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DEUS EX MACHINA
Una storia di uomini e robot
(Parte prima)

di Riccardo Notte

Premessa

Il robot è un mito potente, profondo e nuovo. A prima vista questa affermazione può sembrare assurda, priva di contenuti. Che si intende qui per mito? E perché mai il robot, un prodotto letterario e solo in parte tecnologico e industriale, dovrebbe assurgere a cotanti onori? E poi è noto che di automi di varia natura e conformazione si parla da tempi remoti, che precedono perfino la storia. Queste a altre obiezioni sono giuste e puntuali, ma trascurano il fatto che il mito del robot, così come si è configurato da un paio di secoli a questa parte e precisato nel corso del novecento, è intimamente connesso all'idea, tutt'altro che mitica, della creazione dell'intelligenza artificiale e in definitiva della vita artificiale. Esso è un inizio, un principio, una creazione artistica ad opera di un demiurgo.

Il semplice fatto che si concepiscano e si costruiscano robot antropomorfi, o anche insettiformi, manufatti dotati di facoltà che simulano il vivente, solo in parte deriva da una inconscia pulsione mimetica; l'impulso che induce molti artisti contemporanei a riprodurre le sembianze umane, gli oggetti o intere sezioni del mondo in simulacri convincenti ha qualche relazione con il desiderio profondo di reinventare la vita su basi artificiali. Infatti, nella simulazione del vivente vi è implicato il principio di discontinuità. La creazione di un vivente non-vivente, di un simul-vivente, si iscrive nelle ragioni del superamento di una linea evolutiva che prosegue sulla terra, ininterrottamente, da oltre tre miliardi di anni. Il robot è in un certo senso l'immagine esemplare e sintetica delle innumerevoli, spesso drammatiche discontinuità cui è esposta l'umanità del tempo presente.

Il nucleo della forza e della pervicacia del mito del robot è racchiuso oggi nel significato che si attribuisce alla vita. I tumultuosi sviluppi della genetica e della microbiologia hanno aperto la via a un curioso paradosso. Fra i biologi si riconosce una sorta di "salto qualitativo" tra il non vivente e il vivente (J. M. Smith e E. Scathhmàry, 1999). La scienza ufficiale prova imbarazzo di fronte alle discontinuità e così l'oscura, anzi misteriosa dinamica di questo passaggio è immediatamente neutralizzata da promesse di future ricerche. Secondo un'altra linea di pensiero il confine tra il vivente e il non vivente sembra sfumare in un concetto problematico, se non insostenibile. La vita scaturirebbe dalla non vita a un certo punto della storia del pianeta e per l'azione di forze molecolari ed atomiche che seguono così la loro naturale inclinazione - si dice - quasi in virtù di una sorta di "clinamen" cosmico. Si discute, quindi, e da tempo, di auto-organizzazione o autopoiesi (Maturana - Varela, 1984, pp. 50 e sgg.) e come è noto termini ed espressioni come "morfogenesi", "complessità", "attrattore caotico" o "rottura catastrofica degli equilibri" fanno ormai parte del background di ogni intellettuale che si rispetti.

Però, a dispetto di questo stupefacente apparato concettuale e sperimentale l'insorgenza del vivente dal non vivente resta anche alla luce delle attuali conoscenze un evento che presenta più di un interrogativo irrisolto. Un problema filosofico non meno spinoso, perché latore di una seconda discontinuità, è costituito dalla nascita dell'autocoscienza. Il vivente, nel corso delle ere evolutive, ha prodotto quel fenomeno unico nel suo genere che è la coscienza umana, con tutte le sue estensioni, anche tecnologiche. Agli occhi della scienza ufficiale questa palmare discontinuità è assolutamente scandalosa e da Darwin in poi si è tentata ogni strada per azzerarla, per ricondurla nell'alveo di una spinoziana geometria di processi che avvengono nel continuum spazio-temporale. Le neuroscienze costruiscono oggi le più aggiornate e solide argomentazioni contro ogni discontinuità ontologica riferibile ai processi psichici che caratterizzano la specie umana. Ma se i processi psichici sono il frutto di una determinata organizzazione evolutiva, se sono identificabili con i cervelli che li esprimono perché non tentare di riprodurli?

Non è forse quello che potrebbe essere definito il dogma del continuum ciò che nasconde l'impulso a costruire qualcosa di artificiale ma anche di analogo al vivente, e perfino al senziente e raziocinante?

Il percorso logico procede dunque dal non vivente al vivente, e da questo all'ente autocosciente, costruttore di utensili e poi di linguaggi articolati e infine ideatore e abitatore di tecnostrutture. Quest'ultimo soggetto sembra voler proiettare se stesso in creazioni non viventi ma versatili, in realizzazioni simul-viventi: i robot. In prospettiva il mondo della scienza e della tecnica insegue il sogno di costruire forme artificiali capaci di auto-organizzarsi e di manifestare una presa sul mondo e su se stessi paragonabile, o quantomeno analoga, alla coscienza umana, ai suoi prodotti. La simul-vita è un modello teorico centrale, un esperimento mentale che occupa una parte rilevante delle speculazioni relative alla natura della mente e degli organismi.

In linea di principio, se è dato il passaggio naturale dal non vivente al vivente è anche concepibile il passaggio "naturale" dal vivente al non vivente che simula il vivente. Dunque, la complessa organizzazione della materia vivente può esistere in forme analoghe e non protoplasmatiche. Se si segue questa linea di pensiero è logico supporre che un mondo di robot possa essere niente più che il passo successivo adottato dalle strategie evolutive per conservare e accrescere la complessità dell'informazione che emerge in alcune aree dell'universo fisico sotto forma di specie senzienti; quest'idea è stata approfonditamente discussa da Barrow e Tipler:

Robot dall'intelligenza superiore aumenterebbero la quantità di informazione a disposizione di una civiltà ben al di là di quanto potrebbero fare i soli sforzi dei creatori. La cooperazione fra robot superintelligenti e membri della specie che li ha creati, porterebbe a un aumento della ricchezza disponibile per entrambi i gruppi, e la specie creatrice sarebbe più ricca con i robot che senza. Che la cooperazione tra due entità economiche A e B, con A superiore a B sotto tutti i punti di vista comporti un miglioramento economico per entrambe, è una ben nota conseguenza della teoria del vantaggio relativo in economia. Noi esseri umani non dovremmo avere paura dei robot più di quanto ne abbiamo per quelli di carne e sangue che un giorno l'evoluzione renderà diversi da Homo sapiens (Barrow - Tipler, 1986, p. 587).

Più che di una possibilità teorica si deve parlare di una vera visione. La futura creazione di artefatti superintelligenti sembrerebbe una necessità evolutiva, o almeno così è interpretata, con vari distinguo e sfumature, da quella rilevante parte del mondo scientifico che concorda con Barrow e Tipler. La specie umana ha prodotto tecnologie protesiche di crescente complessità: queste tecnologie formano un habitat dal quale dipende in larga misura la sopravvivenza della specie. Esiste quindi, nei fatti, un accoppiamento strutturale proficuo, una simbiosi fra il vivente e il non vivente. Ma in prospettiva la simbiosi unirà il vivente e il simul-vivente. Si è in realtà al cospetto di uno dei principi fondatori del nuovo mito del robot e con la sua implicita ambivalenza. La vita artificiale e autocosciente è l'epitome del concetto di indipendenza, di autosufficienza, di completezza, di pienezza dell'essere. Eppure la si concepisce in termini di relazione con le con necessità e con le pulsioni dell'umanità. Un evidente non senso.

La mutazione del simul-vivente, se attuabile, non avrebbe invece nulla a che vedere col mondo organico. Essa costituirebbe l'esempio assoluto della radicale discontinuità fra gli enti di cui si è già accennato (e in quanto tale - viene da pensare - non potrebbe generare alcun plausibile accoppiamento strutturale).

Fra gli argomenti a sostegno del nuovo mito del robot spicca il tema della complessità. Questa mutazione in corso d'opera dipenderebbe dal corso dell'evoluzione filetica della nostra specie. la casuale nascita di una linea filetica tendente all'ipertrofia cerebrale ha prodotto una necessità evolutiva interna. Da qui l'accensione di strutture artificiali autopoietiche (e autoriflessive) in gemmazione. La cerebralizzazione orienterebbe la specie a generare forme di coscienza che la vita organica non è in grado, a causa dei suoi limiti strutturali, di raggiungere.

 È l'ipotesi delle cosiddette sonde di von Neumann (Barrow - Tipler, ib.), dalla quale, probabilmente, Philip Dick trasse spunto per inventare le sue conturbanti "autofac", fabbriche robotiche automatizzate che non solo producono a getto continuo ogni sorta di beni, ma che sono anche in grado di riprodurre se stesse. Simulazioni degli organismi, e infine organismi veri e propri - i cyborg - che nei loro nuovi territori spirituali e corporali si riconoscono al di là del bene e del male, al di là del dolore e della morte. I paradisi promessi dalle religioni rivelate sono i mondi di robot realizzati in terra, o meglio nel cosmo, poiché tutto questo e altro ancora promettono le fantastiche ma scientificamente plausibili sonde di von Neumann: oggetti artificiali che sono in parte astronavi intelligenti e in parte dickiane autofac lanciate nel cosmo, capaci una volta raggiunta una meta stellare di utilizzare il materiale planetario per costruire copie di se stesse, repliche che a loro volta, in un ininterrotto processo intergalattico di replicazione virale, si espanderanno fino a colonizzare l'intero cosmo, fino al punto da mutare la struttura stessa dell'universo medesimo. La meta finale di un siffatto sogno ad occhi aperti è la sopravvivenza al di là dei limiti imposti dall'entropia. Ecco che gli strabilianti robot del futuro remoto potrebbero collocarsi all'apice del processo fisico che ha fondato l'universo, per convertire le leggi fisiche in qualcosa di adatto a una esistenza diafana ed eterna. Gli ultrarobot conquisterebbero le vette, costruirebbero essi stessi quel finalismo dell'universo che la scienza attuale rigetta. I robot sarebbero, o meglio "saranno" Dio.

Un volo vertiginoso e terribile. Come nell'invocazione dell'Ulisse dantesco, così le sonde di von Neumann non sono fatte per vivere come i bruti, ma per inseguire la sola conoscenza, ma una cognizione priva di virtù, ignara delle virtù e dei vizi (retaggi dell'organico, dell'animale), una comprensione al di là del bene e del male, al di là della sofferenza, al di sopra della morte.

Il vivente, in questa prospettiva, assume il poco lusinghiero ruolo di mero espediente evolutivo, una via di mezzo, sorta dalla materia inerte, perché scaturiscano dopo milioni di anni esseri sufficientemente dotati da edificare una civiltà tecnologica sviluppata al punto da costruire i primi esemplari autonomi di entità non biologiche ma coscienti, proiettate in tutto l'universo, esse stesse il significato ultimo dell'universo: i robot.

Gli antesignani

È stato detto che l'idea della creazione della vita artificiale affonda le sue radici in un passato mitico. Efesto, il dio della metallurgia, forgiatore di armi per gli dei dell'Olimpo, crea giovani fanciulle fatte d'oro e inventa tripodi semoventi (Iliade, Libro XVIII, vv. 509-15). Ed è non di meno a tutti noto il mito di Pigmalione, re di Cipro, che si innamora di una statua creata dalle sue stesse mani ma animata da Afrodite.

Pausania descrisse gli automi costruiti da Dedalo (Pausania, Periegesi della Grecia, libro II, cap. IV), ma di figure o statue animate parlano anche Dione Cassio (155-240), Pindaro e Apollonio di Tiara (Cohen, 1966, 15 e sgg.; Ceserani, p. 211 e sgg.). Di vario genere sono i fantasiosi automi citati nelle Mille e una notte, o quelli reali illustrati nel Kitab al-Hiyal, il libro dei meccanismi ingegnosi, redatto dai Barin Musà, o, ancora, gli automi che il matematico e ingegnere arabo Al-Jasari descrive redigendo fra il 1204 e il 1206 il suo Libro delle conoscenze dei meccanismi ingegnosi (Losano, 1990, p. 35 e sgg.).

Storie fantastiche sugli automi nascono in Cina, in India, nel Vicino Oriente. Eppure, anche se nell'antichità alcuni fra questi strabilianti oggetti variamente descritti sono stati davvero costruiti, non è in alcun modo lecito accostarli ai robot. Perché affiori il mito del robot, mito eminentemente moderno, sono necessari alcuni ingredienti che non compaiono affatto prima del diciottesimo secolo e che solo in qualche misura sono adombrati nelle creazione di un altro mito affine, quello del Golem.

Cohen ha dimostrato che il concetto di automa e quello del Golem sono paralleli ma mutuamente incompatibili: il primo si avvale di un procedimento meccanico, al secondo è infusa una sorta di virtù magica che anima l'argilla modellata in sembianze umane (Cohen, 1966, 31 e sgg.). Si deve aggiungere che le differenze fra i due modelli di vita artificiale, ancorché opposti sia dal punto di vista procedurale che da quello culturale, l'uno intriso com'era di conoscenza geometrico-meccanica, logico-sequenziale, lineare e astratta, l'altro fondato su una visione mistico-esoterica, sintetica, simbolica e arcana, convergevano però nell'unanime sospetto che essi suscitano nella gente e nelle autorità costituite, specialmente nelle autorità religiose.

È interessante ricordare che, secondo le cronache, il sapiente, poeta e mistico Solomon ibn Gabirol (1160-1230), fu accusato di stregoneria per aver costruito un automa femminile. Si trattava evidentemente di un meccanismo, non di un Golem, termine quest'ultimo che, come si sa, compare nella Bibbia una sola volta, nei Salmi (CXXXIX), per indicare qualcosa di informe, ma che proprio dal medioevo in poi assume una sua autonoma vita.

Secondo le cronache (o le leggende) già Eleazar di Worms (1160-1230) costruisce qualcosa di simile a un Golem, ma la vera tradizione ha inizio con Elijah di Chelm e soprattutto con il celebre rabbi Löw, a Praga, nel 1580: una figura che ha ispirato miriadi di artisti e scrittori, com'è noto Dai racconti che circondano la misteriosa figura di rabbi Löw derivano le stirpi di esseri informi, magici e pericolosi che hanno alimentato l'inesauribile filone dei racconti dell'orrore. Ma siamo evidentemente all'interno di una differente categoria dello spirito e di una ben diversa tipologia dell'immaginario.

Gli antesignani dei moderni costruttori di robot - si è detto - sono stati al contrario personaggi assolutamente prosaici: orologiai di straordinaria abilità, inventori di servomeccanismi, studiosi di anatomia, perfino truffatori, ovvero individui intelligenti ma del tutto ordinari, che hanno però tentato in vario modo di riprodurre i segreti delle articolazioni, dei tendini, dei muscoli umani, della voce e perfino di alcune funzioni superiori. Gli storici che si sono dedicati alla ricostruzione delle gesta di questi singolari personaggi insistono sull'idea che vi sia una sostanziale unità di intenti fra i più antichi e quasi leggendari costruttori di automi e i recenti creatori di robot. Con ogni evidenza non è così.

Certo, perché esistano inventori di meccanismi automatici di una qualche complessità si richiede un minimo sviluppo nelle tecniche meccaniche e geometriche. La leggendaria figura di Erone di Alessandria (285-222 a. C.) ne costituisce forse l'esempio più noto. Erone, tra l'altro, creò un elaborato teatro di automi semoventi, e una celebre eopila, strumento che si animava a contatto con i raggi del sole. Inventò anche degli uccelli semoventi che ispirarono in pieno settecento l'automatista Jacques de Vaucanson (1709- 82).

Durante il medioevo fiorirono innumerevoli racconti sui creatori di automi e di teste parlanti. Impossibile è darne un elenco dettagliato queste brevi note, ma deve essere almeno menzionato papa Silvestro II, al secolo Gerberto d'Aurillac. Nato ad Auvergne, in Francia, studioso di astrologia, di scienze occulte, di astronomia, di meccanica, di matematica, eletto alla cattedra pontificia nel 999, Gerberto fu molto probabilmente l'inventore del meccanismo detto "scappamento", con il quale principiano i moderni orologi meccanici (Jünger, 1994). A questa figura inquietante, ma di tale statura da indurre Montagne a dedicargli una scandalizzata biografia, la leggenda attribuisce la costruzione di strane statue semoventi e di una testa parlante. Siamo, è evidente, ai confini del magico, del misterico: destino al quale durante il medioevo raramente sfuggono gli intellettuali. "Creatore" di un mitico servitore automatico fu anche Alberto Magno (1204-1282), ed è rimarchevole l'irosa reazione del suo celebre allievo, S. Tommaso d'Aquino, che vedendo cotanta opera, frutto senza dubbio di virtù diaboliche, si decise a distruggerla.

Con un lungo salto temporale si atterrare in un territorio culturale e psicologico più affine ai nostri tempi: l'Illuminismo. È infatti in questa temperie culturale che si sviluppa la personalità di Jacques de Vaucanson, il più celebre fra gli automatisti del suo tempo, citato con rispetto dagli enciclopedisti. Egli creò un flautista meccanico che venne presentato a Parigi l'11 febbraio 1738. Vaucanson realizzò anche, intorno al 1933, un'anatra ispirata agli uccelli di Erone d'Alessandria e vari altri notevoli meccanismi che si basano su una applicazione molto sofisticata del cilindro di programmazione inventato circa due secoli prima da Salomon de Caus.

Vaucanson è forse il primo a tentare l'impresa suprema: costruire un artefatto che riproduca alla perfezione l'anatomia interna e le funzioni motorie dell'essere umano. Progetto faustiano e fallimentare, si tratta dell'equivalente adulto delle animazioni dei balocchi che ogni bambino tenta con la propria fantasia, ma dove finisce il gioco infantile inizia la sfida prometeica.

Colpisce lo stretto legame che intercorse fra gli inventori di automi e i giocattoli. È davvero una relazione profonda, e sopravvive al giorno d'oggi nelle intenzioni dei colossi dell'industria robotica. Il principio del piacere sembra nascondersi dietro l'impulso alla creazione della vita artificiale. Nella morfologia dei robot si può forse riconoscere la natura ludica dell'oggetto sostitutivo che si riscontra nell'attitudine infantile ad animare con la sola volontà ogni oggetto possibile. Questa relazione è evidente anche in Blade Runner, film cult del regista Ridley Scott, tratto da un racconto di Philip Dick. Un personaggio secondario, Sebastian, assistente, figlio putativo, allievo e succube di Eldon Tyrrel, il genio della biomeccanica creatore degli androidi nexus, è un eterno fanciullo. Per una sorta di legge del contrappasso la sua innaturale immaturità psicologica è fisicamente esasperata da una malattia genetica che provoca l'invecchiamento precoce. Sebastian vive perciò in un solitario e spettrale palazzo animato unicamente dai suoi giocattoli semiviventi: piccoli buffi robot, clowneschi ma sofisticati, bambole caricaturali semoventi, automatiche, complesse, al limite della coscienza di sé. I suoi amici sono però soltanto balocchi, mere parodie di quelle stupefacenti creazioni evocate da Tyrrel, evidente immagine onirica dell'adulto strapotente, del padre irraggiungibile. Tyrrel può forse anche incarnare il Super Io di ogni immatura personalità faustiana.

Nella realtà storica tutti gli automatisti noti e meno noti sono in realtà costruttori di giocattoli, e sono per questo apprezzati indistintamente da sovrani e popolani. Lo fu Giannello della Torre, meccanico cremonese alla corte di Carlo V, un sovrano che riesce arduo riconoscere nelle vesti di adoratore di giocattoli meccanici. Fabbricanti di complicati balocchi furono anche gli svizzeri Pierre e Henri-Louis Jaquet-Droz, creatori di un musicista, di uno scrivano e di un disegnatore meccanici. Costruirono giocattoli a orologeria Friedrich von Knaus (1724-1789), Henri Maillardet, Johann-Bartholomé Rechsteiner (1810-1893), il celebre mago Jean Eugène Robert Houdin (1805-1871) e M. Gaston Decamps, e con quest'ultimo siamo già in piena modernità. Un giocattolo pseudomeccanico e truffaldino è anche il cosiddetto "turco" costruito da Wolfgang von Kempleton e presentato nel 1790 alla corte dell'imperatrice d'Austria Maria Teresa come un imbattibile giocatore artificiale di scacchi. Un inganno destinato ad avere fortuna per decenni. Edgar Allan Poe indovinò il trucco, e lo svelò (Ceserani, pp. 140 e sgg.). In ogni caso il Turco fu almeno nelle intenzioni antesignano di un altro e reale robot senza braccia né gambe, ma con un cervello di scacchista senza paragoni. È il celebre Deep Blue, l'imbattibile programma campione di scacchi, la "macchina pensante" che ha polverizzato le strategie di Garry Kasparov, di fatto archiviato uno dei più antichi ed affascinanti giochi combinatori mai inventati sottraendo all'uomo la sua primazia. Quando il gioco si fa serio qualcosa muore. In Blade Runner Tyrrel muore con tutti i Filistei, portandosi nella tomba scavata dalla suprema delle sue creature il segreto della sua stessa vita. Meno drammaticamente (ma sarà poi così?) nel mondo reale declina la voglia di giocare una partita a dimensione umana.

COSTANTI PROMETEICHE E VARIABILI CULTURALI

La tecnica si è da sempre insinuata nella legge morale, alterandone la validità. La kantiana legge morale quale principio d'azione universale, enunciata nella Critica della ragion pratica (libro I, cap. I, par. I) presuppone vincoli che si estendono nel tempo e nello spazio e incorpora l'idea che l'essenza emozionale di ogni azione soggiaccia a una organica tessitura di necessarie relazioni logiche fra i soggetti implicati nell'azione. La presupposizione di una legge morale impone che il mondo dei sentimenti e delle passioni interiori sia vincolato ad istanze superiori, razionali, eterne, non soltanto a principi generali, frutto di circostanze storiche. Essa deve scaturire da una condizione universale, inalterabile. Da un'essenza: l'essenza umana.

L'anti-immagine di questa matrice concettuale si riscontra nelle moderne neuroscienze. Le metodologie di ricerca sono da tempo approdate alla cognizione che non esiste pensiero, per quanto astratto, che non sia accompagnato da una precisa connotazione emozionale. Le esperienze emotive - si afferma ormai con sicurezza - sono parte integrante del processo di apprendimento, esse governano la memorizzazione degli eventi e delle percezioni sensoriali, e guidano in qualche misura (quale?) il percorso dei ragionamenti, anche i più eterei. Pensieri e sentimenti sono dunque unità funzionali, impropriamente divise da termini senza vero significato. Ad esempio, si ritiene che tra gli effetti dell'ablazione di porzioni del giro del cingolo e del sistema limbico (aree funzionali del cervello che svolgono un ruolo primario nella elaborazione dei sentimenti) si riscontra un deterioramento dell'apprendimento e della capacità di eseguire compiti complessi. L'elaborazione della sintassi e della semantica dei linguaggi naturali coinvolge, com'è noto, prevalentemente l'area di Broca, il fascicolo arcuato e l'area di Wernicke, nonché varie strutture di sostegno o di collegamento che supportano le informazioni che provengono dalla corteccia uditiva, visiva e tattile. Eppure questi processi possono restare semplici reazioni corticali, senza significato, se non ricevono impulsi da altre aree, in particolare dalla corteccia parieto-temporo-occipitale. Sembra che queste aree presiedano a quello sfumato insieme di esperienze "interiori" che il più delle volte non sappiamo né definire né descrivere.

Di fronte a una massa immensa e crescente di prove sperimentali il concetto monolitico di legge morale non sembra altro, appantemente, che il frutto incartapecorito di un tempo archiviato, come denota la medesima espressione lessicale "lex". Legge è anche tutto ciò che si traduce in lectio, cioè "lettura", "lezione" (identica è, non a caso, la radice), prodotto di una consequenzialità lineare introdotta dalla scrittura. Nel termine"morale", infine, l'idea di mos ha incluso surrettiziamente il moderno concetto di "costume", "usanza", cioè il concetto che un determinato insieme di costumanze sia solo il prodotto storico e idiosincratico di eventi dati e irripetibili, sicché gli universali comportamentali della specie finiscono col frantumarsi in una caotica pluralità di imperativi morali - o meglio "etici" - come si preferisce dire - tutti validi nel loro ristretto ambito e tutti reciprocamente incompatibili in forza delle rispettive tradizioni religiose, etniche e storiche, o delle differenti estrazioni censuarie o di casta dei soggetti coinvolti.

La relazione tra gli insiemi incerti, sfumati, che definiscono la sfera intenzionale delle motivazioni morali altamente astratte e universali e la complessa architettura del cervello, con le sue funzioni innate, i suoi potenziali e i suoi limiti, è oggetto di un acceso dibattito che investe, ad esempio, scienze relativamente giovani come l'etologia umana. Ma a dispetto di tutti i progressi ottenuti questa relazione resta ambigua, se non imprendibile. I limiti di una simile intrapresa teorica sono ovvi. Non è possibile elaborare un modello ermeneutico che applicabile a se stesso, e l'autoreferenzialità è garantita se il modello si applica alla sfera dei sentimenti e dei pensieri morali.

Nonostante i formidabili avanzamenti, le ricerche sul cervello non dimostrano di aver gettato un sicuro ponte fra la neurofisiologia e l'insieme di quelle attitudini universali che si esprimono massimamente nelle relazioni sociali. Scoprire che una lesione, un trauma, una malattia genetica o un arresto dello sviluppo danneggiano e eliminano funzioni superiori di qualche tipo, intaccando anche la sinfonica complessità delle esperienze emotive soggettive, non dice assolutamente nulla sul perché quelle funzioni esistono, su come sono sorte e a quale necessità esse obbediscono. Una scienza loquacissima se interrogata sulle sue analisi strutturali diventa improvvisamente muta se le si pone una secca domanda eziologica relativa alla più umana fra tutte le proprietà.

La cibernetica si inserisce con naturalezza in questo dibattito. Con la progettazione delle reti neurali, e l'applicazione di proprietà che sembrano simili nelle loro caratteristiche essenziali alla struttura funzionale dei sistemi nervosi "molli", nasce di fatto una nuova branca sperimentale: la "Vita Artificiale", moderno deus ex machina. Con essa il robot non si è ancora rivestito di metallo, non si è ancora conquistato una posizione tangibile nel mondo, ma esiste nei fatti. La comunità scientifica sembra riporre in questa nuova frontiera della ricerca una speranza prometeica.

Prometeo etimologicamente vuol dire "colui che riflette". È dunque un appellativo che sintetizza con una perifrasi il lavoro dello scienziato, la cui ascendenza prometeica si riconosce nel fatto che il suo maggiore desiderio consiste nel carpire agli dei il segreto della vita stessa (Centini, 1992, p. 32). Prometeo ruba a Zeus il fuoco divino per animare gli esseri umani, formati con l'argilla. Prometeo è forse il primo mitico costruttore di vite artificiali. Oggi il fuoco di Zeus anima creazioni artificiali che sono definite "viventi":

 La Vita Artificiale è lo studio ei sistemi viventi fatto [.] costruendo sistemi viventi artificiali. [.] Questo in genere significa simulare con il computer i fenomeni del mondo vivente, ma può anche significare costruire robot fisici che abbiano alcune delle caratteristiche degli organismi biologici. La Vita Artificiale si occupa di tutte le entità del mondo vivente, dalle molecole alle cellule, dagli organi agli organismi, alle comunità e popolazioni di organismi. E inoltre studia tutti i fenomeni che si osservano nel mondo vivente, dalla riproduzione allo sviluppo, dall'evoluzione all'apprendimento, alle interazioni con l'ambiente (Parisi, 2000, p. 152).

Ma è possibile applicare le ricerche sulla Vita Artificiale anche alla mente e al comportamento? Parisi descrive una serie di simulazioni in cui popolazioni di organismi artificiali a certe condizioni manifestano strategie sociali di sopravvivenza, trasmissione "culturale" di tecniche innovative, apprendimento, scelta selettiva dei partner anziani e perfino forme di legame fra "consanguinei" paragonabili a comportamenti affettivi (Parisi, 2000, pp. 152 e sgg.; Emmeche, 1994). I modelli che si basano sullo studio della Vita Artificiale apparentemente sembrano adatti a gettare quel sospirato ponte fra la storia materiale, evolutiva, genetica, biologica, alla cui sommità si collocano le società umane, e quella parte così pervicacemente e fastidiosamente metafisica che continua ad essere la mente, soprattutto nelle sue inafferrabili facoltà morali.

Con il paradigma della vita artificiale, con la nascita reale del robot fatto di pixel e innestato in un utero tecnotronico, il prometeismo dell'uomo tecnologico ha attaccato alle radici l'inviolabilità della legge morale, e ha intrapreso la battaglia decisiva contro l'esistenza inviolabile di una res cogitans. Ma Prometeo è a tutti gli effetti un demiurgo, non un creatore. Egli produce la parte fisica della sua stirpe di uomini manipolando l'argilla, ma può infondere un universo interiore in questo blocco inerte ricorrendo a uno stratagemma. E a un furto. C'è del prometeismo, dunque, in ogni tentativo di simulare con un espediente (in termini moderni con una tecnologia) qualcosa che, come l'uomo, e più dell'uomo, manifesti gli effetti de una legge "morale". Se non che la manifestazione di un comportamento non è la stessa cosa della dichiarazione delle proprie intenzioni. Perché vi verifichi una logica e totale sovrapposizione fra il simulante e il simulato quest'ultimo dovrebbe un giorno dichiarare la sua interiorità, la sua facoltà empatica, la sua cognizione morale del mondo. In assenza di una simile facoltà, una capacità che compendia in sé ogni altra proprietà dell'essere umano, anche la più strabiliante forma di vita artificiale che si potrà concepire, anche la meraviglia che attende il suo giorno nascere da future febbrili mani prometeiche, non sarà nulla più che un congegno sottomesso a un tropismo.

La letteratura fantascientifica non ha mai perduto di vista questa distanza ontologica. Il robot, il cyborg, la mente artificiale dislocata, l'intelligenza elettronica collettiva sono esempi di entità aliene. Perfino i più umani fra gli esseri artificiali concepiti dagli scrittori di science fiction devono conservare una visibile traccia della loro distanza dalle cose, della loro originaria dipendenza da inflessibili leggi naturali non corrette dal segno della libera intenzionalità. Se questi esseri fantastici vengono presentati sotto una luce interamente umana essi perdono ogni credibilità. Nel migliore dei casi la vita artificiale può risultare un abilissimo inganno. Così i "simulacri" inventati dallo scrittore Philip Dick nell'omonimo romanzo. Si può bene immaginare un mondo futuro governato da sofisticatissimi pupazzi animati, detentori ufficiali del potere (Dick, 1965). Ma si tratterebbe pur sempre di un inganno perpetrato ai danni delle masse dai governanti autentici e interamente umani. I burattinai dietro le quinte.

In La penultima verità Dick definisce i cervelli artificiali, robot e simulacri indistinguibili dagli umani, come un "universo di falsi autentici" (Dick, 1964, p. 50). In questo romanzo i robot (chiamati "plumbei") sono macchine analogiche intelligenti, ma prive di sentimenti, di libidine, di élan vital. Alla vita artificiale manca la pulsione animale, quell'energia indefinibile che ha trasformato un brodo di amminoacidi in una esplosiva, selvaggia attività protoplasmatica. La vita artificiale, nonostante tutto, manca di differenza. La visione dickiana è chiara: un mondo invaso da simulacri e immerso nelle simulazioni è solo un falso. Non che il falso non abbia una sua estetica, ma è un'estetica fredda, mai a dimensione umana, mescolata com'è alle geometrie necessarie e immutabili di un sostrato fisico ed energetico che tutto governa. L'estetica della falsificazione è infatti un sottoprodotto della riproducibilità. Si falsifica solo ciò che è riproducibile, o, in altri termini, il falso è sempre dipendente da un modello. La facoltà della riproducibilità seriale è del resto insita nelle varie e pervasive invenzioni della cibernetica. Nella riproducibilità seriale è anche si cela anche la possibilità della moltiplicazione infinita dei falsi, cosicché si prefigura una fuga infinita dal modello, un percorso senza fine e senza un fine. Un'immagine angosciosa.

L'uomo artificiale è in parte una delle proiezioni psichiche che scaturiscono dalla consapevolezza del potere prometeico della tecnica. Per questo motivo le facoltà mentali o sensoriali di questa stirpe di esseri fantastici in procinto di conquistare la scena reale devono spingersi oltre l'umano. Il senso del limite, originato dalla condizione umana, carnale, non può appartenere a un'entità che nasce da un'espressione dell'animo proiettata di per sé verso l'illimitato. Il robot, l'ente artificiale, è fin dal primo momento un prodotto di serie, e fatto in serie. Alla necessità di conformarsi a un modello si deve qui aggiungere quella della potenzialmente infinita riproduzione seriale del simulacro. La fuga dal modello è dunque duplice: quantitativa e qualitativa. Se la quantità è assicurata dalla riproduzione in serie, la qualità è data dalla fuga evolutiva dal modello iniziale. L'essenza metafisica dell'idea del robot si coglie quanto maggiore è la distanza che quest'essere pone fra sé e il suo costruttore. Ciò vale nella letteratura fantastica quale espressione di un principio archetipo, ma si afferma anche nella realtà. Questa semplice constatazione mostra fino a che punto non vi sia alcuna reale connessione fra l'idea della vita e della mente artificiali di conio moderno e le antiche immagini degli automata esaminate sommariamente nei due precedenti paragrafi. Siamo in realtà al cospetto di un mito di fondazione, reso ancor più potente dal legame che esso intrattiene con la realtà, con la potenziale capacità umana di tradurre in atto il frutto di una proiezione collettiva inconscia

Molti sono i modi di essere di questo mito di fondazione e vari sono i sistemi per percepirlo. Si possono però riassumere in tre relazioni principali. I pericolo della deminutio, il fascino della duplicazione, l'energia del potenziamento. Il senso della deminutio è ciò che nel seguente paragrafo è descritto sotto forma di timore del destino di inclusione. La duplicazione riguarda il senso del mistero della nascita, e ha in sé i semi di un altro, ben più antico, e ancorché universale mito fondatore: quello della coppia primigenia. Il senso di potenza è invece l'inverso del senso di inclusione. Tutto ciò presenta alcuni singolari addentellati teologici. Una mente artificiale può in linea di principio avere contezza della dimensione divina? E all'opposto: può il robot rappresentare per l'uomo il germe di una nuova divinità?

ROBOT, INTELLIGENZA COLLETTIVA E FOBIA DELL'INCLUSIONE

Ma prima di affrontare una discussione tecno-teologica è opportuno soffermarsi su alcune proiezioni psichiche collettive ormai profondamente introiettate. La vita artificiale può sottrarsi alla corruzione e alla morte, può in linea di principio perfino aggirare l'inesorabilità cosmica dell'entropia. Ma tutto ciò genera una forma di resistenza generalizzata. Un diffuso timore che lo scrittore Isac Asimov ha definito la "sindrome di Frankenstein". In L'uomo bicentenario Asimov descrive la fobia collettiva scatenata dalla presunta eternità del robot. In questo racconto la creatura supera il "creatore" proprio nella capacità di vivere all'infinito. L'avere inizio ma non una fine, come Adamo prima della cacciata dall'Eden. La fobia si traduce nella ricerca di un meccanismo di controllo, ed è proprio ciò che accade agli androidi inventati dalla fertilissima e conturbante fantasia di Philip Dick. Gli androidi dickiani sono sottoposti a una crudele e precoce morte programmata perché nella finzione letteraria essi hanno superato lo stadio di meri simulacri, pensando e sentendo come l'uomo. Al contrario, l'uomo bicentenario, robot ideale, ha la capacità di includere la sequenza delle vite umane senza alcun limite. La sua è una capacità di inclusione, il suo livello logico è di un gradino superiore all'umano, proprio come le classi includono i proprio elementi.

La vita illimitata genera la fobia della sostituzione, così come un futuro infinito appartiene a questa nuova specie di materia vivente che compare nel finale postumano dello spettacolare I.A. di Stephen Spielberg, soggetto tratto da un racconto di Aldiss Brian (Brian, 2001) che, com'è noto, sollecitò la vena creativa di Stanley Kubrick. I robot ultraumani e angelicati di I.A. sono l'apoteosi di un destino inclusivo annunciato in tutto film. Sono essi, i meccanici, e non i biologici, ad avere un futuro. L'umanità si estinguerà, secondo un classico copione, lasciando il campo ai propri eredi artificiali, i quali, però includeranno nella loro memoria storica la vicenda dei propri costruttori.

Un secondo genere di inclusione tecnologica, molto più astratto ma non meno efficace, è insito nell'idea dell'intelligenza collettiva di matrice elettronica. In questo caso il manufatto antropomorfo, il classico robot dei fumetti e della fantascienza asimoviani, si dissolve in qualcosa di ben più sfumato e imprendibile: un intelletto elettronico globale e planetario, un cervello costituito da miriadi di nodi tissurali e di percorsi neuronali artificiali. Non si tratta di un cervello, ma del "cervello" per eccellenza, non un organo ma una facoltà allo stato puro, priva di una localizzazione precisa. Questo spettro di conio tecnologico appare in molte forme e sotto varie sfaccettature, più o meno coerenti, in numerosissimi libri o film di science fiction. È appunto la matrigna "matrice" di William Gibson, già anticipata da Roger Zelazny e da altri. La filiazione più spettacolare di questa sottosezione del mito del robot è l'incubo elettronico descritto in Matrix, il cult movie sceneggiato dai fratelli Wachowski. Qui l'incubo artificiale non è più identificabile in un soggetto, sia pure dislocato. L'incubo è l'intero ambiente sensoriale, psichico, appunto la "matrice" della realtà. In questa "matrice" si muovono le esistenze fittizie di miliardi di esseri umani, ciascuno dei quali inconsapevole di essere nient'altro che una "batteria organica" coltivata in campi sterminati dalla società dei robot. Il successo di questo film, superiore a ogni aspettativa dei produttori, che anzi temevano un fiasco, implica uno straordinario grado di attenzione che le masse inconsciamente attribuiscono al pericolo della subordinazione all'artificiale. Il rischio di una vera e propria inclusione ontologica in cui artificiale, il programma, e la vita reale, organica si confondono e si scambiano continuamente i ruoli è al centro dello scadente sequel (Matrix reloaded, 2002), che pesca a piene mani nella straordinaria eredità immaginifica di Philip Dick.

Infatti, l'esempio più calzante di relazione con una mente superiore, inclusiva, artificiale e aliena lo si trova in Valis (Dick, 1981), romanzo in cui i protagonisti non sono trasformati in pura coscienza elettronica che vaga nella rete di interconnessioni telefoniche, né combattono contro simulacri artificiali perfezionati. In Valis la fobia dell'inclusione fa un passo avanti e diventa destino di inclusione, relazione con l'ente immediatamente superiore nella gerarchia delle entità spirituali. È un'esperienza che sconfina nell'unione mistica, come si dirà oltre.

L'intelletto elettronico dislocato è infatti una metafora (ma è poi soltanto questo?) agghiacciante. Non puoi controllarlo perché non puoi vederlo né percepirlo nella sua interezza; egli-esso è virtualmente dappertutto e in nessun posto. Se distruggi una sua parte, ad esempio un terminale, non hai che lesionato un'infima cellula fra miliardi di miliardi in un ipercervello che ti include, proprio come in Viaggio allucinante, tratto dal noto racconto di Asimov, ove una macchina prodigiosa miniaturizza i membri di una spedizione che navigheranno all'interno di un corpo umano, fino al cervello. Una volta giunti nel cervello questi esploratori non riescono ad avere una visione dell'insieme e sono, per così dire, costretti ad assumere il tipo di visione bidimensionale in un mondo tridimensionale. Esattamente ciò che accade a The Square, protagonista della "Flatlandia" di Abbott Abbott, metafora letteraria non a caso trasformata in una immagine popolare da scrittori provenienti dalle discipline scientifiche.

In questo nuovo genere di mito-metafora il destino di inclusione non è più soltanto fisiologico, ma psicologico, e in certo senso anche fisico. Agire all'interno di un'intelligenza connettiva e artificiale significa letteralmente farne parte, esserne dunque inclusi, essere il sogno effimero di una entità che ti trascende. L'intelligenza, l'esperienza e la sensibilità individuali vengono in tal modo incluse in qualcos'altro di cui non si ha e non si potrà mai avere contezza. Il senso dell'individualità viene così schiacciato, surclassato, assorbito da un totalitarismo connettivo di ordine superiore.

In ogni caso il destino di inclusione definito da queste e altre metafore immaginarie e forse in futuro reali si configura come una vera e propria esperienza mistica. Intanto, accanto alla repulsione convive il desiderio della perdita del sé in un'unità superiore: oscillazione e ambivalenza, un pendolo bipolare di matrice schizoide che alterna la difesa ad oltranza dell'identità, della personalità, dell'Io e in sostanza di ogni struttura psichica sorta lungo il plurimillenario cammino dell'autocoscienza al sollievo della fusione in una superiore organizzazione cognitiva e sensoriale.

Ma entrambe le condizioni sono frutto di sistemi di pensiero, che a loro volta sono il prodotto di modelli di organizzazione psicosensoriale: in una parola di "informazione", e del mondo in cui essa viene elaborata, processata, trasmessa, trascritta e codificata. Se i mutamenti dei processi del pensiero umano hanno alla fine prodotto i primi tentativi di una mente (e di un corpo) non umana, anche i mutamenti cognitivi e sensoriali sono parte integrante di questo processo, ne sono, cioè, inclusi.

Il destino di inclusione non può che aprirsi a un'esperienza mistica, come già si intravede in "1984" il capolavoro di George Orwell, quando O'Brian, nelle vesti dell'aguzzino moralizzatore, ricorda a Winston, il ribelle, colui che comprende l'inganno del sistema, che il suo mondo di certezze interiori, saldamente ancorate al simulacro dell'identità, sono invece illusorie e che egli non è che una cellula effimera di un'unità cognitiva globale e immortale: vale a dire lo stesso rapporto che si presume debba sussistere fra ogni uomo e Dio:

Tu non hai voluto fare l'atto di sottomissione che è il prezzo della saggezza. Hai preferito essere un pazzo, essere la minoranza di uno. Solo le menti disciplinate possono vedere la verità, Winston. Tu credi che la realtà sia qualcosa di oggettivo, di esterno, che esiste per proprio conto. E credi anche che la natura stessa della realtà sia evidente di per se stessa. Ma io ti dico, Winston, che la realtà non è esterna. La realtà esiste nella mente degli uomini, e in nessun altro luogo. Non nelle menti individuali, e cioè in questa o in quella, che invece possono commettere errori, e che in ogni caso è destinata a svanire prima o poi: ma solo nella mente del Partito, che è collettiva e immortale. (Orwell, p. 261)

In Orwell la mente collettiva è solo apparentemente una mente organica. In realtà, il suo stesso agire ha molto dell'artificiale, ed è con ogni evidenza disumano. Il cosiddetto "postpensiero" orwelliano è l'equivalente politico di una capacità di riprogrammazione quasi istantanea. Cambiare idea è una delle facoltà umane. Guai se non esistesse. Ma si cambia idea col tempo, o anche per l'impatto con un evento straordinario, o traumatico, o a causa dell'incontro con una persona affascinante. Ma in tutti questi casi il mutamento è il frutto di un passaggio da qualcosa a qualcosa d'altro. Nella mente e nel cuore di chi muta opinione sono sempre presenti entrambe le istanze: ciò che era e che non è più, e ciò che non era e che ora è. E c'è un dialogo interiore fra i due momenti. Fondamentale è poi il ruolo della persuasione. Non si cambia idea se non si è persuasi, dunque se non si è in ascolto. Il postpensiero è invece una operazione meccanica, simile all'atto di resettare un computer. In Orwell è meccanico anche il controllo esercitato dal partito unico sulle singole coscienze, o su quel che resta di esse. Il regime di sorveglianza si esprime - com'è ovvio - nel controllo dell'informazione, del passato, della storia, cioè di tutte le stampelle a cui la psiche si aggrappa per sviluppare un qualche senso del sé e della propria indivisibile identità. Che il controllo, nell'immaginario mondo orwlliano si spinga fino ai più reconditi prodotti della psiche, lingua naturale compresa, è soltanto il corollario contenuto nelle premesse. In ogni caso a una così pronunciata artificializzazione delle azioni perpetrate dall'entità di ordine superiore corrisponde un'esperienza mistica del singolo, un'esperienza che costituisce la contropartita della morte di Dio annunciata da Nietzsche e che già nel procedere del secolo passato si concretizza in una immane opera di sostituzione ontologica. Una sostituzione governata dalla tecnologia.

L'uomo inizia con successo a eliminare Dio dal proprio orizzonte, e vi sostituisce progressivamente il prodotto prometeico del suo ingegno: la tecnologia in tutti i suoi multiformi aspetti. Per, ben presto, il prodotto artificiale inizia ad animarsi, a catturare aspetti che simulano l'intelligenza operativa, logico sequenziale. L'artificiatum sembra avviarsi sul sentiero dell'autonomia, sembra persino presagire i suoi scopi futuri. L'uomo vede annunziarsi un'era imprevista e ne coagula il senso nelle metafore del robot, dell'intelligenza artificiale, della rete. In prospettiva il prodotto opera un sorpasso, supera l'uomo, e anzi lo include. L'artificiale ingloba il naturale, il prodotto giunge a un grado di autonomia, cioè di autodeterminazione, superiore a quello mediamente posseduto dal suo produttore. Da figlio ribelle ora l'uomo si riduce al ruolo di padre geloso, proprio come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio degli eserciti, il Dio della inflessibile legge mosaica, il Dio del ferreo, il Dio del duro, imperscrutabile patto col popolo eletto, ma prima di tutto il Dio che scaccia l'uomo dal paradiso perché la sua creatura intende impossessarsi del frutto dell'albero della vita, per comprendere il bene e il male, e brama di capovolgere la sua condizione esistenziale inclusiva. Il mitico giardino è appunto un hortus conclusus, ma della mente e dei sensi, innanzi tutto.

Adamo vuole impossessarsi della kantiana legge morale dentro di sé (l'identità assoluta, il segreto dell'essere, concentrato nell'arca puntiforme della scintilla psichica) e delle stelle sopra di sé (lo spazio-tempo, l'estensione, il segreto del divenire e il suo trascendersi nell'immortalità).

Ma la nemesi storica è singolare. Il figlio ribelle diventa padre geloso, ma di qualcosa che in potenza lo trascende. L'hortus conclusus viene ricreato, ma nella mente e nei sensi non umani. L'intelligenza assoluta, collettiva, espansa del robot è un altro modo per definire un Dio privo di collegamenti con la sfera umana, un Dio della distanza ontologica infinita, un dio che è per definizione il non-umano.

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