è ancora di Eco, [24] ma sintetizza bene la posizione di tutti gli autori qui considerati - linguisticamente e semioticamente ambiguo, vogliono anche che l'artisticità in genere sia sempre emanazione della confezione dell'opera (è inevitabile: una confezione ambigua, prima che ambigua, è una confezione). Secondo: perché, ancorando l'artisticità in genere alla struttura materiale (alla confezione) delle opere, ancorano implicitamente l'identità delle cose alle cose stesse, facendone una diretta e necessaria emanazione della loro semplice (supposta semplice) interiorità.

Siamo, come s'è anticipato, al dogmatismo epistemologico, ma questa constatazione va provata - compito che si affida al paragrafo seguente - con controfatti esemplari.

Che poi la confezione sia sinonimo di genesi (di emittenza) e che, quindi, facendo dell'artisticità una questione di confezione se ne faccia anche - indebitamente, ormai, sappiamo - una questione di genesi (di emittenza) e soltanto di questa è evidente: chi se non l'emittente dell'opera (il suo autore) può confezionarla?

2.4 EE o della confezione come dogma (come ideologia).

Se l'EE indica, nella formula assunta a nostro canovaccio, il luogo in cui le teorie possono essere poste di fronte ai loro errori (E), per poi eventualmente eliminarli (E), questo è il paragrafo, appunto, in cui il supposto dogmatismo della presente teoria del vestibolo (di tutte le citate teorie della polisemia - dell'artisticità - come confezione) va finalmente controllato.

Prima tuttavia di mettere in opera questo controllo (lo si farà ricorrendo ad alcuni controfatti già indicati come esemplari) vorrei dare corso a un cambio di termini (da ora in poi vorrei usare "ideologia" al posto di "dogma"), spiegandone la ragione. Ideologia: s'è già visto con Prieto, indebita riduzione ad essenza dell'accidentale (naturalizzazione indebita della storia). Non cosa diversa, allora, da quanto il termine "dogma" - nei rinvii colti fin qui, in queste pagine, usati - finisce per dire. Preferisco, tuttavia, da ora in avanti usare il termine ideologia, non per altro che per questioni di mia, interna, coerenza terminologica. In altra sede ho distinto tra " dogma " e "ideologia " e quella negatività epistemologica che fino ad ora, qui, s'è associata a "dogma" là non l'ho legata a " dogma ", ma appunto al termine "ideologia ". Detto ciò tornerei alla questione del controllo.

Quali, allora, i preannunciati contro-fatti esemplari: direi soprattutto tre (bastano) e cioè le seguenti tre opere (le seguenti tre opere d'arte considerate in quanto tali): i Promessi sposi, lo Scolabottiglie di Duchamp e la Divina Commedia.

Tutte e tre queste opere d'arte falsificano la concezione del vestibolo linguisticamente - semiosicamente - ambiguo come causa necessaria della polisemia (dell'odierna nozione d'artisticità): non c'è dubbio infatti che anche su queste tre opere corre la pluralità della interpretazione e tuttavia non si può dire che esse non siano referenzialmente chiare, che, insomma, a livello strettamente linguistico o semiologico, che sia, non siano univocamente percorribili. [25]

Esse, poi, considerate insieme alle opere d'arte linguisticamente e semiosicamente ambigue (è pur un fatto che la nostra coscienza contemporanea ospita attribuzioni d'artisticità anche a opere del tutto referenzialmente indeterminabili in modo univoco, tipo quelle che hanno in mente i teorici qui considerati) falsificano la concezione della semplice confezione come necessario vestibolo (causa) dell'artisticità tout court. Consideriamo: se la polisemia (l'artisticità, oggi) può essere propria di opere confezionate in modo opposto (referenzialmente chiare, come i Promessi sposi, e referenzialmente oscure come quelle tipo "le idee verdi senza colore dormono furiosamente"), questa stessa artisticità (polisemia) va pensata del tutto sganciata dalla confezione dell'opera che la porta. Qualsiasi opera può diventare polisemica e allora opera d'arte e quindi la struttura stessa dell'opera non può essere considerata causa della sua eventuale identità artistica e ciò in linea con quanto s'è detto, all'inizio, contro il realismo ingenuo.

La Divina Commedia, poi e in fine, ci conferma che tale falsificazione (o messa in ideologia) della teoria del vestibolo (ormai si può sinteticamente dire cosi) in questione, non vale solo per la sincronia ma anche per la diacronia. Se cosi non fosse, la Divina Commedia non potrebbe, pur rimanendo a livello di confezione la stessa, realizzare, oggi, la propria artisticità nell'indecidibile, cognitivamente parlando, dopo averla realizzata nella decidibilità, appunto nel medioevo, cioè a dire secondo una modalità, che - praticata dogmaticamente oggi - ne ucciderebbe proprio la sua identità di opera d'arte, facendola di fatto omologa a una circolare ministeriale. Nel medioevo la Divina Commedia poteva si essere letta a quattro livelli ma si trattava di quattro livelli che, una volta praticati fino in fondo, l'avrebbero cognitivamente esaurita in modo totale, come appunto si presuppone debba accadere, oggi, a una circolare ministeriale in quanto tale.

Tutto ciò rende la caduta di questa teoria del vestibolo (prima epistemologica che estetica) nel realismo ingenuo (nell'ideologia) più che palese. La convinzione che l'artisticità permanga col permanere della struttura materiale delle opere e che quindi sia possibile sostanzialmente descriverla e definirla la una volta per tutte si rivela un'allucinazione, una vera e propria illusione trascendentale, nel senso di Kant. Vincolare l'artisticità alla confezione linguisticamente (semiosicamente) ambigua dell'opera significa ridurre indebitamente tutta l'arte a un suo parziale momento, sia sincronicamente che diacronicamente, è cioè a quel particolare gusto d'arte (a quella particolare poetica - anche, ormai possiamo dire - fenomenologizzatasi in progetto d'arte) che tale confezione visualizza, fungendone da correlato oggettivo o di corporeizzazione. Nel caso, quella poetica che grosso modo può essere detta, oggi, d'avanguardia e che continua in fondo in fondo ad avere il suo momento più estremo e radicale in Mallarmé. Sono le poesie di Mallarmé che assomigliano a "Le idee verdi senza colore dormono furiosamente" e di chi produce arte sulla sua linea, non i Promessi sposi. La teoria in questione ambirebbe invece a darci ragione anche dei Promessi sposi, oltre che di tutta l'arte, diacronicamente e sincronicamente intesa.

Jakobson lo lascia intendere più che palesemente, guardandosi bene dal limitare l'estensione della sua teoria con qualche quantificatore spazio-temporale. Non parliamo poi degli altri: Eco arriva, dichiaratamente a ridurre a Jakobson anche Aristotele, che è come dire a ridurre la poesia (l'arte) greca a Mallarmé: Barthes parte addirittura dalla metafisica, da una lingua simbolica senza spazio e senza tempo (dice lui: senza "contingenza") e cosi gli altri e allora non so proprio come l'ideologia possa, da costoro, essere evitata.

Per evitarla occorre a mio parere mutare del tutto i presupposti di partenza: la ratio essendi dell'artisticità nulla ha a che fare, logicamente, con la struttura delle cose (con la loro causa materiale avrebbe detto Aristotele) e nulla ha a che fare topologicamente, con l'interiorità delle cose stesse. L'artisticità pare proprio costituirsi in altro luogo, in quello stesso spazio d'uso insomma - il cerchio si chiude: siamo di nuovo ai fondamenti di questo nostro discorso - dove si costituiscono per noi l'identità di tutte le cose e, ovviamente, a partire da altre cause, non di natura ma di cultura (di coltura): cause coincidenti con quegli antropologici bisogni che, innescando gli usi, inventano poi anche gli oggetti da usare, i quali non sono altro che i loro rappresentanti (i loro delegati) nel mondo della corporeità e delle sue pratiche.

Quale allora l'uso (la poetica) capace di darci ragione della polisemia dell'opera, oggi, confezionata in modo chiaro o oscuro che sia? Poetica (uso), che non potrà non configurarsi, necessariamente, come una meta-poetica (un meta-uso), se è vero che in essa dovrà trovare la sua ragion d'essere (il suo explicans) non solo la polisemia delle opere prodotte da quella poetica (da quell'uso dell'arte) d'avanguardia che, grosso modo, s'è detto di ispirazione simbolista, ma anche quella di ogni altra opera, prodotta da poetiche (da usi) diverse (diversi) da questa (da questo) e che con questa (con questo), parallelamente o conflittualmente poco importa, oggi convivono. E del resto così deve essere, se è vero che la poetica (l'uso dell'arte), di cui si è in cerca, vuole essere la nostra poetica (il nostro modo di costituire l'arte usandola come tale) e non quella di qualcuno soltanto di noi.

2.5 P2 o della polisemia come funzione (come uso).

Sappiamo: una poetica ascritta ad operazione del "noi" (una poetica, s'è deciso di dire, a soggetto diffuso) non conosce fondazioni esplicite, ma solo fondazioni operative o inconscie, che dir si voglia. Esplicativamente si può dire: non si costituisce al modo del codice stradale. bensì di quello delle lingue naturali. Volendo descriverla non si può far altro che congetturarla solo e soltanto a partire dai suoi effetti di funzionamento, da quanto accade, allora, nella vita dell'arte nel suo complesso e ai suoi vari livelli. Cosa non soffocante, se è vero che la scienza si trova quotidianamente di fronte a necessità di questo tipo e che una metodica di una qualche credibilità pare già averla messa punto: penso si alla linguistica (alla linguistica delle lingue naturali, ovviamente), ma anche - e più latamente - alle scienze della natura o sperimentali in genere. In entrambi i casi si tratta di scoprire regole, produttive di comportamenti e fatti, del tutto nascoste dentro a ciò che producono e senza potere ricorrere ad altro che a questi stessi loro prodotti (a questi stessi comportamenti e fatti). In ogni caso - si può dire - si tratta di congetturare una qualche langue a partire da una qualche (sua) parole.

Quale, allora - e si torna a quanto più strettamente ci interessa - l'odierna, nostra, langue dell'arte, la langue che costituisce, per noi, l'opera d'arte in quanto tale? Come procedere per trovarla?

Ormai sappiamo: a partire dalla sua parole. Parole tangibile e sotto gli occhi di tutti, inevitabilmente: non si tratterebbe diversamente di parole. Non siamo, tutti, gettati in mezzo alla pratica dell'arte, direttamente o indirettamente, a tutti i suoi vari livelli? Non è, per altro, proprio questa pratica, che abbiamo visto darsi a noi in forma problematico (paradossale) nella questione sua, centrale, della irresolvibile, in assoluto, polisemia dell'opera d'arte? E veramente questo, della polisemia dell'opera d'arte, il nodo in cui tutti i livelli (logica di produzione e di fruizione - di critica - dell'opera; identità dell'opera in tale logica; modalità di rapporto tra questo orizzonte primario di f atti dell'arte e il suo orizzonte metadescrittivo: metacritica, estetica ecc.) vengono alla luce e rivelano radici problematiche comuni. Trovarne l'explicans (la causa, il principio costitutivo comune, il nodo radicale, appunto, di cui si è detto) equivarrà ad avere colto anche il centro della sua nascosta langue: per averne tutte le ramificazioni, poi, basterà prendere questa ipotizzata causa (questo principio) e trarne tutte le sue articolazioni più minute, svilupparne insomma tutto il deducibile.

Al riguardo ogni buon scienziato d'oggi (e del passato) può, indifferentemente, darci dei suggerimenti, dai linguisti ai fisici, dai biologi agli astrofisici, dai giuristi ai medici ecc., ma io ricorrerei, ancora una volta, a Keplero e a quanto egli fece, allorché in caccia della ragione dei movimenti di Marte, sostituì il circolo con l'ellisse.

Vediamo: Keplero si trovava davanti Marte, che faceva cose paradossali. Cose, insomma, che passavano a fianco (para) di ciò che Marte avrebbe dovuto fare, stando al sapere astronomico (alla doxa, appunto), che Keplero si portava, in quel momento e in armonia con il tempo, in testa: sapere che voleva il moto di Marte circolare. No, la cosa non andava: i comportamenti di Marte, dal circolo, non erano proprio deducibili. Che fare? Marte non poteva avere torto (i fatti, nella scienza, la vincono sempre sulle teorie con cui sono in disaccordo) e allora era (inevitabilmente se le osservazioni erano giuste) l'idea del circolo come emblema della logica del suo moto, che andava abbandonata ed eventualmente sostituita, riuscendovi, con un'altra.

Dove (da dove) prenderla quest'altra idea? Ma dall'unico luogo da cui gli uomini possono prendere le loro idee e cioè dalla loro stessa testa, insomma dall'universo del loro stesso sapere. C'era, nel sapere di Keplero, un'altra figura, attiva in diversi suoi settori, ma non ancora in quello dell'astronomia: era l'ellisse. Perché non prenderla e introdurla nel cielo al posto del circolo? Perché non congetturare (appunto "gettare dentro", "introdurre") che essa potesse essere capace di darci ragione dei movimenti di Marte e degli altri pianeti?

Keplero pose l'ellisse e i movimenti di Marte diventarono normali. Accordo perfetto: dall'ellisse essi erano del tutto deducibili. U ellisse poteva allora essere astratta (tratta fuori) dal cielo come una regola, fino a prova contraria, realmente presente nell'universo.

Ch. S. Peirce chiama abduzione l'insieme di questi due movimenti (gettare dentro - trarre fuori) che presiedono alla costituzione di una teoria e considera, anche lui, l'esecuzione che ce ne dà Keplero, nel caso appena indicato, come emblematica in assoluto di ogni corretto procedimento scientifico. Cosi si procederà allora, qui, alla nostra abduzione circa la polisemia dell'opera d'arte, in ambiti ovviamente - ma non varrebbe nemmeno la pena di sottolinearlo - mutati: al posto dei fatti di Marte, avremo, qui, i fatti dell'arte (i fatti che s'inscrivono nella vita dell'opera d'arte); al posto del cielo la nostra coscienza collettiva. L'idea da buttare, a modo di quanto Keplero fece per il circolo, già sappiamo qual è: è l'idea che causa della polisemia dell'opera d'arte, oggi, possa essere la sua confezione comunicativamente (referenzialmente) ambigua e che, in generale, l'artisticità sia effetto della confezione dell'opera, che essa, insomma, non abbia luogo costitutivo diverso da quello della struttura delle cose stesse. Si toglierà di mezzo, prima, la "confezione ambigua" come causa della polisemia dell'opera e poi - in feedback sui preliminari d'apertura di questo stesso saggio - l'idea che l'artisticità tout court (che l'identità delle cose in genere, già si diceva) possa essere effetto diretto, appunto, delle cose stesse e della loro struttura.

2.5.1. "Oggetto materiale" come abduzione.

Il nostro contemporaneo sapere ha elaborato in qualche suo settore (precisamente in campo epistemologico) la nozione di "oggetto materiale". Intensionalmente è un oggetto che, cognitivamente parlando, si costituisce in esautoramento del suo "emittente". Ciò non vuole dire che non abbia causa agente, ma che questa sua causa agente non viene comunicativamente allo scoperto per dirci quale sia la vera identità di questo oggetto (la sua verità in assoluto). Estensivamente il cosmo può essere (é), ad esempio, predicato oggi come "oggetto materiale". Soltanto nella scienza contemporanea il cosmo si costituisce come "oggetto materiale " nei termini appena indicati, quando cioè viene concepito in buio totale d'emittenza, quando insomma la sua " verità rivelata " viene messa in " non cale " come sua verità assoluta e ridotta a una sua semplice e parziale interpretazione. Non più la sua verità rivelata, ma una sua verità (un qualche suo livello di verità) considerata soltanto da qualcuno (ideologicamente - excepta fide, naturalmente -) la sua verità assoluta. Proprio per questo è poi un oggetto che cognitivamente non potrà che configurarsi come polisemico: la sue verità saranno tante quanti potranno essere i punti di vista (i paradigmi, i sistemi di riferimento) capaci di vedervi, ai loro rispettivi livelli, qualche cosa (qualche caratteristica, insomma).

Esautoramento dell'emittente e, quindi, polisemia irresolubile, s'è detto per questo "oggetto materiale": ma non sono, questi, i fatti dell'arte per i quali s'è in cerca di una causa? Di un loro explicans? Bene, perché non prendere, allora, tale "oggetto" e "gettarlo" dentro alla nostra coscienza collettiva, " traendolo " poi " fuori " come la descrizione della ragione dell'odierna identità polisemica dell'opera d'arte? Se a Keplero fu lecito spostare da un campo a un altro del sapere a lui contemporaneo la nozione di "ellisse", perché non dovrebbe essere lecito anche a noi fare altrettanto con quella di "oggetto materiale"?

L'opera d'arte però, mi si potrebbe obbiettare, si presenta geneticamente come un'entità descrivibile, in linea di principio, con un numero finito di asserti, insomma - stando ancora alla terminologia di Prieto - come un oggetto di pensiero (storico): come un segno.

E vero, essa, geneticamente parlando, non è altro che la traduzione in gesti e figure e parole e suoni ecc. dell'idea precisa (della poetica) del suo autore, ma ciò anziché porsi a sconferma di quanto qui si viene sostenendo, mi pare si ponga a sua solare conferma. Questa possibile obbiezione non toglie di mezzo questa nostra abduzione, ma, al contrario, la precisa - e siamo al preannunciato feedback sui preliminari di partenza - ulteriormente, confermandocene, appunto, la natura del tutto convenzionale (simbolica, si potrebbe dire con Kant): l'opera d'arte non è un "oggetto materiale" ma funziona come se fosse un "oggetto materiale". [26] L'"oggetto materiale" è qui sinonimo di un processo d'uso delle cose: abbiamo l'opera d'arte quando un segno, entrato in questo circuito, non può che uscirne in negazione di se stesso. L'artisticità non è qualità delle cose che entrano nel circuito, ma del circuito stesso. [27]

E, del resto, se qualcosa di storico si mette, nella storia, a funzionare come se non lo fosse, può forse essere colpa d'altri che della storia stessa e quindi dei modelli d'uso del mondo da essa approntati?

L'ipotesi che possa essere colpa di qualche causa misteriosa (di Dio o di qualche entità maligna) non tiene, perché impossibile - ovviamente a mio attuale vedere - imbastire per essa prove scientificamente - ed è soltanto scientifica la chiave in cui questo mio discorso vuole essere posto - controllabili. La polisemia dell'opera non sarebbe effetto d'altro che di questa convenzione d'uso delle cose, nonché ovviamente della tacita (operativa) delega d'artisticità data ad essa dalla contemporaneità. Con la sua utilizzazione ad explicans del problema in questione tutto quadra.

I contro-fatti, che hanno messo in crisi la teoria della confezione ambigua (del vestibolo ambiguo), diventano fatti normali, da essa del tutto deducibili: la polisemia può crescere tranquillamente su poesie tipo "le idee verdi senza colore dormono furiosamente" come pure su oggetti semiosicamente del tutto chiari come i Promessi sposi o lo Scolabottiglie. Ciò che li fa polisemici, infatti, non è qualcosa che abbia a che fare con la loro struttura, ma soltanto il circuito d'uso in cui finiscono per entrare, nel nostro caso il come se indicato. Se in più si vuole anche per questa teoria, come per ogni teoria scientifica, una qualche prova indipendente i nostri "preliminari ", più volte citati, ci forniscono anche questa prova. Per questa strada l'identità dell'opera d'arte non appare più qualcosa di abnorme e misterioso: costituendosi in tal modo, essa si costituisce secondo la stessa logica che presiede alla costituzione dell'indentità di una banconota e, allora, secondo la logica di costituzione dell'identità di ogni umana cosa. Cosa di più "naturale"?

E, per altro, anche nel suo territorio d'origine (tanto più nel suo territorio d'origine, si potrebbe dire, se fosse possibile) la nozione di "oggetto materiale" mantiene un suo senso appunto, epistemologicamente accettabile, se viene concepita solo e soltanto come intensionalmente indicante un modello funzionale e d'uso delle cose, che debbono costituire la sua estensione. Inevitabilmente, se è vero che il cosmo, in assoluto, entra oggi - direi proprio cosi - nell'identità-oggetto materiale ed è, invece, entrato, per il passato - vedi, appunto, la cultura citata della "rivelazione", vedi quella latamente medioevale ecc. - nell'identità-oggetto-storico, cioè a dire nell'identità opposta a quella implicata dalla nozione di " oggetto materiale ", vale a dire in quella di un " segno ", analiticamente del tutto descrivibile. Il che significa che dal cosmo, in sé inteso, non si epifanizza alcuna sua identità sostanzialmente immobile e assoluta e che è sempre la cultura, pertinentizzandolo, a dargliene una, volta a volta secondo la sua mobile sistematicità.

Col che si viene poi implicitamente a dire (a ribadire?) che, posto a tal fine il principio dell'uso (della convenzione in senso lato), bisogna poi subito pensarlo disseminato in forme storiche del tutto plurali e diverse. Il come se (l'als ob, si potrebbe dire con Kant) in questione intenderebbe (fatto salvo il principio che anche per le altre epoche storiche la ragione individuante l'arte, ovviamente ammesso che si tratti di epoche congrue a tale nozione, andrà sempre cercata nei modelli d'uso delle cose) intenderebbe, si diceva, semplicemente imbrigliare il centro propulsore della vita contemporanea dell'opera d'arte, insomma - come precisato - la sua langue.

2.5.2."Als ob" come langue.

Als ob definizione per analogia, stando ai termini di Kant. Il che poi vuole, invece, sostanzialmente dire, per Kant, "perfetta somiglianza di due rapporti tra oggetti del tutto dissimili", insomma perfetta somiglianza di funzione e allora omologia. [28] Se fu lecito a Kant congetturare in tal modo addirittura H trascendente (l'Essere supremo), tanto più dovrebbe esserlo per noi, qui, tesi invece a lavorare sulla conoscenza dell'immanente, su ciò che trascendentalmente agisce nella nostra stessa coscienza, in una sua fase temporalmente e spazialmente più che determinata, e quindi su qualcosa di - a differenza dell'Essere supremo di Kant - interamente omogeneo, per topologia e finitezza, alla nostra stessa ragione. In linea di principio non si danno, a mio parere, ostacoli a dar corso, nell'arte, alle modalità esplicative di tale abduzione o, quanto meno, non si danno per essa ostacoli diversi né superiori a quelli ipotizzabili, ad esempio, per la linguistica. Entrambe (linguistica ed estetica, in questo mio caso) lavorano su una entità di coscienza (una langue) a partire dalla sua parole e, se non è insensato tentarne appunto la linguistica (la semiotica) - diciamo cosi - non vedo perché dovrebbe esserlo tentarne un'estetica ad essa del tutto omologa.

Tale als ob può essere posto, allora, a perno logico della nostra odierna vita dell'arte. Posto al suo centro tutto logicamente si organizza e per la via della materialità in senso stretto e per la via della sua convenzionalità (storicità): dai rapporti tra opera d'arte e critica a quelli tra poetica e critica, dai rapporti tra il plesso poetica-opera-critica e metacritica e estetica ecc. Basta trarlo, codesto als ob, a tutte le sue deduttive conseguenze e se ne avrà appunto l'attuale (quella che io propongo di concepire come l'attuale) langue dell'arte.[29]

E' lavoro che ho già svolto, anche se ancora a grandi linee, in altra sede e che qui non sto a ripetere. Luogo, che il lettore interessato può facilmente reperire per suo conto. [30] Vorrei piuttosto lasciarmi andare, in chiusura di questo paragrafo, ad una considerazione: perché dotare questo saggio di questa sua parte propositiva? Perché insomma non chiuderlo sulla semplice constatazione della caduta nella ideologia della teoria (delle teorie) in questione? Solo questo traguardo s'era, in fondo in fondo, messo a programma. Perché ritengo - e credo che con me si possa essere d'accordo - che, in assenza di questa parte, la conquista di detto traguardo sarebbe apparsa meno evidente: nella misura in cui questa mia teoria può essere convincente e nella misura in cui - continuando, con buona pace di Arbasino, con tale stilema - essa si presenta come radicalmente diversa dalla teoria del vestibolo, qui questionata, l'errore della teoria qui rifiutata sarà costretto a porsi non come accidentale e marginale, ma in verità costitutivamente anch'esso di fondo e radicale.

2.6. La casella vuota della " Verità".

"Verità" con la "V" maiuscola. Può essere opportuna, in chiusura generale, ancora una precisazione. Non è, questa, la Verità appetita dai "dogmatici " (dagli abitatori dell'ideologia) qui in questione? Bene. Contrapponendomi, io, ad essi e in modo radicale, ci si potrebbe sentire autorizzati (i miei lettori potrebbero sentirsi autorizzati) a pensare che io intenda dare al mio teorizzare (al mio pensare) un traguardo diverso. Errore: nulla di più falso. Il traguardo resta identico: è la via che viene radicalmente mutata. Non si lavora certamente per la Verità, riempiendo la sua casella con verità parziali, come fanno appunto gli abitatori dell'ideologia in questione. Se la Verità (l'essenza ultima delle cose) è irraggiungibile a partire da noi (dalla nostra curvata e prospettica finitudine), potremo avere con essa rapporti soltanto se è essa stessa a venirci epifanicamente incontro e a sostegno di questa scommessa qualcosa possiamo (dobbiamo) fare. Intanto impedire che il suo luogo (la sua casella, ho detto) venga riempita da verità falsamente assolute e, poi, imparare a convivere (religiosamente? perché no?) con tale vuoto, con tale assenza pregna di noi. t solo in tale spirito che mi auguro che queste mie pagine vengano lette, perché solo in tale spirito sono state concepite e scritte.

Note bibliografiche:

1- Cfr. L. Nanni, Appendice metodologica: modello A, in R. Bartbes. Letterarietà come scrittura: un mito, " Studi di estetica", n. 6, 1981.Ü

2 - "Poetica" allora non intesa, qui, in accezione linguistico-semiologica (penso a R. Jakobson, a T. Todorov ecc.), ma nel suo significato tradizionale. Significato riportato, nel Novecento, alla nostra attenzione (più che meritoriamente, non è nemmeno da dire) soprattutto dalla nuova fenomenologia critica. Ü

3 - F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Bari, La Terza, 1968, pp.86-7. Ü

4 - Platone, Politico, 262. Ü

5 - Può solo, appunto, "scoprirli". Non è proprio a caso che il termine "scienza" abbia fatto il paio con il termine "scoperta". Fu, allora, convinzione di Platone. 2 stata, oggi, convinzione, per esempio, di Jakobson ("Il linguista deve seguire fedelmente questa dicotomia strutturale oggettiva e tradurre per intero i concetti grammaticali, realmente presenti in una data lingua, nel suo metalinguaggio tecnico, senza alcuna imposizione di categorie arbitrarie o estranee alla lingua osservata. Le categorie descritte sono costituenti intrinseci del codice verbale, maneggiato dagli utenti della lingua, e non sono affatto "convenzioni del grammatico", come persino attenti indagatori della grammatica poetica, quale ad esempio Donald Davie, erano propensi a credere. " in R. Jakobson, Poetica e poesia, Torino, Einaudi, 1985, pp. 339-40. Ed è convinzione di tutti coloro che, a mio parere, vedono bene (in modo epistemologicamente corretto) dentro al problema. Ü

6 - Platone, La repubblica, 601, traduzione di E Gabrieli, Milano, Rizzoli, 19 8 l. Ü

7 - Una zappa è una zappa solo in rapporto alla pratica dello zappare. In rapporto alla pratica dell'offendere materialmente, essa non può essere altro che un'arma ecc. Se continuiamo a nominarla " zappa" anche in questo secondo caso, è perché (impropriamente) continuiamo a vederla secondo la prima pratica: quella dello "zappare", che risulta così indebitamente assolutizzata. In se stessa la "zappa" non è nulla o è tutto: una materia potenzialmente capace di approdare a indefinite entità culturali (d'essere usata - coltivata - in indefiniti modi). Modi che poi sono gli unici a scandire la sua esistenza. In sé la " zappa " o, meglio ormai, "quella cosa che può divenire volta a volta zappa, arma, gancio ecc. " non è che un'astrazione. Non si vedono (non si possono vedere) gli elefanti con il (a partire dal punto di vista del) microscopio. Ü

8 - Anche l'elefante, una volta visto in quanto tale e - a questo primo livello - necessariamente non tramite il microscopio, può essere analizzato con vari strumenti: anche - a questo secondo livello sì - con il microscopio. Con il microscopio posso analizzare un'entità che so già essere un elefante, ma non decidere in prima istanza se sia un elefante o meno. Ü

9 - Cosa, per altro, di cui siamo tutti abbastanza consapevoli. Non c'è studioso dell'arte, oggi, che, a un minimo livello di serietà, non se ne renda conto, tanto è vero che si pensa, in proposito, a due operazioni diverse. R. Barthes, ad esempio, alla " scienza " e alla " critica "; R. Jakobson, ancora, alla "poetica" e alla " critica ". I contrasti cominciano dopo: cominciano quando si deve dare, poi, corso a queste due operazioni come diverse. E qui che molti sbagliano, perché, sotto due nomi distinti, continuano poi a contrabbandare un'operazione unica, a confondere, insomma, ancora "critica" con " poetica ", " critica " con " scienza " dell'arte in generale ecc.Ü

10 - Ideologia come (cfr. L. J. Prieto, Pertinenza e ideologia in Pertinenza e pratica, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 121-40) assolutizzazione del relativo, totalizzazione del parziale, naturalizzazione di ciò che è storico ecc.Ü

11 - Polisemia cognitiva, s'intende, non anche empirica. Dell'opera d'arte sono possibili tutti gli usi, ma sempre e soltanto teoretici. Sentiamo che è propria di un'opera d'arte la possibilità di essere, oggi, interpretata vuoi in senso marxista, vuoi in senso psicoanalitico, vuoi in senso antropologico, vuoi in senso strutturalista e così via (quotidianamente la nostra coscienza collettiva registra il convivere legittimo, fianco a fianco, di tali, plurali, interpretazioni di una stessa opera d'arte), ma non quella di essere usata come corpo contundente. Un'opera d'arte può essere usata da qualcuno come corpo contundente, ma la nostra coscienza intuitiva non registra tale suo possibile uso come uso conveniente alla pratica della sua artisticità. L'uso di un'opera d'arte come corpo contundente non s'inscrive oggi - in futuro non si può mai sapere - nella pratica artistica di un'opera, ma inscrive l'opera, togliendole l'artisticità, nel campo delle armi. Sono osservazioni, queste, che trovo addirittura ovvie e che, per questo, mi sono ben guardato dal registrare in ciò che ho scritto prima di queste pagine, ma alcune verbali contestazioni del senso del mio teorizzare, portate avanti proprio in presupposizione di una mia con-fusione di questi due livelli, e la pubblicazione addirittura di libri, incontrati per gran parte sulla affermazione della necessità di prendere coscienza di tale distinzione, mi spingono (mi costringono) a fare questa nota, che in assoluto continuo a considerare superflua e stupefacente. Ma tant'è: così va il mondo. Ü

12 - Non significa "paradosso", etimologicamente parlando, " a fianco dell'opinione "? E allora " a fianco delle nostre attese " o, anche, " a fianco del noto "? La polisemia dell'opera d'arte passa a fianco di tutte quelle che sono le nostre attese circa il disambiguamento del linguaggio (di tutto ciò che sappiamo circa il modo di disambiguare i segni) e quindi diviene tout court per noi problematica. Del resto, ogni vero problema scientifico non può che avere la struttura del paradosso. Ogni problema scientifico è un vero problema se passa a fianco di ciò che sappiamo (della nostra opinione). Compito della scienza è scioglierlo, facendo sì che possiamo farcene, appunto, un'opinione, portandolo insomma dalla posizione di " a fianco del " a quella di "dentro il " nostro sapere.Ü

13 - R. Barthes, Critica e verità, Torino, Einaudi, 1966, p. 50. Ü

14 - R Jacobson, Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966, p.71. Ü

15 - J. Mukarovsky, Il significato dell'estetica, Torino, Einaudi, 1966, passim. Ü

16 - S. Langer, Sentimento e forma, Milano, Feltrinelli, 1965 e Filosofia in una nuova chiave, Roma, Armando, 1972, passim. Ü

17 - G. Della Volpe, Critica del gusto, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 79. Ü

18 - L. Anceschi, Progetto di una sistematica dell'arte, Milano, Mursia, 1968, p. 45. Ü

19 - "Ogni schietta rappresentazione artistica è in se stessa l'universo, l'universo in quella forma individuale, quella forma individuale come l'universo. " in B. Croce, Breviario di estetica, Bari, Laterza, 1969, 16° ed., p. 126. E "universo" non vuole dire appunto, anche per Croce, pluralità di realtà e allora di significati? Ü

20 - U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975, p. 331. Ü

21 - R. Jakobson, Linguistica e poetica in Saggi di linguistica generale, cit., passim. Ü

22 - Critica e verità, cit., p. 50. Ü

23 - R. Barthes, Barthes di Roland Barthes, Torino, Einaudi, 1980, 155. Ü

24 - U. Eco. Trattato, cit., 330. Ü

25 - A livello strettamente linguistico I promessi sposi e la Divina Commedia non sono ambigui affatto: dicono cose comprensibilissime per tutti. A livello semiotico, poi, lo Scolabottiglie, nello spostamento che subisce ad opera di Duchamp dal negozio del cantiniere alla galleria d'arte, resta proprio lo stesso: strutturalmente non viene, insomma, toccato o manomesso. Anch'esso, quindi, identificabilissimo come scolabottiglie, fuori di ogni ambiguità. Ü

26 - Ciò spiega perché, anticipando, ho proposto di denominare l'opera d'arte " il simbolizzabile ". E "oggetto materiale" è un oggetto, che, sappiamo, cognitivamente viene dal "buio " (dall'ignoto). Quelle sue caratteristiche, che vengono tratte alla cultura (e allora alla identità di concetto o di segno che dir si voglia), devono questo loro nuovo statuto unicamente alla necessità simbolica, che le lega ai paradigmi culturali (nel caso dell'opera d'arte, ai paradigmi di fruizione latamente intesa), che possono appunto conoscerle. I segni, a questo livello, hanno sempre una genesi simbolica. Ü

27 - La realtà delle cose controlla la conoscenza che possiamo averne, ma è la nostra ideazione (sono le legalità che noi poniamo in essere per la loro coltivazione) a deciderne modalità e livelli di praticabilità. La chiave altera, nella damigiana, il sapore del vino, ma non basta la sola realtà di tale sapore a costringerci a cercare la chiave: il fatto può sempre passare inosservato o, osservato, essere giudicato di nessun rilievo negativo, quando non addirittura vissuto come una qualità positiva. t sempre una teoria a legare un qualche effetto alla sua causa e una teoria (nonché il senso - che è ciò che più conta - della sua proposta) è (sono) appunto, e sempre, in potere solo e soltanto della nostra ideazione. Un'opera d'arte controlla la vita della critica, una volta che la presupposizione che sia un'"opera d'arte " l'abbia messa in moto, (se così non fosse, perché porre tra opera e critica un rapporto simbolico? un rapporto di necessità?), ma non ha alcun potere costitutivo circa questa stessa presupposizione. Ü

28 - E. Kant, Prolegomena, parr. 57 e 58. Ü

29 - E' questa langue che, a livello della sua parole, autorizza ciascuno di noi a interpretare (a pertinentizzare) l'opera d'arte secondo la nostra propria cultura. E la prova più lampante ci viene proprio da coloro che questa libertà vorrebbero negare, intendo da tutti i teorici del lettore (del fruitore) modello. Il lettore (il fruitore) modello può divenire sensatamente oggetto di proposta solo in un quadro culturale che ne registri di fatto la sua mancanza, la sua assenza. il suo bisogno è sintomo della constatazione che ci troviamo in presenza di una langue dell'arte, che non lo registra, che non lo autorizza appunto, come sua parole. Se fosse, infatti, una nostra pratica corrente, che senso avrebbe battersi tanto per il suo avvento? Ü

30 - Cfr. L. Nanni, Pars construens in Per una nuova semiologia dell'arte, Milano, Garzanti, 1980, pp. 316-63. Ü

 

Logo Parol
© 1985/2003 Parol - quaderni d'arte e di epistemologia
Per qualsiasi utilizzo delle risorse presenti sul sito contattare la redazione
Site designed and managed by Daniele Dore