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L'ESTETICA IN CINA: VERSO IL PLURALISMO CRITICO

Pietro Giordan

Note introduttive

Mentre in Europa e dall'altra parte dell'Atlantico la critica viveva le rivoluzioni del New Criticism, dello strutturalismo e del post-strutturalismo, quali problematiche si poneva la critica letteraria in Cina? Ai fenomeni - relativamente più recenti ed in certa misura transestetici - del postmodernismo o degli studi postcoloniali quale lettura danno gli studiosi cinesi? A questa serie di quesiti è ovviamente impensabile poter formulare una risposta esaustiva nei limiti d'un saggio. Da una parte, ciò è dovuto alla complessità intellettuale dei vari modelli interpretativi di cui sopra. Dall'altra, occorre tenere conto del fatto che le esigenze d'un contesto storico-politico e culturale affatto diverso, come quello cinese, hanno definito (e tutt'ora definiscono) il ruolo della soggettività del critico in maniera idiosincratica. Infine, non si può non considerare la peculiarità etnico-politica della situazione della critica di « espressione » cinese : Cina continentale, Taiwan, Hong Kong, Cina d'oltremare (quest'ultima a sua volta inclusiva di esuli politici e studiosi di formazione occidentale). Quanto a problematiche, l'esperienza della critica cinese s'accomuna per certi versi a quella di diverse realtà del terzo mondo, ma rimane comunque da esse distante. D'altro canto, essa si trova ad essere in una posizione ancora più lontana rispetto al mondo della critica di matrice occidentale. Un altro caveat assolutamente necessario riguarda il pericolo di « orientalizzare » la critica cinese, relegandola ad un ruolo complementare o, peggio ancora, ancillare. Tale situazione si viene a creare non soltanto allorquando si ponga l'universo letterario cinese (classico o contemporaneo) in termini di radicale differenza, persa nel tempo a dispetto della sua sua ovvia presenza in un contesto vieppiù globalizzato; ma anche quando lo si consideri come leggibile e/o scomponibile esclusivamente attraverso la teoria occidentale, sia essa quella storicistica della mimesi, oppure il suo doppio antitetico in cui il Soggetto è ridotto ad oggetto, creazione del/nel discorso. Non si tratta però, sia ben chiaro, di declinare verso relativismi di comodo, coniugando ad un plurale irriducibile il discorso critico ed il sostrato culturale dal quale esso si sviluppa. Come acutamente osservato dallo studioso francese Jullien, né il culto della differenza radicale, né tantomeno quello d'un umanesimo totalizzante possono essere funzionali allo sforzo di comprensione della cultura cinese nelle sue varie espressioni. Si tratta invece di gettare uno sguardo ad una differenza che non è mai di sostanza, quanto piuttosto celata nelle pieghe del linguaggio e nelle modalità d'articolazione del pensiero.

Per quanto oggi cominci a farsi strada una tendenza che rivaluta l'originalità e la relativa indipendenza dei maggiori critici del periodo maoista,[1] di gran lunga più significativi, varî e problematici ci paiono gli sviluppi che hanno radicalmente mutato il campo di ricerca dell'estetica nel corso degli ultimi venticinque anni.[2] In questa sede, ci occuperemo quindi degli sviluppi più recenti della critica estetica cinese in Cina Popolare ed oltremare, cercando di mettere in rilievo gli aspetti salienti delle opere di alcuni fra i più importanti studiosi cinesi di estetica contemporanea.

L'estetica ritrovata

Negli anni Ottanta l'estetica diventa la disciplina regina delle scienze umane in Cina. L'interesse accademico per gli studi di estetica scaturisce primariamente dalla convinzione diffusa che questa offra al soggetto la possibilità di emanciparsi dai condizionamenti della politica e possa finalmente realizzare se stesso. Le ragioni soggiacenti alla rinascita di tale disciplina sono estremamente complesse. Se da una parte si può sostenere che ciò sia avvenuto come reazione alla politicizzazione della cultura e delle arti durante il periodo maoista, d'altro canto si potrebbe anche ipotizzare, come del resto fa Liu Kang, che il maoismo - trionfo dell'ideologia sul pragmatismo - sia stato caratterizzato dall'estetizzazione del politico. Appare quindi evidente che la differenza tra l'estetica maoista e quella degli anni Ottanta sta nel fatto che la seconda parte dal presupposto che il Soggetto (e non il partito) debba essere valorizzato attraverso la mediazione estetica. È chiaro altresì che la ridefinizione degli orizzonti e della funzione estetica scaturisce tanto dalla rivalutazione dell'esperienza storica contingente, quanto dal confrontarsi con testi esclusi o marginalizzati dal canone maoista. Dati i limiti dell'apertura post-maoista, e considerata la forma mentis stessa della maggior parte degli accademici cinesi negli anni Ottanta, la nuova estetica non può prescindere da una (ri)scoperta di testi marxiani e della filosofia tedesca classica.

Il Marx giovane e Kant divengono l'oggetto di una rivalutazione e di un dibattito d'incredibile intensità. I Manoscritti economici e filosofici del 1844 di Marx vengono tradotti ed apportano nuova linfa all'estetica marxista cinese, diversificandone le problematiche. La questione principale, ovviamente, è quella della posizione del Marx « umanista », della definizione di alienazione ed in ultima analisi della relazione tra struttura e sovrastruttura. Per quanto tale riscoperta di Marx sia ovviamente il frutto d'un contesto storico particolare, è indubbio che il ruolo più importante nell'orientare tale discussione sia stato svolto dal filosofo Liu Zaifu.[3]

Le traduzioni e gli studi su Kant rappresentano l'altra fonte di discussione e critica estetica. Negli anni Ottanta, gli studi di Li Zehou, probabilmente il massimo esperto cinese di Kant, divengono veri best-sellers, interessando anche lettori non appartenenti a circoli accademici.[4] Li Zehou è una figura molto interessante in quanto cerca di integrare nella sua critica Kant, Marx, modelli filosofici autoctoni tradizionali (confucianesimo) o meno. Li si confronta inoltre col marxismo occidentale, in particolar modo colla scuola di Francoforte, e con essa entra in vigorosa polemica.

I limiti delle svolte critiche di Liu Zaifu e Li Zehou sono stati acutamente stigmatizzati da studiosi quali Wang Jing (ingenuità nel tentativo di apoliticizzare e soggettivizzare l'estetica nel caso di Liu; ambigua e contraddittoria integrazione di confucianesimo e marxismo nel caso di Li). Tuttavia, ci sembra giusto sottolineare come la loro opera abbia costituito un viatico ed una giustificazione teorica all'introduzione di nuovi testi ed alla modernizzazione della critica cinese. Infatti, alla questione dell'alienazione in un contesto socialista seguì l'introduzione di vari filoni critici occidentali degli anni cinquanta e sessanta quali : l'esistenzialismo, gli studi di narratologia,[5] lo strutturalismo, la psicoanalisi, il new-criticism. Un'intera serie di ricerche e traduzioni di studi d'estetica vide la luce in quel periodo ottenendo grande successo. Oltre a riscoperte (i lavori di Benedetto Croce erano stati precedentemente introdotti in Cina da Zhu Guangqian), autori quali Santayana, Heidegger, Marcuse, Barthes e Jauss furono tradotti, presentati e criticati in un lasso di tempo molto breve. Testi che da un punto di vista occidentale non rientrano sticto sensu nel campo dell'estetica, vi furono comunque associati. Estetica divenne quindi un mot valise inglobante semiotica, filosofia del linguaggio e quant'altro. Negli anni Ottanta, estetica ed ermeneutica vengono quindi presentate come lo strumento salvifico per la rinascita della soggettività « negata » da decenni d'ideologia maoista.

Tale massiccia importazione del discorso critico occidentale fu a giusto titolo definita "xixue re" (la moda/febbre degli studi occidentali). Tale fenomeno è da leggersi quale conseguenza della politica riformista lanciata da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta. La svolta riformista di Deng non può prescindere dal reintegro degli intellettuali nella vita sociale dopo anni d'ostracismo maoista. In quel periodo, le dichiarazioni di rinnovata fiducia nel ruolo chiave della scienza e della cultura al fine di realizzare « le quattro modernizzazioni » (agricoltura, industria, difesa e scienza/tecnologia) sembrano aprire nuovi orizzonti anche al discorso critico ed estetico. Il confronto coll'occidente è considerato, come gia all'inizio del periodo repubblicano (1911-1949), quale conditio sine qua non per la valorizzazione delle risorse intellettuali nel quadro d'un progetto di rinascita nazionale. Lo slogan « andare verso il mondo » (zouxiang shijie) assume coloriture mantriche nei contesti più diversi, ma diviene normativo nell'ambito della rinascita delle scienze umane.

Alla fine degli anni Settanta, una questione diviene d'importanza centrale nei circoli accademici e, tramite questi, presso il partito. Tale questione è quella della ridefinizione del concetto marxiano di alienazione nel contesto dell'esperienza socialista; essa coincide colla riscoperta degli scritti del Marx « giovane » o « umanista ». Ciò che filosofi quali Li Zehou e Liu Zaifu teorizzano prende spunto da testi di dissidenti marxisti dell'Europa orientale e si sviluppa principalmente come una critica della Rivoluzione Culturale (1966-1976). Si può quindi facilmente immaginare l'ambivalenza del regime di fronte ad un tale evolversi del discorso filosofico ed estetico : il sostegno alla critica della Rivoluzione Culturale è comunque contraddistinto da mille cautele allorquando si tratta di ridefinire le gerarchie interne al canone del discorso ideologico.  Nel suo romanzo più noto, lo scrittore Zhang Xianliang, narra delle esperienze di un intellettuale in un campo di lavoro durante gli anni sessanta e settanta. In un dialogo immaginario tra il protagonista e lo spettro di Marx, si trova icasticamente rappresentato lo Zeitgeist filosofico degli anni Ottanta. Rivolgendosi al protagonista, lo spettro afferma :

Se ti chiamo « bimbo » è solo perché sono molto più anziano di te. Qui non si tratta si grandi maestri o guide. Io non mi sono mai dato titoli. Ma mica posso chiudere la bocca a quelli che son venuti dopo di me. Questo è uno dei miei crucci qui in paradiso (....) Quello che dovevo fare l'ho finito nel 1883. Ogni generazione deve portare a termine ciò che la storia le ha prefisso (p.403).[6]

Dal rifiuto di titoli, all'implicita possibile revisione del canone marxiano il passaggio non appare forzato. In retrospettiva, le campagne censorie lanciate dal P.C.C. a partire dagli anni Ottanta (in particolar modo, quella contro « l'inquinamento spirituale » (1983) e quella susseguente al massacro di Tian'anmen (1989) hanno sortito un effetto alquanto blando presso gli intellettuali, artisti e critici. Ciò è dovuto a taluni effetti (non si sa bene quanto previsti dal partito) della politica riformista; da una parte, s'è verificato il riconoscimento internazionale dell'arte cinese nelle sue varie espressioni. Dall'altra, il nuovo primato assegnato con sempre maggior enfasi all'economia ha profondamente disgregato l'egemonia ideologica, e quindi la legittimità  del P.C.C.. Ci pare interessante notare come la censura ufficiale si sia lanciata con eguale veemenza, ma con sempre minor forza persuasiva, tanto contro la letteratura della « scuola moderna » (xiandaipai), quanto contro quella d' « avanguardia » (qianfeng) e quella più marcatamente commerciale. In tutto ciò, come giustamente osservato da Wang Jing, la perdita di legittimità non riguarda soltanto il partito, ma anche gli intellettuali ed il loro ruolo di ministri (perigliosamente) al servizio del principe.

Tuttavia, i limiti di quest'impostazione o rinascita estetica apparvero vieppiù evidenti a mano a mano che il suo idolo polemico (la politicizzazione della cultura e della vita sociale) sbiadiva all'orizzonte, lasciando spazio ad una nuovo sfuggente, incomprensibile nemico : il dominio del mercato, della società di consumo e della cultura di massa. Questo fenomeno, già apparente alla fine degli anni Ottanta, divenne la caratteristica specifica degli anni Novanta. 

Gli anni Novanta

In un testo assai recente, Ye Xiushan osserva che mentre il discorso critico degli anni Ottanta in Cina Popolare è caratterizzato dalla passione per gli studi occidentali, gli anni Novanta, di contro, si possono definire come il momento del revival degli « studi nazionali » (guoxue re).[7] Parallelamente a questo fenomeno, si osserva un processo di professionalizzazione della critica accademica, al quale fa riscontro una massiccia produzione di critica fast-food nella stampa popolare. Per quanto quest'ultimo fenomeno sia senza dubbio interessante, nella misura in cui è l'espressione d'una massificazione della cultura nella nascente società di consumo, ci limiteremo qui ad un'analisi di alcuni degli sviluppi più significativi della critica accademica, cercando di sviscerarne alcune delle caratteristiche e delle tendenze più originali.

Nella sua analisi della critica letteraria cinese degli anni Novanta, la giovane ricercatrice Jia Guimei suggerisce l'utilizzazione di vari criteri per meglio comprendere le varie posizioni oggi dominanti in Cina nel contesto della critica estetica. Grosso modo, i criteri de lei adottati per definire i vari orizzonti critici e filoni di ricerca sono quelli generazionali e geografici.

Jia quindi rintraccia una critica « occidentalizzata », all'interno della quale si confrontano posizioni facenti riferimento al postmodernismo, ai cultural/gender studies, come pure al neoilluminismo. Tali voci critiche molto spesso appartengono ai critici più giovani (nati in generale negli anni cinquanta e sessanta), e situati generalmente vicino alle posizioni degli istituti accademici di Pechino. Un altro importante filone di ricerca è quello seguito dai cosiddetti tradizionalisti (critici della generazione di mezzo), i quali si pongono in una posizione fortemente critica rispetto alle teorie occidentali ed ai loro propugnatori cinesi, spesso accusati di superficialità nell'adottare metodi e filosofie che non si possono integrare al contesto cinese. Tali critici vengono spesso associati alla scuola del Sud (Shanghai/Nanchino). Un gruppo, probabilmente minoritario, ma certo molto importante ed interessante dal punto di vista della ricchezza del contributo intellettuale, è quello della critica sintetica o sincretista; ovverosia delle figure che si confrontano tanto colle teorie occidentali, colla tradizione estetica cinese e, in misura diversa, colla materialità storica della cultura cinese contemporanea.

Come sottolineato da Jia, tali suddivisioni sono mere generalizzazioni orientative, tendenze critiche qui riassunte al solo scopo di offrire al lettore non sinologo un quadro indicativo del contesto storico/politico e geografico all'interno del quale si muove la ricerca cinese. Bisogna inoltre integrare tale analisi del campo letterario colla constatazione che alcune delle voci più rilevanti dei vari gruppi o scuole si trovano oggi ad operare all'estero (per esempio, Liu Kang). Tali studiosi intrattengono un rapporto privilegiato colla Cina continentale ed interagiscono attivamente col mondo della teoria letteraria e della sinologia occidentale.

Alle luce del quadro politico, sociale e culturale di cui sopra, cercheremo quindi d'analizzare gli aspetti salienti delle riflessioni critiche di alcuni tra i maggiori studiosi  cinesi d'estetica operanti oggi in Cina ed all'estero.

Letteratura comparata e critica

Uno dei centri attualmente più all'avanguardia nello studio della teoria letteraria è  l'Istituto di ricerca di letteratura /cultura comparata dell'Università di Pechino (Beijing daxue bijiao wenxue yu bijiao wenhua yanjiusuo). Tra le personalità di maggior rilievo spiccano, oltre alla succitata Meng Hua, Yue Daiyun una studiosa con lunga esperienza di ricerca in Nordamerica. Tra i lavori più recenti pubblicati dall'istituto pechinese, merita una menzione particolare una raccolta di saggi in due volumi intitolata Ricerche multiculturali (Duobian wenhua yanjiu). I vari articoli ivi contenuti vertono sulle tematiche più diverse: storia della cultura, ermeneutica, teoria e pratica della traduzione. Ci sembra però particolarmente interessante quello di Che Jinshan : « Erronee intepretazioni idealizzanti della Cina da parte dei telquellisti ».[8] Se da una parte è ovvio l'interesse di Che Jinshan per il logocentrismo francese, tuttavia il suo saggio dimostra con ricchezza d'argomenti l'esistenza d'un marcato sostrato orientalista nel discorso dei critici di Tel Quel quali Philippe Sollers, Julia Kristeva e Roland Barthes, come pure di studiosi affini quali Lacan e Foucault. Nel suo saggio, Che Jinshan « decostruisce » la Cina « immaginata » dai collaboratori di Tel quel. Ad esempio, Che ha buon gioco a sottolineare come ciò che agli occhi di Roland Barthes appare l'espressione d'una calma interiore tipica dei cinesi, in realtà non sia altro che il sintomo silenzioso del clima di repressione ed isteria che pervase la Cina durante la Rivoluzione Culturale:

Nel suo saggio dal titolo Alors la Chine, Barthes registra una Cina quasi neutra : « (in Cina), in breve, non c'è isteria » Questa descrizione della Cina è elogiativa; chi conosce Barthes sa bene che la frase « qui non c'è isteria » è un grande elogio per le cose e le persone. Ma all'epoca la Cina era giusto in preda alla follia della Rivoluzione Culturale, il « Movimento contro Lin Biao e Confucio » si sviluppò infatti nella piena isteria; in altre parole, la situazione reale della Cina era l'esatto contrario di quanto descritto da Barthes (p.191).

Allo stesso modo, Che Jinshan passa impietosamente al setaccio le osservazioni Lacaniane sulla lingua cinese, secondo cui l'inconscio dei Cinesi, diversamente da quello degli occidentali, non si costituisce a partire dalla struttura del linguaggio, ma dai caratteri (ideogrammi) :

Di fatto, nell'inconscio collettivo dei francesi e degli occidentali, la Cina spesso rappresenta l'opposto dell'occidente, in Cina esisterebbe una sorta di « anticultura », « anti conoscenza » , « anti logica » (p. 194).

Non manca poi un riferimento ironico all'ingenuità di Foucault  il quale in Les mots et les choses appare convinto che in Cina siano davvero esistite raccolte enciclopediche quali quelle inventate da  Borges, nelle quali la logica classificatoria è completamente assurda : gli animali che appartengono all'imperatore; gli animali profumati... (pp.194-195). Ciò che colpisce Che Jinshan  è che Foucault non solo abbia potuto credere all'esistenza del testo inventato da Borges, ma che l'abbia persino considerato come un dato obbiettivo attraverso il quale analizzare e criticare la cultura occidentale :

Ma per noi cinesi la cosa più interessante, significativa e sorprendente non à data dalla classificazione, quanto piuttosto dal fatto che i francesi, ivi compresi molti studiosi famosi, continuino a chiedersi ancor oggi se nella storia cinese siano davvero esistite simile enciclopedie. È evidente che nell'inconscio collettivo degli Europei, la Cina rappresenta la differenza più estrema (p.195).

Le conclusioni sono abbastanza ovvie : la Cina dei telquellisti è di fatto un'invenzione orientalistica : « Il loro obbiettivo non è una conoscenza scientifica della Cina, ma è piuttosto quello di utilizzare la Cina come utensile, come arma, un veicolo per i loro sentimenti ed ideali, una scusa, una metafora » (p.197). Tuttavia, quasi a smussare il tono della sua critica, Che Jinshan conclude affermando che il dialogo interculturale è costellato di malintesi inevitabili quali quelli dei « telquellisti ». Tale nota conciliante non si spiega soltanto come un omaggio all'ecumene comparatistica.  A nostro avviso, si tratta piuttosto dell'implicito riconoscimento che il logocentrismo francese, al pari di altri discorsi occidentali introdotti negli anni Ottanta, giocò un ruolo simbolico importante ai fini della rottura collo storicismo di stampo maoista. Certo è vero che le teorie occidentali furono adottate, generalmente mal metabolizzate, ed infine abbandonate seguendo la moda del momento.  Tuttavia, esse rappresentarono per i critici cinesi un punto di riferimento simile a ciò che la cultura cinese rappresentò per i telquellisti : l'alterità radicale da contrapporre allo statu quo. La rinnovata attenzione alle problematiche di ermeneutica testuale appare infatti come lo strumento per attaccare e rovesciare il discorso dominante. Tale orientalisme à l'envers, appare ancora più evidente allorquando Che Jinshan afferma che l'errata interpretazione che Barthes offre della Cina è in fondo quasi unica nel contesto dell'opera del semiologo francese, il quale nel suo diario giapponese (L'empire des signes) avrebbe offerto un'analisi quanto mai obbiettiva del contesto culturale giapponese. Sarebbe facile osservare che, forse, Barthes e Che Jinshan condividono simili pregiudizi sul Giappone....   

Wu Xuan : terza critica

Come osservato da Jia Guimei, il mondo della critica cinese negli anni Novanta si può suddividere secondo criteri generazionali, geografici (la scuola Pechinese e quella di Shanghai), come pure in relazione alla posizione assunta nei confronti della teoria occidentale e della fedeltà a modelli critici autoctoni (i postmoderni/neoilluministi ed i conservatori/tradizionalisti). È chiaro però, come del resto suggerito dall'autrice stessa, che le varie categorie utilizzate si intersecano e danno vita così a possibili nuove situazioni o casistiche. Non è detto infatti che un critico della nuova generazione e di Pechino debba per forza di cose schierarsi sul fronte degli occidentalizzanti; allo stesso modo, un critico della generazione di mezzo può essere incline ad adottare le nuove metodologie critiche, come pure a ripiegarsi nello storicismo, nella dottrina del tipico ecc. Sta di fatto che, in Cina, le posizioni più interessanti nello studio della critica estetica sono quelle che cercano di stabilire un momento di dialogo tra opposti paradigmi, come pure un momento di rottura rispetto ai discorsi intorno ai quali si sviluppa la discussione, sia essa accademica o situata in un orizzonte meno specialistico. Tale approccio sincretistico si ritrova già nella nozione di yuanxing piping (critica circolare) formulata da Wang Xianpei, uno studioso dell'università Huadong. Secondo Jia Guimei, Wang Xianpei considera la possibilità d'integrare il discorso critico autoctono, fondamentalmente impressionistico, coi fattori (yinsu) razionali delle teorie occidentali, così da costruire un'estetica al tempo stesso, dialettica (bianzheng), intuitiva e razionale. Per quanto Wang non elabori una dicotomia netta tra razionalità occidentale ed intuitività cinese, e si riferisca più prudentemente a « fattori », l'opposizione tra Cina ed Occidente appare marcata da un certo auto-orientalismo.  Tra gli esponenti più originali di queste visioni estetiche alternative s'annovera senza dubbio Wu Xuan. Nato a Nanchino, Wu è un giovane studioso d'estetica che ha al suo attivo un numero consistente di pubblicazioni  tra le quali spiccano Estetica negativista (Foudingzhuyi meixue) e Negazione ed esitazione (Fouding yu paihuai). In un articolo del 1997 dal titolo « Metodo per la svolta della conoscenza » (Zhishi zhuanbian de fangfa ), Wu suggerisce l'idea della « terza critica » (di san zhong piping) la quale consisterebbe nel valorizzare gli aspetti positivi delle teorie critiche/estetiche occidentali e cinesi, adattarle ai limiti attuali del discorso della critica in Cina, così da elaborare nuove problematiche e metodologie attraverso le quali  circoscrivere e superare detti limiti. Nella sua opera più recente Critica di letteratura cinese contemporanea (Zhonguo dangdai wenxue pipan), Wu riprende alcuni dei temi che più gli stanno a cuore ed elabora ulteriormente il suo discorso estetico, applicandolo ad alcuni dei maggiori testi di letteratura cinese contemporanea (tra i quali quelli di Mo Yan e Jia Pingwa).

La terminologia adottata da Wu Xuan suggerisce una certa familiarità colla filosofia tedesca classica (Kant), come pure colla scuola di Francoforte (Adorno). Ma sembra che la sua riflessione estetica presenti maggiori affinità colla fenomenologia di Gadamer e colla nozione di sovrapposizione d'orizzonti, piuttosto che con il neo-marxismo. Inoltre, quando parla della responsabilità del critico rispetto allo scrittore ed al testo, il discorso di Wu Xuan può essere compreso soltanto alla luce della critica letteraria cinese classica.

Wu Xuan afferma che un aspetto fondamentale del suo approccio estetico è dato dall'unione di critica e creazione. Per questa ragione, egli concepisce la relazione tra estetica e negazione in maniera diversa da quella che si definisce nella negazione dialettica, nella negazione totale, nel nichilismo e nello strutturalismo (p. 2). A questo proposito, parlando dell'arte come negazione del reale, Wu afferma che diversamente da Adorno ove la negazione ontologica assume connotati antirazionali, nella sua accezione essa non si può porre in questi termini (in questo sembra riprendere la critica di Li Zehou contro la scuola di Francoforte). Dato che per Wu l'oggetto artistico di riferimento più cospicuo e fondamentale è la letteratura cinese, in particolar modo quella del ventesimo secolo, le problematiche da lui elaborate non prescindono da tale contesto culturale. Seguendo un orientamento polemico comune a molti critici negli anni Novanta (ad esempio Wang Xiaoming), Wu afferma che la letteratura cinese del ventesimo secolo non è ricca di testi che possano dirsi classici. I suoi difetti più rilevanti si possono stigmatizzare con tre aggettivi: stereotipata, astratta, iperpoliticizzata (p.10). Cercando di generalizzare al di là dell'orizzonte letterario cinese, Wu distingue due tipi di opera letteraria/opera d'arte, a dire : le opere che producono gioia (yuyuexing), e quelle nelle quali vi è dell'ispirazione (qidixing). Le prime avrebbero come principio base il piacere (kuaigan); le seconde la sensazione del bello (meigan). Secondo Wu, la maggior parte delle opere artistiche cinesi appartengono al primo tipo. Le prime, tramite personalità (gexing) e stile (fengge) offrono agio, piacere, tepore e stimolo, ma difettano di pregnanza concettuale, nonché della capacità di ispirare e di scuotere (scioccare).  Esse non hanno un posto nella storia dell'arte, per quanto ciò non infici il perdurare della loro fama o trasmissibilità (è il caso questo, per esempio, de Il fiore di prugno in un vaso d'oro - Jinpingmei - il romanzo erotico per eccellenza della letteratura cinese classica).

Le opere d'arte del secondo tipo (certi racconti di Lu Xun, generalmente considerato come il più grande scrittore e critico sociale cinese del ventesimo secolo;  il classico Sogno della camera rossa - Hongloumeng) hanno un posto nella storia dell'arte, perché esse hanno creato (chuangzao) un mondo, non limitandosi a mostrarlo o rivelarlo (jieshi). Tale differenza è considerata da Wu alla stregua di quella tra sentire estetico/sentimento del bello (meigan) e piacere (kuaigan). Wu poi afferma che la stessa distinzione si può applicare alla letteratura cinese contemporanea, aggiungendo che deve esistere inoltre una differenza di trattamento critico : le opere miranti al piacere (ivi comprese le serie televisive) non abbisognano di valutazione critica particolare, in quanto il loro valore è già definito indipendentemente dalla loro bellezza. Lavori apparentemente più ambiziosi non meritano comunque attenzione particolare, qualora non renadano palese lo sforzo di divenire esistenza (è il caso di Capitale in Rovina - Feidu, la novella più nota di Jia Pingwa, uno dei maggiori scrittori cinesi contemporanei).

Wu non offre definizioni della nozione di bello, né analizza in maniera sistematica le modalità generative dell'oggetto estetico. Tuttavia, il suo discorso offre spunti di riflessione assai interessanti. Egli afferma che l'estetica contemporanea, tanto in Cina quanto in Occidente è arrivata alla conclusione che non si può dare definizione del proprio oggetto : « Il bello è inesprimibile » (mei bu ke shuo). Quindi, egli sostiene che il valore intrinseco all'arte si può soltanto esperire, ma difficilmente verbalizzare con chiarezza. A questo riguardo, occorre sottolineare come la formulazione della frase presenti una certa affinità coll'estetica taoista dove la nozione di bello coincide coll'idea di natura (daziran), intesa non solo come universo naturale, ma soprattutto come tendenza spontanea insita a tutti gli esseri (« le diecimila cose »), e con quella di tao (dao) (principio generatore dell'essere « you » come del non-essere « wu »). Si consideri l'incipit del Classico della via e della virtù (Daodejing), uno dei testi principali del taoismo :

Il Dao verbalizzabile non è il Dao costante

Il nome nominabile non è il nome costante

Wu sembra quindi voler suggerire che esiste una certa somiglianza tra l'estetica taoista e talune posizioni contemporanee della critica occidentale. Ma volendo andare oltre tali affinità, egli afferma che il discorso, l'essenza e la funzione della critica, nonché la sua sola raison d'être si possono estrinsecare soltanto attraverso un modello « negativo » finalizzato ad esaminare i limiti di un'opera rispetto al progetto estetico che le è proprio. La critica deve essere negativa perché altrimenti diviene un discorso tautologico, da cui l'artista nulla può apprendere. La funzione della critica negativa è inoltre d'importanza sociale, in quanto « una critica può rendersi manifesta e realizzare il proprio valore soltanto quando neghi altre voci critiche » (p.382). Tale discorso introduce indirettamente la tematica del pluralismo e della democrazia, questioni che tuttavia Wu Xuan non sviluppa in maniera sistematica.

Parlando della massiccia introduzione del sapere teorico occidentale, Wu osserva che molte metodologie critiche « d'importazione » hanno come scopo precipuo quello di scoprire ed interpretare i canali comunicativi e lo spazio dell'opera. Ma a suo dire, ciò non sarebbe di alcuna utilità per la comprensione del problema relativo al livello di realizzazione delle potenzialità di un'opera d'arte (shixian zishen), questione che maggiormente gli sta a cuore.[9] Il suo scetticismo rispetto alle metodologie di critica estetica basate sull'analisi delle forme della comunicazione letteraria non è dato tanto dal fatto che egli privilegi un approccio intuizionista o impressionista all'opera d'arte ; piuttosto, egli non le considera rilevanti rispetto al contesto culturale cinese. A suo avviso, tali metodologie nascono in un determinato ambito culturale, filosofico, storico e politico (quello occidentale) ; quando vengono applicate al di fuori di tale contesto culturale, o luogo comunicativo, perdono di significato.[10]

Wu asserisce che il il primo passo da compiere nell'interpretazione d'un testo è quello di accertarsi se questo sia caratterizzato o meno da ciò che egli definisce « Negazione a due livelli » (shuangchong fouding): il superamento della politica  (l'ideologia dominante); ed il superamento della cultura (che si verifica attraverso un rapporto creativo tra lo scrittore ed un testo appartenente alla tradizione cinese oppure alla letteratura occidentale). Wu applica tale doppia negazione quale parametro di valutazione estetica della letteratura post-maoista. Pur concedendo che questa si sia progressivamente liberata dalla presa dell'ideologia dominante, Wu stigmatizza come essa si trovi ancora sotto il parziale condizionamento della cultura (Marquez per Mo Yan - l'autore del best Seller - Sorgo Rosso - Honggaoliang; il taoismo ed il buddhismo per Jia Pingwa). Ancora una volta, Lu Xun è citato come esempio di riuscita doppia negazione, in particolar modo nella sua opera di prosa poetica Erba selvaggia (Yecao). Wu concepisce quindi una critica avente una funzione che non è di natura politica e culturale (stravolgere l'ordine dell'esistente), ma che piuttosto è finalizzata ad attraversare e superare cultura presente e politica, materializzando politica e contenuto culturale, così come gli sembra sia il caso nell'opera di Milan Kundera (p.9). La nozione di superamento, come quella di negazione, fanno ovviamente pensare al concetto hegeliano di Aufhebung. Tuttavia, Wu afferma che mentre il filoso tedesco concepisce la negazione al pari dell'affermazione, e cioè come un momento della manifestazione dello spirito assoluto, egli la considera invece come avente autonomia ontologica. Inoltre, nel caso di Wu, la nozione di superamento è collegata a quella di trasformazione da una percezione personale (geren) della realtà suscettibile di riprodurre varie forme di episteme religiosa, politica, sociale e culturale, ad una visione del mondo individuale (geti) che sia finalmente estetica in quanto realizza le proprie potenzialità, divenendo più ricca, complessa, aperta e quindi variamente interpretabile.[11]

Wu s'interroga sugli obbiettivi dell'estetica negativa ed afferma che questa non si pone come scopo la perfezione (wanmei), quanto piuttosto la completezza (wanzheng) (p.32). Ciò non è dovuto al fatto che la perfezione sia irraggiungibile, quanto piuttosto alla constatazione che la ricerca della perfezione ha come conseguenza la rovina della gioia dell'esistenza - o piacere di esistere. Qualora ci si ponga tale finalità, Wu avverte il rischio concreto che si rinunci alla gioia e alla « non bellezza » (ciò che ci sembra di capire significhi o alluda ad una sana imperfezione). Servendosi poi d'un lessico quasi nietzscheano, Wu afferma che tale situazione danneggia la « salute » umana (la quale abbisogna d'ibridità). Il critico cinese giunge quindi alla conclusione che l'estetica negativa mira alla realizzazione dell'esistenza e della comprensione originale/unica (dute de liaojie) propria ad ogni opera (ciò, si badi bene, non significa la comprensione dell'opera da parte del lettore, quanto piuttosto da parte dello scrittore stesso rispetto alle potenzialità o premesse della sua opera).

Per questo motivo, Wu sostiene che un testo (wenben) possiede la possibilità intrinseca di completare se stesso; tuttavia, per una serie di fattori può soltanto assumere la sua forma attuale (xianzai de zhuangtai) (p.33). Nell'estetica negativa, il critico deve concepire testo e scrittore quale testo incompleto in attesa di realizzazione. Ma per giungere a questo scopo, è necessario capire quale sia lo specifico della ricerca di uno scrittore. La critica estetica deve perciò prendere come oggetto il testo « felice », cioè un testo che non sia stato fatto oggetto di mediazione critica, e che non abbia ancora trovato se stesso, realizzato le proprie potenzialità. Ciò che allo scrittore appare come la possibilità di passare dal testo attuale al testo estetico, rappresenta per il critico il modo in cui realizzare la propria esistenza.

Traendo spunto dalla critica su Zhang Chengzhi (uno scrittore cinese contemporaneo d'una certa fama, apertamente schierato contro la commercializzazione della cultura), Wu afferma che arrivare a definire una posizione ed un pensiero diverso dalla massa non è garanzia di riuscire a produrre un testo estetico (p.34). Per far ciò bisogna invece creare un pensiero ed una posizione eterogenei rispetto a quelli della massa (come Borges); oppure scegliere un pensiero sul quale formulare una propria comprensione (come Kundera); oppure ancora, rifiutare qualsiasi pensiero precostituito e lasciare le proprie riflessioni in uno stato embrionale. Il limite di Zhang Chengzhi e di tanta parte della letteratura cinese contemporanea sarebbe quello di non sapere trasformare il proprio rifiuto della realtà in una personale comprensione della realtà, di non capire fino in fondo se stessi. La critica estetica deve aiutare lo scrittore in questo sforzo di comprensione e di costruzione. L'estetica negativa come pure la critica d'arte hanno tale scopo; la sola differenza sta nel fatto che la critica d'arte pone maggiore enfasi sulle modalità di trasformazione della comprensione estetica in immagine (xingxiang), forma (xingshi) e linguaggio, mentre la critica estetica ha per obbiettivo la sollecitazione dello stimolo estetico nello scrittore.

Wu sostiene che il concetto di bello, come del resto la percezione della realtà, varia necessariamente da scrittore a scrittore. Per il critico cinese, il problema sta nel fatto che molti scrittori, nel processo di trasformazione della percezione in comprensione della realtà, sviliscono (propriamente, « mettono fine a ») la natura individuale della percezione. Alla base di tale comportamento si troverebbe una sorta di atavismo filosofico che si riconduce alla coppia oppositiva « dao » e « qi », dove il primo termine si può definire come comune, accomunante, universale, essenziale, mentre il secondo si può ricondurre a ciò che è fondamentalmente individuale ed accessorio. Wu osserva come la cultura cinese abbia storicamente privilegiato il primo termine a discapito del secondo (ciò, secondo noi, contribuirebbe a spiegare la facilità colla quale la dottrina del tipico d'ispirazione sovietica ha potuto far presa in Cina).   L'aspetto che nella fase di percezione del reale è propriamente individuale si aliena nella fase successiva, decisiva per il risultato estetico - il momento di realizzazione delle potenzialità insite all'opera in fieri. Tale alienazione (o disindividualizzazione) ha come risultato la costituzione d'una nozione di bello depersonalizzato, di tipo esplicativo e rappresentativo. Ad una tale costante negativa della letteratura cinese moderna e contemporanea, Wu Xuan contrappone un suo personale progetto estetico ch'egli riassume come segue :

Ciò che voglio dire a proposito della letteratura è che in ogni scrittore esiste la possibilità d'innalzare la propria personale percezione del reale e farla divenire la propria  comprensione del mondo. Il problema è di metodo : molti dei nostri scrittori non sanno veramente come realizzarsi, e non sanno come scrivere opere che li lascino per sempre senza rimpianti e sereni (p.39).

Parlando poi della soggettività dello scrittore, Wu Xuan afferma che questi deve concepire l'io come un pensiero, non come una scelta estetica preconcetta. Il limite di gran parte della letteratura cinese del ventesimo secolo è giustamente questo : presi nel dilemma di tradizione e modernità, Cina ed Occidente, i letterati cinesi hanno optato per una modernità programmatica, ovverosia per una scrittura ed un'arte programmaticamente moderne, rinunciando così a costruire un oggetto estetico potenzialmente più ricco e complesso. Wu asserisce poi che la soluzione « eccezionale » a tale dilemma si trova probabilmente nelle parole di Lu Xun il quale cerca nel vuoto e nel silenzio la resistenza alla disperazione ed ai problemi della coscienza nazionale (guominxing), senza però definire esattamente cosa sia tale coscienza, venendo a capo ipso facto della dicotomia Cina/Occidente (p.42).

Tra Gadamer e Zhuangzi : Zhang Longxi

Tra gli studiosi cinesi d'estetica, un posto rilevante spetta senza dubbio a Zhang Longxi. Proveniente dalla Cina Popolare, questo studioso insegna da anni negli Stati Uniti e pubblica tanto in cinese che in inglese. Zhang sviluppa il suo originale discorso estetico sulla base del pensiero taoista e della fenomenologia occidentale (Heidegger, Gadamer, Derrida). A suo agio nelle maggiori lingue europee, egli estende i limiti della comparabilità tra universi estetici estremamente difformi. Ecco ad esempio quanto suggerisce riguardo alla metafisica della scrittura:

La presenza tanto in Cina come in Occidente d'una gerarchia metafisica sostanzialmente simile, nonché d'una simile preoccupazione per il fatto che l'espressione della realtà interiore provochi la perdita della stessa, ci fornisce già un fertile terreno di comparazione che potrebbe aiutarci ad espandere i nostri orizzonti e comprendere la natura del linguaggio al di là di arbitrarie distinzioni fonocentriche. Tuttavia, la scrittura cinese, in quanto non-fonetica, differisce realmente dalla scrittura fonetica occidentale in misura sufficientemente rilevante da rovesciare la gerarchia metafisica più facilmente ed efficacemente di quanto non faccia la scrittura fonetica occidentale; e c'è davvero qualcosa nella scrittura cinese che attrae la grammatologia derridiana.[12]

Zhang fa riferimento al mito di fondazione della scrittura cinese: il ministro Cang Jie, inventa la scrittura osservando e prendendo spunto dalle tracce che uccelli ed altri animali lasciano sul terreno, come pure da altri fenomeni naturali. L'ovvia conclusione è che: « La scrittura cinese non è mai concepita come una mera registrazione del discorso orale, ma come avente origine indipendente da esso » (p.32).[13] Tuttavia, Zhang suggerisce in modo esplicito i limiti di tale assonanza sino-occidentale:

Di fatto, la scrittura cinese, in quanto creata a partire dall'osservazione di modelli di tracce, tende a proiettare nella scrittura tale natura o qualità della traccia meglio di quanto non faccia la scrittura fonetica, e perciò mette in luce come la lingua sia un sistema di termini differenziali. Nella Cina antica, coll'abitudine d'intitolare un libro col nome dell'autore, nonché colla pratica acquisita tra gli antichi scrittori di citare  testi precedenti, non si pone l'accento tanto sull'autore quale origine della scrittura; piuttosto, si rendono identificabili gli autori in primo luogo nella loro scrittura, e si trasformano quindi gli scritti di filosofi quali Laozi e Zhuangzi in grandi fonti testuali, origine d'autorità, testi di riferimento ultimi per l'intertestualità della scrittura cinese. È certo vero che quasi ogni antico testo cinese è un intertesto. Ma si tratta d'un intertesto sostanzialmente diverso da come lo si definisce nella critica decostruzionistica. Mentre un intertesto decostruzionista è una traccia senza origine, un intertesto cinese è sempre una traccia che riconduce all'origine, alla fonte della tradizione, ai grandi pensatori del taoismo e del confucianesimo (p. 33).[14]

Zhang conclude quindi che la commistione testo-autore è un elemento costitutivo della tradizione letteraria-filosofica cinese che egli sintetizza nel termine Tao. 

Un altro aspetto interessante della comparazione estetica di Zhang è quello inerente alla definizione di ambiguità testuale: significato asintotico/assente; assenza significante. In questo caso, l'idolo polemico della sua critica è rappresentato da Paul De Man e dal decostruzionismo derridiano, mentre il possibile punto di contatto tra l'estetica cinese e quella occidentale porta al Gadamer di Verità e Metodo. L'argomento viene esplicitato in un capitolo dal titolo « Finalità del silenzio » (The Use of Silence). Cerchiamo dunque di sintetizzarne gli aspetti maggiormente rilevanti. 

Zhang prende in considerazione l'analisi che De Man fa della poesia di R.M. Rielke e critica l'enfasi che il critico belga pone sulla priorità del carattere sonoro/musicale a discapito della componente semantica o significante. A questo scopo, Zhang rileva come nella lingua cinese il nesso tra fonetica e significante (la variazione tonale) precluda la validità  della posizione di De Man. Riferendosi poi alle diverse interpretazioni che Derrida e Gadamer offrono de « L'après-midi d'un faune » di Mallarmé, il critico cinese propende per la posizione gadameriana secondo la quale una rappresentazione simbolica non è da intendersi come il sostituto dell'Essere, quanto piuttosto come un eccesso o un'estensione dell'essere, dato che l'arte, per quanto non possa essere intesa come la portatrice della verità, non è comunque sprovvista di significato. Anzi, essa significa l'eccesso di significato. Zhang afferma che per Mallarmé il silenzio non segnala la negazione del linguaggio e ciò gli sembra presentare notevoli punti di contatto con certe posizioni della critica letteraria cinese classica. A questo proposito, egli cita il critico Lu Ji (261-303), per il quale la questione estetica più rilevante è data dalla preoccupazione che il significato non sappia associarsi alla cosa cui si riferisce, e che la scrittura sia incapace di veicolarlo. Ciò non sarebbe dovuto tanto alle difficoltà del conoscere, quanto piuttosto ai limiti delle proprie capacità interpretative. Zhang sostiene poi che tale struttura mentale caratterizza gran parte della critica letteraria ed estetica cinese classica, ed è più evidente nel pensiero taoista, rintracciabile per esempio nell'opera del poeta Tao Qian (365-427). Questo poeta-eremita afferma che la bellezza delle colline circostanti la sua capanna possiede un vero significato. Ma allorquando egli si accinge ad esprimerlo, a cercare di spiegarlo « dimentica le parole », perché intimidito dalla bellezza della natura. In altri termini, ciò sarebbe indicativo della presenza d'un significato ancora inesplicato, costantemente in attesa d'una nuova mediazione ermeneutica. Zhang cita quindi una nota parabola taoista che esprimerebbe tale posizione : una volta preso il pesce (il significato), dimentica la rete (la parola). In ciò si trova dunque il valore del silenzio : esso è il luogo dove serbare un senso afferrato intuitivamente. Di conseguenza, il poeta deve cercare di articolare  un significato che a volte non è esprimibile a parole. L'aspetto paradossale in tutto ciò è che all'affermazione dell'esistenza del significato spesso non faccia seguito un'espressione esplicita dello stesso, quanto piuttosto, un'allusione, un suggerimento indiretto. La conclusione di Zhang congiunge idealmente la fenomenologia gadameriana alla filosofia taoista :

Il fatto notevole in poesia non è dato dal fatto che ci sia del significato, quanto piuttosto dal fatto che il significato vada al di là dei confini del testo. (...) Il significato è infinito e si rende manifesto solo attraverso le nostre limitate interpretazioni (p.126).[15]

Di recente, taluni studiosi sono entrati in polemica con Zhang. Lo si accusa infatti di decontestualizzare la riflessione sulla natura del linguaggio in Cina, di banalizzarne il significato politico, nonché di ricondurla ad un'unica matrice (quella taoista), la quale, per quanto rilevante, non può certo essere considerata importante quanto quella confuciana.[16] Tuttavia,  il lavoro di Zhang Longxi ha contribuito in maniera considerevole a porre le basi per un avvicinamento ed arricchimento reciproco tra orizzonti teorici distinti quanto quello cinese e l'occidentale. Innegabilmente, la sua opera offre notevoli possibilità di sviluppo agli studi di estetica ed ermeneutica comparata.

Post-marxisti : Liu kang

Una delle figure più originali tra i giovani critici cinesi è sicuramente quella di Liu Kang. Proveniente dalla Cina popolare, attualmente professore di letteratura comparata e cinese all'Università di Pennsylvania, Liu Kang è tra i critici più sensibili alla teoria occidentale, in special modo a quella d'ispirazione marxista. Tra le sue pubblicazioni si ricordino Demonizzare la Cina (Demonizing China) e Dialogismo di Baktin e teoria culturale (Bakhtin's Dialogism and Cultural Theory). All'opera del critico russo Liu ha dedicato anche numerose pubblicazioni in cinese. A questo riguardo, va sottolineato che, unitamente a Frederic Jameson, Bakhtin rappresenta la maggior influenza occidentale sulla sua opera. Tuttavia, lungi dallo sviluppare un discorso meramente imitativo, Liu cerca di ridare voce alla critica estetica cinese moderna e contemporanea. Come accennato all'inizio, egli è convinto che la critica cinese del ventesimo secolo, lungi dall'essere stata una pedissequa imitazione del modello sovietico, abbia invece rappresentato un fenomeno molto più complesso ed interessante. Il discorso di Liu è motivato quindi dal desiderio di ridare dignità ad una tradizione che la supponenza orientalistica della critica occidentale, sia essa d'ispirazione neo-marxista o meno, ha quasi sistematicamente ridotto a szdanovismo cinese. Tale anti-orientalismo, già evidente quando Liu critica lo stereotipo del cinese nel cinema americano (Demonizzare la Cina), fa l'oggetto d'una nuova elaborazione estetica nella sua ultima opera: Estetica e marxismo - Studiosi d'estetica marxisti cinesi ed i loro contemporanei occidentali. Appare evidente già dall'ordine dei termini nel sottotitolo come sia intenzione di Liu quella di riscrivere la storia dell'estetica marxista in modo da ridefinire precedenze, influenze, simbiosi e paralleli. Tra quelli che Liu considera i più importanti critici marxisti cinesi, si annoverano Lu Xun, Qu Qiubai, Zhu Guangqian, Hu Qiuyuan, Hu Feng, Mao Zedong e Li Zehou. Tra i filosofi marxisti occidentali considerati come elemento comparativo, Liu analizza Adorno, Horkheimer, Benjamin e Marcuse, ma anche Gramsci, Althusser, Eagleton e Jameson. L'analisi di Liu include anche studiosi d'estetica non-marxisti, quali ad esempio Jauss (la cui estetica della ricezione è avvicinata a certe posizioni maoiste), nonché maestri del settecento e dell'ottocento quali: Kant (discusso attraverso il filtro del critico contemporaneo Li Zehou), Schiller (le cui posizioni vengono associate a quelle del grande educatore e riformatore del sistema scolastico cinese, Cai Yuanpei), e Schopenhauer (comparato al critico letterario Wang Guowei). Liu pone in primo luogo dei limiti ad un'estetica universalistica, affermando che:

In Occidente, l'estetica è stata essenzialmente un discorso borghese della modernità, un tratto che mantiene anche tra gli intellettuali marxisti occidentali, malgrado essa sfidi le forme ideologiche dominanti del capitalismo.(...) Quando i marxisti in Occidente criticano la modernità capitalista, devono partire dal presupposto che esiste una società civile borghese quale spazio sociale da cui lanciare il loro attacco (p.2).[17]   

Secondo Liu Kang, la nascita dell'estetica altro non è che l'invenzione d'un soggetto libero, autonomo e sedicente universale (in realtà essenzialmente borghese), ed è legata ad una congiuntura politica, economica e storica particolare: la nascita della modernità (occidentale). In Cina, invece, attraverso l'esperienza marxista l'estetica subisce una trasformazione fondamentale: da discorso prettamente borghese, essa diventa un'arma rivoluzionaria nella lotta per la conquista del potere statale ed in ultima analisi finisce per rafforzare l'egemonia istituita dal Partito comunista. Appare dunque evidente come l'intenzione di Liu Kang sia quella di mettere al plurale, o frammentare, l'idea stessa di modernità, in  modo che questa non sia più riconducibile ad un modello unico quale quello occidentale. Allo stesso fine, Liu osserva in Cina non già l'assenza, bensì la non-rilevanza del ruolo di mediazione che l'estetica esercita tra le dicotomie proprie alla metafisica ed alla modernità occidentali : razionalità/sentimento; epistemologia/etica; soggetto autonomo/stato autoritario e normativo. Tutto ciò è estraneo al contesto culturale ed al discorso critico in Cina. Per questo motivo, ad una modernità introdotta sulla canna del fucile, la Cina risponde frammentando le contraddizioni intrinseche alla modernità occidentale e riconducendole ad un dualismo in cui l'essenza cinese viene opposta ad una pratica occidentale. Come si può in qualche modo intuire, per Liu, il discorso della modernità e dell'estetica occidentale in Cina diviene, già all'inizio del secolo scorso, uno strumento critico atto a promuovere un discorso autoctono. Tale progetto si può compiutamente comprendere soltanto nel contesto culturale dato ed a partire dalle priorità politiche e sociali di quel momento particolare. Questa è la ragione per la quale Liang Qichao (uno dei grandi riformatori della fine del diciannovesimo secolo) vede l'estetica come il mezzo tramite il quale creare una nuova nozione di cittadinanza. Del resto è per un motivo analogo che l'estetica fu percepita allora tanto come un potenziale sostituto della religione, o un viatico per la scienza. L'aspetto più significativo del lavoro di Liu sta nel fatto che la Cina è presentata come un laboratorio in cui rivedere il ruolo e la funzione dell'estetica in uno spazio, in particolar modo quello post-rivoluzionario, in cui essa non può/non deve svolgere un ruolo analogo a quello svolto nel contesto occidentale. Liu parte dal presupposto che la problematica principale della modernità in Cina è data dalla contraddizione esistente tra rivoluzione ideologica/culturale e ricostruzione materiale/economica. In quest'ottica, Liu compara la nozione d'egemonia in Gramsci con quello che gli sembra un concetto molto simile in Qu Qiubai (1899-1935), e cioè quello di lingdaoquan (letteralmente « il potere della leadership »). Il ruolo degli intellettuali, la funzione della letteratura, l'idea di nazional-popolare, il contesto politico stesso (la dittatura fascista e quella del Partito nazionalista) sembrano elementi accomunanti i due filosofi :

Specificamente, ci sono notevoli analogie con la nozione gramsciana di egemonia ed in generale colla sua teoria della cultura. Qu si proponeva di lanciare un movimento culturale proletario rivoluzionario che potesse risolvere il problema della separazione degli intellettuali dalla classe operaia, creando al tempo stesso una nuova cultura nazionale e popolare. Anche i concetti ed i termini usati da Gramsci e Qu sono particolarmente simili, spesso identici. Qu enfatizzò il bisogno di costruire una letteratura ed un'arte proletaria popolare che fossero anche nazionali ; Gramsci concepì la nozione di « nazional-popolare » come una volontà collettiva, d'importanza fondamentale per l'egemonia rivoluzionaria. Qu giunse ad una conclusione analoga per quanto riguarda il ruolo della cultura e delle rivoluzione (p.67).[18]

Liu osserva inoltre che Gramsci, al pari di Qu si propose di creare un nuovo linguaggio rivoluzionario ed una nuova estetica finalizzati a colmare il divario linguistico ed estetico che l'egemonia culturale borghese aveva scavato tra intellettuali e popolo lavoratore (p.69). Liu puntualizza però che mentre le posizioni di Gramsci restarono sostanzialmente teoriche ed inapplicate, nel caso di Qu esse divennero oggetto di elaborazione pratica, dato il notevole peso ch'esse esercitarono alla vittoria della rivoluzione. Liu pensa che la posizione di Qu possa essere comparata anche con scuole di pensiero e tendenze critiche contemporanee. Infatti, egli avvicina la teorizzazione estetica e politica del critico cinese a quella ora in voga tra gli accademici postcolonial in America del Nord.  A suo dire esse sono di fatto simili quanto alla definizione della posizione dell'intellettuale :

Da una posizione marxista classica, dove si enfatizza sempre la determinante economica nella vita sociale, Qu si ritrasse su posizioni che privilegiano determinanti soggettive più frammentate e flessibili. La sua scelta presenta certe affinità coll'idea di posizionalità, formulata dai critici postcoloniali, secondo la quale l'identità di classe è precipuamente determinata da fattori soggettivi, psicologici, o discorsivi. La teoria postcoloniale riafferma inoltre la priorità delle differenze culturali, nazionali ed etniche sulla nozione marxiana di classe come categoria universale. In una certa misura, la critica che Qu muove all'europeizzazione è caratterizzata da una tendenza simile a quella della teoria postcoloniale (p.66).[19]

Liu Kang segnala però anche le differenze profonde quanto a contesto e conseguenze pratiche di tali pratiche critiche/estetiche. In maniera impietosa, egli constata come negli Stati Uniti le teorie radicali, in particolare strutturalismo e decostruzionismo, non abbiano quasi alcuna rilevanza al di là dell'ambiente accademico; a suo dire, esse si si riducono ad un sapere quanto mai sterile dato che sembra ormai impossibile uscire da una condizione esistenziale dove l'egemonia discorsiva occidentale rimane indiscussa (p.67).

Liu sviluppa anche comparazioni meno ovvie, non sempre egualmente convincenti, come quando avvicina Jauss  a Mao Zedong. È certo vero che sia Jauss che Mao assegnano un ruolo fondamentale al lettore ed alla lettura nel processo di comprensione e di realizzazione del testo. Tuttavia, appare ovvio che il corpus critico adottato è troppo limitato, e che quindi Liu estrapola paralleli  alquanto vaghi e non tiene nel debito conto le specificità del concetto maoista del ruolo dell'intellettuale e della letteratura.

Ad ogni modo, il lavoro di Liu Kang è estremamente interessante ed innovativo in ragione degli orizzonti che apre al critico di estetica (marxista o meno).

Conclusioni

La critica letteraria ed estetica in Cina presenta una particolare ambivalenza. Da una parte, si nota il desiderio di confrontarsi colla teoria (critica) occidentale; dall'altra, non si può non rilevare la fierezza colla quale una parte cospicua degli studiosi cinesi difende la propria specificità culturale, nonché la propria storia, resistendo così all'omologazione o alterizzazione/marginalizzazione da parte del discorso euro-americano. In ogni caso, appare difficile stabilire con certezza dove si tratti di radicato sinocentrismo, e dove invece non si abbia a che fare con una reazione d'ispirazione postcoloniale alla violenza dell'episteme occidentale. Ironicamente, molti dei critici cinesi maggiormente influenzati dalle teorie dei cultural studies sembrano, almeno per il momento, non volersi confrontare con tali orientamenti della critica cinese contemporanea, riducendoli ad auto-orientalismo, ovvero tradizionalismo fuori moda.

Le nostre riflessioni sul discorso estetico e critico nella Cina contemporanea hanno probabilmente suscitato interrogativi piuttosto che offrire risposte precise e dettagliate in merito ai termini principali della questione. Ma non era d'altra parte nostro obbiettivo articolare un'analisi dettagliata ed esaustiva, la quale richiederebbe una trattazione molto più vasta che esula certamente dai limiti del presente saggio. D'altro canto, ci riterremo modestamente soddisfatti qualora si sia riusciti ad ingenerare nel lettore curiosità per un universo culturale comunque distante.

York University, 2003

[1] Tale posizione è per esempio sostenuta da Liu Kang, uno studioso al quale dedichiamo la parte conclusiva del presente saggio.

[2] I lettori non sinizzanti interessati alle tematiche dell'estetica maoista, nonché all'influenza ed alla ricezione della critica szdanovista sovietica, possono fare riferimento ad un'estesa bibliografia in inglese. A questo riguardo, da ricordare in particolar modo: D.W.Fokkema, Dottrina letteraria in Cina ed influenza sovietica, 1956-1960 (Literary Doctrine in China and Soviet Influence, 1956-60), Hague: Mouton, 1965; Cyril Birch, «Letteratura sotto il comunismo» (Literature Under Communism) in: Cambridge History of China. Vol. 15, a cura di Roderick MacFarquhar e John King Fairbank, Cambridge: Cambridge University Press, 1986, pp. 743-812.

[3] Tra le opere principali di Liu Zaifu, vanno annoverate La composizione della personalità (Xinge zuhe lun) e soprattutto Sulla soggettività della letteratura (Lun wenxue de zhutixing).

[4] Tra le sue opere principali nel periodo in questione, si ricordino soprattutto Il Sentiero della bellezza (Meide licheng) e Critica della critica della filosofia (Pipan zhexue de pipan)

[5] A questo riguardo, si ricordino i lavori di Meng Hua, una specialista di letteratura francese che ha svolto un ruolo fondamentale nell'introdurre in Cina la semiologia.

[6]  Zhang Xianliang Opere rappresentative di Zhang Xianliang (Zhang Xianliang daibiaozuo) p.403. Tutte le citazioni dall'inglese e dal cinese sono state tradotte dall'autore del presente saggio.

[7] Citato in Jia Guimei, Crescita e crisi della critica (Piping de zengzhang yu weiji), p.65.

[8] Che Jinshan, « Erronee intepretazioni idealizzanti della Cina da parte dei telquellisti» (Faguo ' Rushipai ' dui zhonguo de lixianghua wudu ), in : Ricerche multiculturali (Duobian wenhua yanjiu), Vol. I, 2001, pp. 189-197.

[9] Durante gli anni Ottanta, all'apice dell'interesse per la critica letteraria occidentale, gli studi di linguistica e di system theory fecero l'oggetto d'un dibattito intenso quanto relativamente breve, nonché d'una appropriazione/rilettura estremamente originale. È il caso per esempio di certe storie della letteratura compilate da studiosi i quali privilegiano la continuità nella storia della cultura (allo stesso modo in cui prima simpatizzavano collo slogan zaofan youli - « ribellarsi è giusto  »). Questi vedono quindi nelle teorie del system/control, come pure nello strutturalismo, il mezzo per legittimare scientificamente la loro conversione ideologica. A questo riguardo, vedi: Wang Jing, Politica, estetica ed ideologia nella Cina di Deng (Politics, Aesthetics, and Ideology in Deng's China), pp. 154-156.

[10] A questo riguardo, va notato lo scetticismo di Wu Xuan rispetto al concetto di critica come dialogo (e quindi, si potrebbe ipotizzare, anche rispetto alla natura comunicativa dell'opera d'arte), Wu Xuan, p.375.

[11] Le nozioni di « personale » e di « individuale » hanno una valenza politica particolarmente significativa, in quanto Wu associa il primo termine al contesto storico-politico e culturale cinese, ed il secondo a quello « occidentale ». Se da un lato si può criticare il sostrato storicistico di questo ragionamento, bisogna tuttavia anche sottolineare come Wu non ipotizzi né auspichi l'avvento in Cina d'una individualità occidentalizzata : essa sarà probabilmente diversa da quella propria alla modernità occidentale. 

[12] Zhang Longxi, Il Tao ed il logos: ermeneutica letteraria, Oriente ed Occidente (The Tao and the Logos: Literary Hermeneutics, East and West), p. 32.  "The presence in both China and the West of largely the same kind of metaphysical hierarchy, the same concern about the loss of inner reality in outer expression, already provides a fertile ground for comparison that may help us expand our horizon and finally understand the nature of language beyond the arbitrary phonocentric distinctions. The Chinese script as a form of nonphonetic writing, however, does differ from the Western alphabetical writing in a significant way that may overturn the metaphysical hierarchy more easily and efficiently than Western phonetic writing does, and there is something in the Chinese script that does appeal to the Derridean grammatology."

[13] "Chinese writing is never conceived as a mere recording of oral speech but as originating independently of speech."

[14] "Indeed, as it is created by observing the pattern of traces, Chinese writing tends to project the nature or quality of trace in writing better than any phonetic writing does and thus reveals language as a system of differential terms. The convention in ancient China of naming a book after its author and the settled practice of ancient writers quoting earlier writings do not so much emphasize the origin of writing in its author, but rather make authors identifiable first in their writing and transform the writings of philosophers like Laozi and Zhuangzi into great sourcebooks, origins of authority, and the ultimate texts of reference in the intertextuality of Chinese writing. It is quite true that almost every ancient Chinese is an intertext. But an intertext significantly different from that understood in deconstructive criticism. While a deconstructive intertext is a trace without origin, a Chinese intertext is always a trace leading back to origin, to the fountainhead of tradition, the great thinkers of Taoism and Confucianism."

[15] "What is remarkable about poetry is not that it has meaning, but that its meaning always exceeds the boundaries of the text.... Meaning is infinite and is made manifest only in our finite interpretations."

[16] Tale posizione è espressa per esempio da Liu Kang: «Perciò, se si insiste sulla somiglianza tra Tao e Logos e se se ne traggono delle equazioni tra la "visione cinese" del linguaggio (la quale in realtà non è che una forma particolare di scetticismo taoista) e la decostruzione contemporanea, si trascura la nozione confuciana dominante secondo la quale esiste un vincolo naturale ed un'interazione reciproca tra segno e cose», Liu Kang, Estetica e marxismo. Studiosi d'estetica marxisti cinesi ed i loro contemporanei occidentali (Aesthetics and Marxism. Chinese Aesthetic Marxists and Their Western Contemporaries), Durham, Duke University Press, 2000, p.24. "Hence, to insist on the resemblance between Tao and Logos, and thereby draw equations between the 'Chinese view' of language (which is actually merely a specific kind of Taoist skepticism) and modern-day deconstruction, neglect the dominant Confucian notion that presupposes a natural bond and reciprocal interaction between sign and things." Tale obbiezione è senza dubbio legittima. Si potrebbe comunque osservare che la visione confuciana sulla lingua è più complessa di quanto sostenuto da Liu Kang, in quanto anch'essa include talune riflessioni sull'inesauribilità del significato. 

[17] "In the West, the aesthetic has been primarily a bourgeois discourse of modernity, a feature that it retains in the hands of Western marxist intellectuals despite its challenge to the dominant ideological forms of capitalism.... When Marxists in the West critique capitalist modernity, they must assume a bourgeois civil society as a social space from which to mount their attack."

[18]"Specifically, there are striking parallels to Antonio Gramsci's notion of hegemony and his cultural theory in general. Qu wanted to launch a proletarian, revolutionary, cultural movement that would solve the problem of the separation of intellectuals from working people, while simultaneously creating a new national and popular culture. Even Qu and Gramsci's concepts and terms are remarkably similar, and often identical. Qu highligthed the need to construct a proletarian popular literature and art that should also be national; Gramsci conceived of the notion of "national-popular" as a collective will, central to revolutionary hegemony. Qu arrived at the same conclusion concerning the role of culture and revolution."

[19] "Qu recoiled from a classical Marxist position that always emphasizes economic determination in social life in favor of a more fragmented and flexible position of subjective determination. His stance has some affinity with the postcolonialist idea of positionality, which grants the supremacy of subjective, psychological, or discursive determinants in class identity. Postcolonialism also reaffirms cultural, national and ethnic differences over Marx's notion of class as a universal category. To some extent, Qu's critique of Europeanization shares this tendency with postcolonialism."

BIBLIOGRAFIA

Che Jinshan, « Erronee intepretazioni idealizzanti della Cina da parte dei telquellisti» (Faguo ' Rushipai ' dui zhonguo de lixianghua wudu ), in : Ricerche multiculturali (Duobian wenhua yanjiu), a cura di Che Jinshan, Vol. I, Pechino, Xin shijie chubanshe, 2001, pp. 189-197. 

Jia Guimei, Crescita e crisi della critica (Piping de zengzhang yu weiji), Taiyuan, Shanxi jiaoyu chubanshe, 1999.

Liu Kang, Estetica e marxismo. Studiosi d'estetica marxisti cinesi ed i loro contemporanei occidentali (Aesthetics and Marxism. Chinese Aesthetic Marxists and Their Western Contemporaries), Durham, Duke University Press, 2000.

Wang Jing, Politica, estetica ed ideologia nella Cina di Deng (Politics, Aesthetics, and Ideology in Deng's China), Berkeley e Los Angeles, University of California Press, 1996.

Wu Xuan, Critica di letteratura cinese contemporanea (Zhonguo dangdai wenxue pipan), Shanghai, Xuelin chubanshe, 2001.

Zhang Longxi, Il tao ed il logos: ermeneutica letteraria, Oriente ed Occidente (The Tao and the Logos: Literary Hermeneutics, East and West, Durham e Londra: Duke University Press, 1992.

Zhang Xianliang Opere rappresentative di Zhang Xianliang (Zhang Xianliang daibiaozuo). A cura di Zhang Zhiying e Zhang Shijia, Zhengzhou, Henan renmin chubanshe, 1989.  pp. 268-486.

 

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