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DIONISO ALLO SPECCHIO*

di Salvo  Bitonti

Forme di comunicazione della tragedia

greca antica e sua  influenza nel teatro

di ricerca e sperimentazione degli anni sessanta e settanta:

alcuni esempi rilevanti.

La tragedia greca insieme al teatro elisabettiano, rappresenta uno dei maggiori paradigmi culturali della civiltà teatrale Occidentale; essa ha costituito, nel corso del Novecento, un formidabile banco di prova, ogni qualvolta il fare teatro ha messo in crisi i modelli precedenti e si sono cercate nuove forme espressive della prassi teatrale; dalla recitazione, al rapporto attore-pubblico, ad una nuova concezione dello spazio scenografico, alla drammaturgia, la forma d'arte della tragedia greca arcaico-classica fiorita ad Atene nel V sec. ac. ha rappresentato una fonte inesauribile di suggestioni teatrali che hanno notevolmente influenzato la teoria e la pratica teatrale; in questa sede si tenterà di analizzare soprattutto come il teatro di ricerca e di sperimentazione dagli anni Sessanta in poi ha guardato al fenomeno tragedia greca per un ripensamento profondo del fatto teatrale e della sua funzione sociale e civile. Ad essa si sono rivolti sia storici gruppi collettivistici come il Living Theatre e il Performance group di R. Schechner all'epoca della loro massima affermazione, sia singoli registi, tra tradizione e avanguardia, come Luca Ronconi, Peter Stein e più recentemente Bob Wilson; essi, nella loro ricerca, pur diversa fra loro e prodotta da differenti contesti culturali e sociali, hanno inteso, confrontandosi con il teatro greco, attingere alle origini del concetto stesso di rappresentazione nella cultura Occidentale.Hanno cercato Dioniso e nella sua forza ambigua e trasgressiva, hanno individuato l'essenza del fare teatro,antico e moderno insieme.Considerando la modernità della sua antica forma di comunicazione e l'estrema attualità delle tematiche trattate, essi sono giunti spesso a interpretazioni originali che hanno rivoluzionato il nostro modo di leggere il teatro e nello stesso tempo  hanno aperto, non da studiosi di letteratura drammatica ma da uomini di teatro, nuovi orizzonti di comprensione a quel complesso fenomeno estetico, psicologico e sociale che fu la tragedia greca in epoca classica.  Ma prima di affrontare alcuni esempi rilevanti di interpretazioni della tragedia greca nel teatro contemporaneo, si è ritenuto opportuno soffermarsi su alcuni aspetti della comunicazione dello spettacolo antico sulla scorta di recenti studi di semiotica teatrale (cfr. M. De Marinis, 1982) che hanno studiato il testo spettacolare nelle sue condizioni di produzione e ricezione; una metodologia applicata anche al teatro greco antico, (come in B. Gentile, 1980), che hanno svelato la sorprendente attualità della comunicazione antica, mentre per l'esegesi della parola, si è guardato agli studi di J.P. Vernant (1972), che pongono in rilievo la dualità comunicazionale fra mito e opera letteraria e il suo correlarsi con le istituzioni religiose e politiche della polis greca. 

L'elemento che colpisce maggiormente, considerando la produzione della tragedia antica greca, che conosce il suo massimo splendore nell'Atene del v sec. ac., è il suo carattere  eminentemente orale. Questo aspetto è ereditato dalla tragedia direttamente dalla poesia corale. Nella Grecia classica infatti l'esecuzione di un testo poetico nasceva dall'incontro fra la parola, la musica e la danza; il segno verbale era strettamente unito a quello gestuale e musicale tanto che il termine mousikè o arte delle Muse finì per significare non soltanto l'arte dei suoni, ma anche della danza e della poesia. Tale dimensione orale rimase caratteristica costante  della cultura greca almeno fino al V secolo.  Si trattava allora di una cultura che trasmetteva il sapere nelle condizioni di oralità, visualità e auralità del messaggio (cfr. Gentili, 83:227). Infatti, gli antichi greci furono per lo più un popolo analfabeta, ma una civiltà può essere ugualmente progredita purché l'efficacia della comunicazione sia garantita da altri strumenti; ed infatti il teatro assumeva la funzione che è svolta in altre civiltà dal libro o dai moderni mezzi di comunicazione di massa: una funzione di conoscenza, di educazione, di riflessione critica, anche se non va perso di vista l'assunto religioso dell'esperienza teatrale in Grecia.

Il teatro fu concepito come performance, ovvero come esecuzione scenica da ascoltare, vedere, memorizzare. La civiltà greca classica fu una civiltà dello spettacolo che intese ogni azione culturale in una accezione pragmatica e di correlazione con la realtà sociale del tempo e con l'agire concreto del singolo nella collettività.

Occorrerà poi notare che pur costituendosi la tragedia come fenomeno orale, essa si impossessa sul finire del V secolo della scrittura, anzi essa poté affermarsi proprio quando l'uso della scrittura divenne preminente; in ciò può ravvisarsi una sorta di paradosso, ma è proprio il sistema notazionale della scrittura che ha permesso fino a noi la sopravvivenza del fenomeno tragedia.

Altro elemento poi attraverso il quale essa si strutturava e comunicava era il mito. Il racconto mitico è essenzialmente quel ampio repertorio di leggende divine ed eroiche che era la base di ogni altro mezzo di comunicazione culturale in Grecia, come l'epica e la poesia; ma si potrà notare che a differenza di questi generi, il mito nella tragedia era interpretato in una forma più libera, non essendo l'autore tragico legato alle richieste di un committente privato. Nel processo di risemantizzazione del mito antico il poeta tragico poteva apportare un numero infinito di varianti; basti pensare al mito di Edipo che nella risemantizzazione sofoclea acquista aspetti che non aveva posseduto prima. Omero sa che Edipo uccise suo padre e che sposò sua madre ma le conseguenze sono differenti dalla tragedia sofoclea. Nella descrizione di Odisseo negli inferi notiamo che Edipo pur avendo ucciso il padre regnò su Tebe; non è presente l'autoaccecamento né l'esilio volontario ma invece è presente il suicidio di Giocasta (Kirk, 74:169).

Vediamo, invece, che Giocasta nella Fenicee euripidee sopravvive alla scoperta dell'incesto. Nella comunicazione dell'intreccio queste varianti della storia mitica erano infatti gli elementi portatori di attesa e di suspense per il pubblico, che se da una parte era a conoscenza della storia mitica, dall'altra non poteva prevedere a quali cambiamenti e novità la "fabula" cioè il plot sarebbe giunto (cfr. Propp, 75).

Altro problema importante nel processo comunicativo della tragedia è il rapporto fra tempo mitico dell'azione e tempo presente della rappresentazione; non vi è dubbio che questo rapporto era ambiguo perché l'autore tragico nel selezionare nell'universo dei miti la storia che più lo interessava, stabiliva un parallelo fra il racconto e le istituzioni e le vicende antiche o attuali della polis, nel caso particolare di Atene. Si pensi alla descrizione della peste che sconvolge Tebe nel prologo dell'Edipo Re sofocleo. Rappresentata fra il 414 e il 411 a.c. vi si può leggere un riferimento alla terribile pestilenza che scoppiò ad Atene nel 430 a.c. Evento storico extra-teatrale ma in sincronia culturale con la rappresentazione dell'opera nel suo momento di produzione.

In questo contesto spettacolare, di correlazione con le vicende e i problemi della società, si situa poi il coro che è, da una parte portatore di valori etici della città, ma anche spettatore interno dell'azione; immagine speculare degli spettatori situati nella cavea, con potere di commento e quindi di parola, coinvolto intellettualmente ed emotivamente al pari dell'uditorio nella riproduzione attualizzante dell'evento mitico.

Nel contesto spettacolare della esecuzione della tragedia, rivestiva poi notevole importanza l'uso della parola. Anche se essa era soltanto uno dei codici che presiedevano alla produzione dello spettacolo antico, il suo valore per comprendere gli elementi del processo comunicativo è fondamentale. Edipo Re, considerata da Aristotele ne La Poetica l'esempio perfetto di opera tragica, utilizza ad esempio un numero considerevole di espressioni a "doppio senso" più di molte altre tragedie a noi pervenute, e questo uso ambiguo del codice linguistico può essere utile alla comprensione pragmatica del messaggio tragico.

L'utilizzazione dello statuto dell'ambiguità della parola era caratteristica della genesi della scrittura tragica; l'anfibologia era resa possibile dalla stessa incertezza della lingua che non aveva ancora trovato una forma salda di coerenza e significato ad ogni parola. Nella genesi drammaturgica, l'autore tragico si impossessa della polisemia della parola per descrivere un mondo in perenne contraddizione e lacerazione. I personaggi sulla scena si servono delle medesime parole, ma queste hanno per ciascuno di essi un valore diverso e i significati sono spesso opposti; infatti diverso era nella Grecia del v sec. il significato della parola secondo il campo linguistico che di volta in volta ne faceva uso: religioso, politico, giuridico. I personaggi sulla scena si ostinano a comprendere solo un senso delle parole che usano e non altri, ostinandosi in un universo di significati univoci.

Quanto Edipo dice senza volerlo, ad esempio rappresenta la sola verità delle sue parole, e spesso l'equivocità semantica lo porta a esprimere cosa diversa o addirittura il contrario di ciò che dice. Numerosi esempi si hanno nel corso della tragedia.

Nel prologo Edipo parlando della pestilenza loimos (febbre) che affligge la sua città, dice:

"E' certo, non per amici lontani, ma per me stesso allontanerò questa febbre". (vv.136,138)

Per se stesso infatti allontanerà il loimos, la pestilenza che coincide ironicamente, si vedrà poi, con la sua stessa persona; così dicendo non immagina di dire proprio il vero.

Anche la celebre invocazione di morte al culmine della catastrofe tragica non è esente da ambiguità:

"O luce! Possa io vederti per l'ultima volta!" (vv.II83)

Si noti che il termine greco phos ha due significati: luce della vita e luce del giorno; ed è evidentemente il senso che Edipo non intende dare alla parola che si realizzerà.

Lo spazio, in cui si realizza l'evento tragico, è dunque in questa distanza della parola antica con la realtà, parola che diventa polisemica, aperta a più significati. Gli spettatori, destinatari del messaggio, erano in posizione privilegiata perché dall'alto dei gradini potevano comprendere i diversi piani linguistici del tragico, seguire lo svolgersi dell'intreccio fino a possedere un senso ultimo, che appare modernamente conflittuale e contraddittorio, mai definitivo.

Tutto il teatro tragico fu nell'antica Grecia un'esperienza formativa irripetibile che il pubblico viveva non solo intellettualmente ma anche emozionalmente. Dal rito religioso, da cui deriva, la tragedia mutuò alcune esperienze fondamentali quali il pianto, il riso e un sentimento di timore simile alla paura. Lo stesso Aristotele individua nella paura la funzione specifica dell'arte tragica, codificando quello che la pratica teatrale andava sperimentando. Si narra, ad esempio, che l'ingresso del coro ne Le Eumenidi eschilee (che sono all'inizio della tragedia terribili gorgoni, erinni feroci venute a tormentare il matricida Oreste) colpì a tal punto l'uditorio che si ebbero casi di bambini che svennero e di donne che abortirono; l'episodio, narrato ne la Vita di Eschilo, è probabilmente spurio (cfr. D. Lanza 1983:116) ma assistere ad una rappresentazione tragica significava, secondo il dettato aristotelico, conquistare una purificazione rituale, catartica, anche attraverso un connubio fra dolore e piacere.

Auralità, performance, che poneva probabilmente in primo piano l'abilità corporea dell'attore, l'uso di un repertorio di artifici teatrali come  le maschere e le macchine sceniche, quasi da teatro-immagine contemporaneo, unito a un sapiente dosaggio di emozioni, veicolate anche dalla complessità della parola, religioso rapporto attori-spettatori, fanno del teatro greco, un unicum, il maggiore paradigma culturale che, come si è detto, è alla base della civiltà teatrale Occidentale; nel corso dei secoli si è guardato ad essa come un modello inimitabile e irraggiungibile ma a cui costantemente aspirare, ogni qualvolta sia nata la necessità di una rinascita dell'arte teatrale. In questa sede si vuole però sinteticamente ricordare alcuni esiti particolarmente originali a cui è pervenuta la ricerca teatrale dagli anni Sessanta in poi, nell'interpretazione della tragedia.

In anni ricchi di mutazioni storiche e sociali, che hanno visto l'elaborazione di una nuova idea di teatro, un teatro "della svolta", come è stato notato(P.Puppa,1990) registi e gruppi collettivistici si sono rivolti all'esperienza greca, in differenti paesi e differenti culture. Cercando Dioniso, la sua immagine, come in uno specchio, ci rimanda ad altre infinite immagini, un gioco di rifrazioni che si rincorrono fondendosi fra tempo passato e tempo presente.

Il teatro di ricerca contemporaneo ha privilegiato nel suo lavoro l'aspetto del vedere; ha posto in crisi il ruolo principe che la parola ha avuto nell'arte scenica nel corso dei secoli. In ciò si è efficacemente ricollegato all'origine stessa della forma teatrale, il termine teatron in greco sta a indicare soprattutto ciò che si guarda, ciò che è visibile: la radice tea derivata dal verbo teaomai indica l'atto del vedere e non tanto quindi l'aspetto del "parlato". Negli anni Sessanta si è assistito allo sviluppo di alcuni mezzi di comunicazione di massa, come il cinema e la televisione, che hanno imposto un modello virtuale e seriale della rappresentazione. Contro di essa ha reagito la sperimentazione teatrale, accorgendosi che il teatro di parola andava perdendo la sua forza, anche per il raffronto troppo schiacciante con la "visualità" cinematografica o televisiva, e ha cercato quindi un propria specificità sulla irripetibilità, presenza vivente e immediatezza dell'evento teatrale.

La parola si ridefiniva come uno dei tanti codici di comunicazione e non certo il più importante. Si avvantaggiava di ciò il gesto dell'attore, la sua corporeità, spesso inserita in un nuovo spazio teatrale non tradizionale. E' degli anni sessanta il lavoro di Jerzi Grotowsky e del Teatro Laboratorio di Opole in Polonia, che pone al centro della propria riflessione l'arte dell'attore. L'attore grotowskiano si trova a "interpretare" con la totalità delle sue membra, che divengono risuonatori di una musicalità più profonda fatta di gesti ruvidi quasi da danza, di fonemi strappati ai classici testi rappresentati. Parola che diventa canto mentre l'attore si fa "santo" cercando una "transilluminazione", una sorta di illuminazione religiosa che sveli ai pochi spettatori presenti, un trauma antico, l'archetipo simbolico di una civiltà. Così ne Il Principe Costante da Calderon(1965) è il martirio cristologico, il protagonista del substrato mitico della performance dell'attore mentre in Akropolis di Wyspiansky(1962) sono gli incubi moderni della coscienza collettiva, (i campi di sterminio con l'annientamento fisico e morale dell'uomo) a farsi protagonisti dello spettacolo.

Il Living theatre inizia in America nel secondo dopoguerra la sua storia di gruppo di ricerca con Julian  Beck e Judith Malina. Essi sentono la superficialità del teatro di Broadway ed ad esso si oppongono. Riscoprono il senso del lavoro collettivistico, di partecipazione creativa di un gruppo di uomini e donne a un progetto artistico senza la presenza di un regista-demiurgo. La loro ricerca parte dal lavoro di improvvisazione, unita a una riscoperta delle potenzialità del corpo dell'attore; corpo che esprime spesso il senso di sopraffazione della società e del potere sull'individuo e il tentativo di ridurlo a mero robot (si pensi a The Brig,(1963) spettacolo sulle regole repressive di un manuale per una prigione di marines). Malina e Beck sono i creatori di un teatro "estremo" che risente della lezione di Artaud; essi spingono se stessi e i loro attori, gli attori del "teatro vivente", verso una "zona di pericolo", un luogo dove disperatamente ma coscientemente si lanciano "segnali fra le fiamme" perché "lo scopo", dice Julian Beck," è di svegliare coloro che dormono".

L'ideologia anarchico-pacifista del Living in lotta contro ogni forma di potere sfocia, alla fine degli anni sessanta in uno spettacolo esemplare: Antigone.

La scena è nuda e l'area dell'azione comprende sia la scena che la sala, ma ognuna con significato diverso: la scena vuota del palcoscenico rappresenta Tebe e la platea Argo, gli attori sono ambiguamente "gli attori" ma anche Creonte o un popolano. Recitano in abiti quotidiani, mantenendo la loro personale identità. L'immedesimazione del personaggio è interrotta dalla lettura di brani dell'adattamento brechtiano.

Gli spettatori sono si spettatori, ma anche gli abitanti di Argo, i nemici di Antigone e della giustizia, essi sono posti quindi in una posizione simile al coro, con cui gli attori potevano venire drammaticamente in dissidio, ponendo in forma originale la comunicazione platea-palcoscenico. La parola ha valore scultoreo (e si ricordi l'ascetica figura di Julian Beck, Creonte, debole immagine dell'oscura potenza dello Stato); mentre Antigone, Judith Malina, trasporta il suo personaggio verso un'immagine archetipa, nella forza spirituale della sua scelta.

Lo spettacolo, con andamento episodico e ritmato dall'incessante raggrupparsi dei corpi, proponeva immagini del testo come commento ideologico come, per esempio, si costituisce lo Stato e che cosa esso significhi.

Ancora una volta gli attori del "teatro vivente" materializzano sulla scena gli incubi più oscuri degli spettatori, mentre nel finale dello spettacolo si fermano a fissare il pubblico in silenzio e indietreggiano con gesti di terrore, con smorfie di dolore, ma senza suono.

L' osservazione delle nuove tendenze di teatro sviluppate negli anni Sessanta trovano teorizzazione nell'americano Richard Schechner.

 Decisivo il suo contributo al nuovo teatro environmental anche con la pratica diretta del suo Performance group. Alcune importanti considerazioni contenute nel suo libro La cavità teatrale (1968) sono: il fatto teatrale è un insieme di fatti interagenti; tutto lo spazio è dedicato alla rappresentazione, tutto lo spazio è dedicato al pubblico; l'evento teatrale può aver luogo in uno spazio trasformato oppure come esso è; il testo non è necessariamente il punto di partenza di una rappresentazione e potrebbe non esserci; scardina così le classiche concezioni del rapporto spettatori-attori e platea-palcoscenico, in nome di un coinvolgimento dionisiaco (si pensi a Dionisus in '69, elaborato da le Baccanti euripidee). Ma è l'italiano Luca Ronconi che forse meglio elabora nuove concezioni dello spazio scenico, pur mantenendosi attento ai valori della parola teatrale. Egli, dopo aver recuperato il gioco delle macchine sceniche proposte in vorticosa simultaneità, come nel celebre Orlando Furioso(1968) approda, nella sua ricerca sulla comunicazione teatrale, alla tragedia e alla commedia greca.

In Orestea(1972), rimedita lo spazio scenico greco ideando una struttura di legno e ferro che ingloba anche gli spettatori in piccole celle; il piano d'azione è inclinabile, mediante l'uso di ascensori ed è prospiciente ad una grande porta, come una skenè greca.

La trilogia eschilea è rappresentata nella sua completezza durando l'esecuzione scenica sette ore circa. Elementi come sabbia e fuoco servono a chiarire il substrato mitico dell'azione tragica; mentre l'Orestea è posta in costante relazione con i rituali di caccia dell'antica Grecia e del sacrificio religioso laddove l'inizio mitico dell'Agamennone è il colpevole omicidio di Ifigenia. Da qui la presenza sulla scena di animali sezionati che evidenziano l'anfibologia della parola antica.

In Utopia(1975) che comprende cinque commedie aristofanesche, si ha una strada di quaranta metri, in mezzo a due tribune di pubblico; lo spettacolo è una lenta processione ingombra di oggetti; la parola è misteriosa ma il rito antico cercato sembra irrimediabilmente perduto. Ipotesi che Ronconi rafforza ne Le Baccanti(1978), rappresentate nell'istituto Magnolfi di Prato, detto da una sola attrice(Marisa Fabbri) che si identifica con il ricevente della tragedia stessa; mai interprete ma sacerdotessa di un'analisi strutturale della parola, in uno spazio mentale ma anche scenico rappresentato da un edificio seicentesco  in cui si svolge l'azione del testo di Euripide. In Germania, Peter Stein dedica alla tragedia greca Antikenproject(1974), intitolato semplicemente Esercizi per gli attori; ambientato in una grande sala ricoperta di terra, e partendo da esercizi sugli attori vicini al lavoro del Living, evidenzia  la nascita spontanea dei rituali della tragedia, il suo mistero, mentre un satiro all'esterno dello spazio scenico, danza fra bagliori di fuoco; ribadisce poi l'incomprensibilità della tragedia stessa ma anche la sua inevitabile necessità in Orestea(1980) presentato anche nel teatro romano di Ostia antica , con un grande schermo nero posto sul proscenio , un buco oscuro che tutto inghiotte e da cui non si ritorna. Anche l'americano Bob Wilson si accosta alla fine degli anni novanta, alle forme del tragico, lavorando sulla ricezione dello spettatore, sui tempi lunghissimi e sulla lentezza gestuale come in Persephone,  su testi di T.S.Eliot, in un originale rielaborazione di elementi del teatro orientale e occidentale.

Così ritorna Dioniso, che sembra aver sconfitto il tempo e guardandosi allo specchio, ambiguamente sorride della sua ambiguità.                                                          

* Relazione  presentata al  Main Symposium  del Cairo International Festival             For Experimental Theatre, dal titolo: The Phenomenon of Theatre Worldwide: Conflict or Contact? -Third Topic:The effect of western theatrical model on theatre in different cultures. Il Cairo, 14 Settembre 2002

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Le citazioni dell' Edipo Re sono tratte dalla traduzione di Salvatore Quasimodo, pubblicata nella   Collana Oscar Mondadori.

 

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