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Scienza, tecnica, e arte: dal fisico del segno (dell'oggetto) alle sue pratiche

By Angel Angelov

1. Precisazioni preliminari
2. Scienza vs tecnica
3. Arte vs tecnica
4. Intermezzo (breve) epistemico
5. Arte vs scienza e conclusione

1. Precisazioni preliminari

Come ognuno dei miei ascoltatori può ben comprendere, le questioni messe a titolo (ad argomento) di questa mia conversazione sono ben intricate e complesse. Si tratta di tre argomenti a tradizione millenaria, incarnati ciascuno in biblioteche intere, che nessun uomo può ragionevolmente pensare ormai di potere in assoluto dominare. Figurarsi poi se i tre argomenti vengono, come nel mio presente caso, affrontati insieme e nei loro rapporti contemporaneamente ! Ma niente paura. La complessità non deve spaventarci, tanto più se ci si limiterà, come io qui farò, a guardarla (diciamo così) da lontano per individuarne volti e legami di massima. E' la complicazione che va evitata. La complessità, invece, se semplicemente esposta ben venga: la nostra realtà è questa e non altra. Basta, ripeto, provare a dirne senza schemi posticci, enfatizzanti o troppo linearizzanti che siano. Un aiuto ad evitare tali pericoli penso mi venga direttamente dal titolo che ho dato al mio ultimo libro, che ho posto alla base di questa mia conversazione. Ma andiamo con ordine.

I tre argomenti in questione e cioè scienza, tecnica e arte sono implicitamente presenti nel suo titolo : I cosmi, il metodo. [L. Nanni, I cosmi, il metodo, Bologna, Book Editore, 1994.] L scienza, nel termine "metodo". Sappiamo tutti: "metodo", etimologicamente rinvia alla "strada" e significa cammino, ricerca e, tra i vari tipi di ricerca, quella scientifica è ricerca per eccellenza. Soprattutto con le correzioni che la scienza del Novecento ha epistemologicamente portato a se stessa, alla concezione che ha di sé e al modo di realizzarla. La scienza non si concepisce più come il luogo dell' episteme contrapposto in modo assoluto all'incertezza della doxa, ma proprio unitariamente come un sapere (una episteme) doxatico, diciamo così, di cui la temporalità e la storia sono strutture fondamentali e dove la verità è tale fino a prova contraria, fino a quella sua falsificazione cui la scienza non può non aspirare continuamente. Aspirazione che solo un'autentica ricerca, un'autentica via in movimento e quindi un vero metodo può realizzare.

I termini "arte" e "tecnica", invece, sono impliciti nel termine "cosmo". Prima come sinonimi e poi, invece, differenziati. Come sinonimi rinviano alla marca semantica "articolare", implicita etimologicamente nel termine cosmo. Il "cosmo" viene in genere assunto come sinonimo di "ordine", ma un ordine prodotto in uscita dal "caos", che non può così che risultare articolato a un qualche fine. Renato Barilli, per esempio, definisce giustamente la tecnica una pratica che trasforma la materia con atti di abile intelligenza e, per altro, il termine arte rinvia, stando al Devoto e ad altri insigni studiosi dell'etimologia delle nostre parole, alla radice indo-europea "are", articolare appunto, da cui poi "armonia" (proporzione), "arm" (braccio) in tedesco ecc.. Tutti termini e definizioni in cui l' "articolare" rimane un processo centrale. Non si chiama il braccio anche articolazione? E una proporzione è forse possibile senza una previa divisione (articolazione) di un qualche "continuo" in qualche suo segmento? E la tecnica trasformazione della materia, di cui parla Barilli, che è se non una suddivisione del suo "continuo" in parti (articoli) in vista di una qualche fine ? Del resto è con "arte" che il termine greco "téchn?" viene tradotto senza problemi. A questo livello e nel senso predetto senza presupposizioni di differenze. E poi è, credo, a tutti noto: in senso generico l'arte è la tecnica tout court. Quando, ad esempio, nei contratti dell'edilizia un'impresa si impegna a costruire "a regola d'arte" non vuole certo dire alla maniera, che so, di un Picasso o di un Miro' e così via, ma secondo le regole che l'arte della buona e corretta muratura esige. Non altro. E tutto questo in prima istanza.

In seconda istanza s'è già detto, invece, che pure i termini "tecnica" e "arte", considerati semanticamente separati, trovano in "cosmo" la loro casa. Ciò accade per via della "cosmesi" e dell' "ornamento" ad essa connesso. Cosmo e cosmesi rinviano alla fine alla stessa radice e addirittura il significato "ornare" pare precedere quello di "ordinare". E credibilmente, giacché, pur trattandosi in via logica di due significati inseparabili (dove cogli un ornamento lì devi pensare un ordine e viceversa), in senso storico-esperienziale è pur vero che il meta-pensiero è venuto dopo il pensiero, che la coscienza consapevolmente riflessa s'è dovuta districare da quella oscura e facente tutt'uno con l'esperienza e che l'esperienza d'ordine è più astratta e riflessa di quella d'ornamento, più sensibile e immediata. Ad ogni modo due significati strettamente intrecciati in "cosmo" e che, adottando modalità di scrittura oggi molto frequenti, soprattutto oltralpe, così potrebbero essere graficamente uniti: cosmo uguale a ente or(di)nato e viceversa, con uno scatto d'intuizione finale: che si parli di "tecnica", che si parli di "arte" o che si parli di "scienza", sempre di "cosmo" si parla, seppure a livelli diversi: la tecnica è il "cosmo" in quanto un "or(di)nato" prodotto; la scienza è il "cosmo" in quanto un "or(di)nato" saputo, conosciuto e l'arte è il "cosmo" in quanto un "or(di)nato" sentito, vissuto, amato. L'arte allora, così come noi la concepiamo, non sarebbe altro che la tecnica (l'arte) considerata bella. Sappiamo, è una distinzione nota: la storia ha già diviso l'arte dall'arte bella, lasciando la scienza al suo moderno, autonomo, destino.

In ogni caso si tratta di un titolo (quello di questo mio ultimo libro) scandaloso. Ancora secondo l'etimo naturalmente. Un titolo che, da qualunque parte lo si prenda, crea inciampo per la scuola, diciamo così (anche se non mi piace il termine "scuola"; sa troppo per me di scienza normale, si potrebbe dire, alla Kuhn, ma così, tanto per intenderci, lo si può usare) per la scuola, dicevo, da cui provengo. Intendo la scuola bolognese di Luciano Anceschi. Uno degli ultimi libri di Luciano Anceschi s'intitola Il caos, il metodo. [L. Anceschi, Il caos, il metodo, Napoli, Tempi Moderni, 1981.] Prima del metodo ci sarebbe, per Anceschi, il caos e sarebbe appunto il metodo a portarlo a cosmo. Al contrario, il mio titolo presuppone che il cosmo preceda il metodo (il metodo scientifico, s'intende) e mai viceversa.

Inciampo per l'uomo comune, per la comune e più diffusa idea che si ha al riguardo. Per l'interlocutore medio, che al momento mi fingo, penso che molto più normale sarebbe stato il titolo Il cosmo, il metodo. Perché i cosmi al plurale ? Che vuole dire ? Il cosmo non è uno

Inciampo, poi, per la scienza stessa in cui mi trovo ad operare, tanto normale (vogliamo dire "razionale" ?) che anarchica (vogliamo dire "irrazionale" ?). Per quella "razionale", perché penso che avrebbe trovato più sensato il titolo Il cosmo, i metodi. Non è, forse, convinzione diffusa all'interno della scienza corrente e mica tanto arretrata, intendiamoci, che il cosmo sia quello che è e sia poi studiabile dalla scienza secondo approcci diversi ? Col risultato di un totale rovesciamento speculare del mio titolo: là dove tale scienza dice che la scienza ha il cosmo (la realtà) come oggetto di riferimento, se vogliamo un oggetto diretto di studio, io dico che ne ha tanti e diversi, non il cosmo (la realtà), ma i cosmi, gli universi culturali che lo (la) interpretano e là, dove questa scienza moltiplica i suoi metodi, io dico che il suo metodo è uno e uno solo. Ci può essere più distanza di questa

Inciampo, in fine, per la scienza che, in opposizione alla precedente, s'è deciso di dire anarchica o "irrazionale". Penso a quella che si vuole ricondurre alle posizioni di Feyerabend [Naturalmente all'immagine corrente di Feyerabend, al suo mito diciamo, non al suo pensiero in sé, molto più problematico e complesso.], per esempio. Per questa idea di scienza il titolo corretto sarebbe I cosmi, i metodi. I cosmi non precederebbero più, come per me, il metodo scientifico ma sarebbero suoi prodotti e quindi sarebbero tanti quanti i metodi stessi, secondo una moltiplicazione all'infinito di unità teoriche chiuse tautologicamente in se stesse, senza più possibilità di verità o di errore, quindi né di prova né di falsificazione, appunto senza alcuna razionalità, se razionalità è possibilità di controllo, di confronto e quindi di verità, seppur fondata solo intersoggettivamente e non oggettivamente in sé. Possibilità in cui, ancora, il mio titolo lascia credere, individuando, pur nella moltiplicazione degli oggetti di studio, un unico metodo in cui le loro diverse identità possono venire alla luce. E' il metodo ciò che, nella scienza, gli uomini hanno di loro proprio (in quanto scienziati e solo in quanto tali, si capisce, ché come uomini etici hanno infinite altre cose) ed, essendo uno, in esso non possono non incontrarsi e confrontarsi e, confrontandosi, stabilire che cosa sia credibile e che cosa non lo sia. Ed è proprio alla luce di questa possibilità che io pongo questa stessa credibilità; la credibilità, intendo, anche di ciò che sto dicendo sulla credibilità stessa. In fondo è scientificamente che io qui sto tentando di parlare della scienza, di chiamare in conclusione a raccolta chi mi ascolta attorno ad una pratica (ad un "cosmo", e sto già implicitamente esplicitando i miei "cosmi") per vedere tutti insieme se è vero che essa si presenta così come io dico. Del resto come sarebbe possibile fare conferenze di questo genere se non si credesse in questa possibilità di controllo intersoggettivo di una qualche verità ?

Ora, si converrà con me che non è facile andare in giro per il mondo a dire cose così "scandalose" o, quanto meno, che può essere molto faticoso e, infatti, per diversi anni non mi sono mosso; mi sono limitato a scrivere e a sperare nella forza autonoma della scrittura, che indubbiamente è notevole, ma per tempi piuttosto geologici che umani. Tutto per le ragioni che ho detto, ma credo (e anzi oggi ne sono convinto) anche per un equivoco, un profondo e devastante equivoco, sulla comunicazione. L'equivoco sulla comunicazione è quello che dà per scontato un passaggio di pensiero dall'emittente al destinatario, generando scoramento e frustrazione se ciò non avviene. Ebbene, credo che queste attese vadano rovesciate, che il fraintendimento sia la norma e quindi qualcosa di cui evitare di soffrire e la comprensione, invece, una cosa "miracolosa", di cui, se capita, gioire.

E' un problema gigantesco su cui ora sto lavorando: credo che la comunicazione sia un fatto reale (siamo pur riusciti insieme a organizzare questa conferenza, sono pur riuscito a prendere un treno per venire qui da Ravenna ecc.), ma credo anche che la teoria standard (emittente e destinatario, codifica e decodifica ecc. ecc.), con cui tutto il mondo tende oggi a spiegarla scientificamente, sia falsa. Ma, ripeto, si tratta di una questione molto intricata e, devo dire, a margine rispetto agli argomenti di questa mia conferenza. Basti qui dire che la presa di coscienza di questa "verità" m'ha tolto, potrei dire con Hegel, la fatica del concetto, nel caso più propriamente mi ha alleggerito della fatica di portarlo in giro, permettendomi di scommettere sul nostro intenderci e niente più. Ritorno allo scoperto e relativa scommessa agevolatimi anche, per altro, dall'incontro con il falsificazionismo popperiano. Perché lavorare da soli, chiusi in casa o nel proprio studio (nel proprio laboratorio) per anni, a cercare induttivamente prove per ciò che si pensa, evidentemente con il rischio sempre di essere smentiti ? Chi non ricorda l'esempio del tacchino induttivista ? Alle nove gli veniva dato da mangiare e allora lui si lasciò tranquillamente andare alla seguente legge: allo scoccare delle nove andare tranquilli, non può venircene che bene; finché una bella mattina alle nove fu preso e mangiato. E' questo induttivismo solipsistico, con tutta la superbia in fondo ad esso connessa (lo pseudo-titanismo narcisistico dell'uomo che si crede autonomo e quindi superiore) che il falsificazionismo di Popper toglie di mezzo. Hai una qualche teoria in testa ? Bene. Non tenerla per te. Prova a formularla senza contraddizioni interne (sappiamo, da una contraddizione si può dedurre tutto e il contrario di tutto e quindi sarebbe come se la teoria non ci fosse); indica poi l'orizzonte suo di controllo, l' "universo" dei "fatti", insomma, per i quali intende valere e quindi chiama a raccolta la comunità scientifica, perché ti aiuti a toglierla di mezzo, a trovare, in conclusione, un fatto (un'esperienza) cruciale che ti dia torto. Che è comportamento oltre che, come s'è detto, meno faticoso, anche più umile e comunitario e più esteticamente creativo e liberatorio (in fondo perché frenarci nel proporre teorie, anche le più astruse ? La comunità scientifica non è più lì per ridere di noi, ma per capirne con noi l'eventuale, per quanto sorprendente e impensabile, sensatezza) oltre che, con la sua sostituzione del modus tollens al modus ponens, più logicamente corretto.

E', allora, secondo questo spirito che io continuerò ad atteggiarmi nei confronti di chi mi sta ascoltando e nei confronti delle cose che mi accingo a dire sugli argomenti in questione. Ci racconteremo insomma, per bocca mia, delle cose e ancora insieme vedremo poi se sia il caso di lasciarle in piedi o di toglierle invece di mezzo. Vediamo.

2. Scienza vs tecnica

Ho detto che il mio libro, così come si propone fin dal suo titolo, costituisce un inciampo a posizioni diverse, che non vorrei però, qui, continuare a considerare (ad approfondire) separatamente l'una dall'altra, ma opporre unitariamente al mio pensiero, in ciò che ovviamente hanno in comune nello scontro o nelle divergenze che dir si voglia. Anzi, diciamo meglio: elencherò ciò che, di mio, mi pare esse non possano condividere, lasciando poi a chi mi segue il compito, se vuole, di procedere in proprio alle determinazioni e ai più spiccioli confronti e controlli.

Direi allora che le convinzioni mie, che proprio non mi sembrano condivise dagli orizzonti citati, sono sostanzialmente due e di fondo. La prima - riassumendo quanto già detto e procedendo ad ulteriori precisazioni - è la convinzione (in me resistente) che la scienza, così come s'è venuta nel nostro occidentale mondo sviluppando da Galileo in poi, sia propriamente analitica, che entri in conclusione in scena secondariamente, a cose fatte, quando insomma una qualche altra pratica ha proceduto sinteticamente e in via primaria a definire l'entità in predicato d'essere da essa (dalla scienza appunto) analizzata. L'analisi, sappiamo tutti, può essere intesa con varie sfumature, ma suo postulato irrinunciabile (lo dice molto bene anche Abbagnano nel suo Dizionario filosofico) è che quando essa entra in scena ci sia già qualcosa di determinato, di fatto, su cui lavorare, appunto da analizzare. E, attenzione, da analizzare in linea di principio con occhio, diciamo così, innocente, senza cioè arrecare all'oggetto studiato alcun danno (innocente, all'etimo, non vuole proprio dire altro) che è come dire senza modificarlo. Non è, infatti, questo che ci attendiamo dalle analisi, poniamo, del nostro sangue, allorché siamo malauguratamente costretti a farle ? O che ci aspettiamo forse che l'analisi lo modifichi a suo piacimento ? Certo, può accadere (purtroppo è accaduto), ma in via di fatto, come un errore da togliere di mezzo, non come cosa legittima in linea di principio. La seconda mia convinzione, poi, procede direttamente da questa prima ed è la convinzione che, a ben guardarla, la scienza si manifesti come una (il metodo, s'è detto) senza più distinzione alcuna tra le così-dette scienze dell'uomo e quelle più consolidate della natura. Andiamo con ancora ordine.

Vediamo prima la questione dello statuto analitico della scienza. E', per altro, qui (a questo livello) che essa mi appare in senso proprio scollata dalla tecnica. La tecnica in senso proprio manipola il mondo, interviene su esso per materialmente modificarlo, ha a che fare con la sintesi piuttosto che con l'analisi e quindi con le pratiche (ideazioni primarie le ho chiamate in questo mio libro in questione e anche in altre sedi) tese a produrre non l'analisi, ma le entità da analizzare. Ideazione, quella tecnica, che potremmo dire anche, viste le modificazioni di cose e comportamenti che essa introduce nel mondo, etica in senso a-valutativo e puramente etimologico, di fronte a quella analitica appunto e secondaria che fin qui ho chiamato scientifica, ma che potremmo anche dire epistemica, riconducendo ancora una volta la parola alla sua origine etimologica.

Non si dimentichi: episteme significa anche posto sopra, appunto secondario rispetto alle pratiche che, in presa diretta, ci legano al mondo e ci permettono orizzontalmente, diciamo così, di viverlo e determinarlo secondo i nostri bisogni. Se mi si passa un'immagine un po' grossolana, ma molto efficace esplicativamente (così almeno a me appare), si potrebbe dire che tutta l'impalcatura della nostra conoscenza, così come qui la sto considerando, trova nel bue, nella mucca (nel ruminante, insomma) il suo emblema più essenziale. Il ruminante può verticalmente ruminare (scientificamente analizzare, nel nostro caso), ma se e solo se ha previamente e orizzontalmente (dall'esterno verso l'interno) prelevato erba dal mondo, portandola nel suo stomaco. [ Nell' esempio del sangue indicato, l'oggetto da analizzare è sintetizzato dalla ricetta del medico che noi consegniamo al laboratorio. Non è il sangue in sé, in assoluto, che è oggetto d'analisi, ma quel suo livello (quelle sue caratteristiche) che vengono delimitate e messe in ordine (ecco un cosmo) dalla ricetta del medico (equivalente, nel caso, del nostro bue pascolante).] In questo senso anche quel contrasto che si vuole oggi così stridente tra ermeneutica e epistemologia (penso precisamente, in Italia, a Gianni Vattimo) viene a cadere: non c'è scienza senza apertura previa (non scientifica) sul mondo, ma non c'è nemmeno ermeneutica senza analisi. A che occhio, infatti, può apparire la distinzione stessa tra epistemologia ed ermeneutica ? Quale occhio può vederla ? Non forse un occhio esterno ad entrambe, necessariamente ? E un occhio esterno che è se non analitico ? E poi non si dimentichi, tanto per dire, quanta parte, quanta importanza, ha l'analisi in Heidegger. Ripeto, tanto per dire di qualcuno che l'odierna ermeneutica non considera da sé tanto lontano. Vorrei rendere, però, più icastico il tutto con un esempio. Pensiamo alla linguistica. A parte il fatto che F. de Saussure è del tutto d'accordo con quanto vengo sostenendo sull'identità da attribuire alla scienza, d'accordo esplicitamente voglio dire [F.de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari, 1968 (sec. ed.), p. 9. Il "disinteresse" a cui de Saussure lega indissolubilmente lo sguardo della scienza è forse qualcosa di diverso dall'occhio esterno ? Dall'occhio analitico ? Direi proprio di no. Si pensi: dis-interesse (separazione dall'interesse). E, per altro, interesse = inter-esse (essere dentro). E allora disinteresse = a separazione dall'essere dentro, a non essere dentro e ciò che vuole dire se non essere fuori ?], l'esempio della linguistica è convincente anche a prescindere dal prestigio di De Saussure stesso. Direi che è intuitivamente convincente, leggibile a mio favore, per semplice evidenza. O che forse una linguistica avrebbe senso in assenza di una qualche lingua ? Prima (in via primaria) viene la lingua (una qualche lingua) e solo dopo (in via secondaria) viene la linguistica che la studia. E (da notare) non necessariamente: la lingua può benissimo esistere e funzionare anche senza la linguistica. Mio padre, contadino, non sa nulla di fonemi, di morfemi, di marche semantiche ecc., eppure parla il suo dialetto tosco-emiliano senza alcun errore. La lingua, per vivere, non aspetta la nascita della linguistica: vive e basta. Se poi la linguistica arriva, farà con essa i suoi conti. Che altro, se no ?

E così il cosmo. Il cosmo per funzionare non ha aspettato (e passerei così alle scienze naturali, facendo vedere appunto che la scienza è teoricamente - metodologicamente - una) la riflessione, che so, di Galileo, di Keplero ecc.. La vita del cosmo se ne infischia delle nostre discussioni o preferenze circa il circolo o l'ellisse. Il cosmo vive e basta, e da sempre, prima e dopo (è da presumere) il nostro pensiero. Tanto più che, come anticipato, non è il cosmo (la realtà) che viene direttamente studiato dalla scienza. La realtà in sé non viene proprio vista dalla scienza. Lo sapeva già Kant, per non dire anche dei Sofisti greci (ma con costoro, al riguardo, bisogna andare cauti), quando parlava della sua noumenicità. Io vorrei però stare più vicino a noi e a quanto la riflessione epistemologica del nostro secolo è venuta sempre più solidamente riconoscendo, ad Heisenberg, per esempio. La fisica, ci dice Heisenberg, non descrive direttamente l'elettrone, l'elettrone in sé, ma solo l'immagine che dell'elettrone ci danno i suoi strumenti. [W. Heisenberg, Natura e fisica moderna, Milano, Garzanti, 1985, passim.] Non altro. E non è chi non possa vedere anche qui lo schema a ruminante comune alle scienze umane. La funzione di definire concettualmente il mondo da un qualche punto di vista svolta, nell'esempio da scienze umane, dalla lingua (non si dimentichi che la definizione del mondo cambia col cambiare delle lingue) è qui svolta dagli strumenti della fisica o, meglio, dalla fisica-considerata-al-livello-dei-suoi-strumenti, pratica sintetica, produttrice di definizioni del mondo ancora inesistenti e allora non ancora scienza, ma pratica etica al pari di ogni altra attivata dalla vita al suo livello primario, al livello insomma di se stessa in quando vita. Non bue ruminante, allora, per continuare con la mia immagine, ma solo bue pascolante e nulla più. E quale, nella fisica, il bue ruminante ? Che cosa, in essa, l'equivalente della linguistica ? Ancora la fisica stessa, ma non più considerata al livello dei suoi strumenti, bensì al livello in cui essa prende coscienza di ciò che essa stessa, attraverso i suoi strumenti, ha prodotto. Presa di coscienza analitica, in linea di principio non più modificante. E che altro, se no ? Se continuasse a modificare riscenderebbe a livello dei suoi strumenti (tornerebbe bue pascolante), confondendo allucinatoriamente un livello con l'altro. E' solo a questo livello che la fisica, e con essa ogni altra scienza della natura, diviene propriamente scienza, in nulla diversa (diverse) da quelle dette umane. Ed è qui che la scienza viene a trovarsi, di fatto, fuori dagli strali di coloro che la vogliono causa di tutti i mali di questo nostro mondo. Sue, queste colpe, non sono, ma della tecnica. E' la tecnica che lavora il mondo e lo fa spesso guidata da morali (da sistemi di valori) che con quello implicito nella scienza nulla hanno a che fare. A differenza di quanto pensano in molti, per esempio K.O. Apel, io penso che dalla scienza sia del tutto deducibile una morale e per di più la più salvifica per l'uomo stesso.

Che volete, la cosa è palese: l'uomo non nasce scienziato. Scienziato lo può diventare e, se lo diventa, lo diventa tardi. Voglio dire quando la sua infanzia se n'è già andata ed è già stato, per dirla alla Lorenz, moralmente impringtato, appunto, da sistemi di valori - è da presumere - politici, religiosi o d'altro tipo, ma in genere pre o a-scientifici. Ecco il punto: spesso la morale dello scienziato non è quella implicita nella scienza che egli esercita e i mali sono da attribuire a quella piuttosto che a questa. Non è però questo il luogo per procedere a una trattazione, anche minimamente esauriente, di questo rapporto tra morale e scienza. Sarebbe argomento per un'altra conferenza e del resto in questo mio libro, cui faccio spesso riferimento, me ne occupo non brevemente [L. Nanni, I cosmi, il metodo, cit..], così che possiamo tornare più strettamente al nostro argomento e aggiungere che l'unicità della struttura teorica(teoretica) della scienza, di cui sto parlando, appare evidentissima se, all'interno della linguistica, si isola quanto fa la fonologia. Si pensi ! Essa, districatasi dalle pastoie ancora positivistiche della fonetica attraverso il meritorio lavoro critico della Scuola di Praga, negli anni '20/'30, e successivamente, attraverso quello, veramente fondamentale, di L.J.Prieto - titolare di quella cattedra di linguistica generale che, all'Università di Ginevra, fu già di F. de Saussure -, dove ha individuato il suo corretto oggetto d'analisi ? Non più nel suono in sé, come pretendeva la fonetica, ma nel fonema e il fonema è veramente quella specie di ghiandola pineale dove universo delle scienze dell'uomo, da un lato, e universo delle scienze della natura, dall'altro, possono incontrarsi e fare sistema. Come un Giano bifronte, esso dà sui due versanti: in quanto suono (qualche tratto del suono esso necessariamente lo conserva) esso dà sul versante delle scienze della natura, ma in quanto fonema in senso stretto, vale a dire in-quanto-suono-considerato-in-rapporto-con-una-qualche-lingua e quindi in quanto immagine del suono (una qualche immagine, varia col variare delle lingue) costruita, ritagliata, da una lingua, da una qualche lingua (e credo che l'analogia con quanto succede all'elettrone sia evidente) esso dà sul versante delle scienze dell'uomo, col risultato di uno schema metodologico unico, costituito alla base da un insieme di costrutti cognitivi (fenomeni avrebbe detto Kant) frutti delle nostre pratiche (delle nostre tecniche) relazioni con il mondo. Quelli che io, ripeto, chiamo i cosmi. E, sopra, una scienza che non ha più come suo oggetto di studio direttamente il mondo in sé, ma questi cosmi costruiti dalle nostre pratiche e che, se ci dice qualcosa circa il mondo, materiale o psichico che sia, ce lo può dire soltanto indirettamente attraverso congetture la cui accettabilità va sempre commisurata all'avallo di questi cosmi-costrutti, che esse, per raggiungere il mondo in sé, devono attraversare. Ancora Kant ? Sì, ma con una vigorosa demetafisicizzazione dei trascendentali, degli a priori insomma, legati ormai solo alle culture, alla loro diversità e alla loro storica mobilità. Del resto anche la fisica lo sa di essere scienza soltanto al suo livello analitico, non prima e non dopo. E non tanto perché già Aristotele gliel'aveva detto, scorporandola dalle scienze pratico-poietiche (tecnico-produttive appunto) e includendola, con la matematica e la metafisica (la teologia), in quelle teoretiche (non si dimentichi che all'etimo "teorico" significa "guardare" e che l'analisi è il guardare per eccellenza), ma perché proprio nei suoi odierni manuali essa si denuncia come tale. Ricorda, chi mi sta seguendo, il caso recente di Pons e Fleismann ? Il clamore suscitato attorno al loro caso ? Ricorda la pretesa (loro) scoperta della fusione nucleare a freddo ? Pretesa di primo acchito non illegittima, se è vero come pare sia vero che nel loro laboratorio è veramente avvenuta una produzione di energia eccedente quella consumata per produrla, e pretesa del tutto scientificamente accettabile da chi fosse incapace di distinguere tra la fisica come pratica etico-produttiva (tecnica, s'è detto) e la fisica, invece , come pura analisi (scienza), ma la fisica in quanto scienza sa distinguere, magari solo intuitivamente, ma sa già distinguere. Se infatti si va a consultare i suoi manuali, quella scoperta, in quanto scoperta scientifica, non c'è, non viene registrata. Eppure, ripeto, il fenomeno pare proprio che sia tecnicamente avvenuto. E allora che cosa impedisce il suo accesso ai manuali ? Ecco il punto: lo impedisce il fatto che non si sa ancora come sia avvenuto e cioè la sua mancata illuminazione analitica e di conseguenza la sua irriproducibilità. Ma questa è una conseguenza del buio analitico in cui ancora la cosa bivacca ed è questo buio analitico che le impedisce l'accesso alla scienza. Non altro.

Visto allora questo scollamento della scienza dalla tecnica e la sua conseguente" natura" analitica e unitaria, passerei a un secondo, necessario, scollamento: quello dell'arte dalla tecnica, dell'arte-arte intendo (dell'arte bella s'è detto, purché il bello - si precisa ora - sia visto mobile fino al punto da potere passare, cambiando cultura, anche nel suo contrario). Scollamento, anche questo, di cui l'apparato dell'arte è già consapevole, ma anche qui per via in gran parte sotterranea, silenziosa e puramente intuitiva. Si tratta di prenderne coscienza scopertamente e una volta per tutte. Proviamo.

 3. Arte vs tecnica

Per dimostrare questo scollamento, per dimostrare, insomma, il fatto che artisticità e tecnica sono due cose diverse, ricorrerò ad alcuni esempi, utili didatticamente e insieme utili anche a permettermi di dire, nel poco tempo che ancora ho a disposizione, quanto è necessario che io arrivi a dire, perché tutto questo mio discorso acquisti un suo senso compiuto. Esempi di opere d'arte intendo.

Primo esempio, lo Scolabottiglie di M. Duchamp. Sappiamo: quest'opera non è stata fatta dall'artista (da Duchamp). Duchamp l'ha solo dis-locata, l'ha tolta dal negozio del cantiniere, diciamo così, e l'ha presentata in una galleria d'arte. E' un classico "oggetto trovato" e approdato all'arte tale e quale come è stato trovato. Fa ora, infatti, bella mostra di sé nel museo dell'arte. Non nel museo della tecnica, dell'industria e dell'artigianato intendo, ma proprio nel museo dell'arte-arte. [Si sa che di tale opera manca l'originale. Ne abbiamo copie risignificate artisticamente da Duchamp stesso successivamente.] Nello stesso luogo, insomma, dove si trovano anche le opere, che so, di Leonardo, Picasso ecc.. Tutto questo anche se la tecnica usata per farlo (ecco il punto, attenzione) non è stata quella dell'arte (non è stato fatto a tal fine, Duchamp non l'ha fatto per niente), ma quella extra-artistica, artigianale o industriale che sia, ben tesa a far buoni oggetti per scolare bottiglie e nulla più. E' stato allora sì fatto " a regola d'arte", per tornare a quanto detto sopra, ma come scolabottiglie non come opera d'arte. Come opera d'arte si tratta di un'opera d'arte divenuta tale senza una tecnica specifica che l'abbia prodotta. Il che ci fa pensare che qualsiasi tecnica possa approdare all'arte, purché da una qualche cultura, da una qualche poetica, come tale venga assunta, come tale venga delegata a funzionare o a vivere, se il termine appare meno freddamente tecnico e spersonalizzato. Il che è come dire che tecnica e artisticità sono due processi diversi, autonomamente liberi d'andarsene per le loro strade. Strade che a volte, certo, possono incontrarsi, ma poi anche lasciarsi senza che né l'uno né l'altro ne tragga alcun danno. Vogliamo altre prove ? Bene. Vediamo un secondo esempio: la Nike di Samotracia.

La Nike di Samotracia si trova al Louvre. Tutti l'abbiamo ammirata riprodotta sui libri di scuola: una magnifica "Vittoria" alata, ma rotta com'è non sarebbe certo stata considerata arte dal suo autore, intendo dallo scultore greco che l'ha materialmente fatta: troppo tecnicamente imperfetta. Come avrebbe potuto una cosa in simile condizioni soddisfare i canoni d'armonia dell'arte greca ? E invece no: è proprio così che la nostra cultura la vuole arte. Essa è per noi arte non in base alla tecnica della scultura greca, ma (attenzione) in base al lavoro che sulla scultura uscita dalla tecnica greca - diamo così - hanno esercitato il tempo e le forze erosive del luogo e allora in base a un'altra tecnica, quella che ha appunto per soggetto queste forze a-umane e cosmiche. Non è chi non possa capire che cosa significhi tutto ciò sul piano della riflessione estetica. Se anche una tecnica extra-umana e impersonale può produrre qualcosa che può approdare all'arte, allora è proprio inutile partire dalla tecnica per individuare l'arte (l'artisticità). La sua imprevedibilità diventa totale e ogni tecnica può ritrovarsi, in grazia dell'amore per essa di una qualche cultura, nel campo dell'arte.

Un terzo e ultimo esempio a conferma di ciò può essere quello dei falsi. Penso alla tecnica di uno dei massimi tra i falsari, a Van Meegeren e ai suoi falsi Vermeer. Talmente tecnicamente perfetti che nessuno credeva fossero dei falsi, tanto che per salvare la testa Van Meegeren dovette rifarne alcuni davanti ai giudici, così in presa diretta. Solo così egli riuscì a dimostrare che La sposa infedele, che egli aveva venduto al feldmaresciallo Hermann Göring non era un segno di collaborazionismo suo con il nazismo, ma una beffa abilmente giocata anche al gerarca nazista. E poi via, lo sappiamo: quanti sono capacissimi di riprodurre in modo tecnicamente perfettissimo quadri d'altri ? Quanti ? Eppure le loro opere non valgono come l'originale. Se l'artisticità avesse a che fare con la tecnica obbligatoriamente, questa differenza di valutazione diventerebbe incomprensibile. Siccome, però, nulla accade a caso, se questa differenza di valutazione si , ciò significa che la decisione circa l'artisticità o meno di una cosa viene presa in un orizzonte separato dalla pura tecnica. Orizzonte, certo, che può decretare l'artisticità di qualcosa in base alla tecnica con cui è fatto (se l'artisticità è libera dalla tecnica deve pur essere libera anche di recuperarla sotto qualche suo aspetto o caratteristica), Ma non obbligatoriamente: può decretarne l'artisticità anche in base a livelli di realtà che con la tecnica non hanno proprio nulla a che fare.

E' decisamente sbagliato andare a cercare nella struttura (nella confezione) e quindi nella tecnica il criterio d'artisticità. La questione è stata lungamente dibattuta nel Novecento. Recentemente ha caratterizzato lo scontro tra strutturalismo e movimenti ad esso contrari, ma è cosa che chiunque affronti la ricerca da sveglio, non portando la propria mente all'ammasso, può essere in grado di vedere. Dove cercare allora il criterio di demarcazione tra uno scolabottiglie-scolabottiglie e uno scolabottiglie-opera-d'arte, tra un originale - tanto per tornare ai falsi - e una copia perfetta, se tecnicamente indistinguibili ? Non c'è scelta: non restano che le modalità, le convenzioni d'uso. E' arte ciò che viene usato come arte; non lo è ciò che non viene usato come tale. I soggetti di tali usi, che hanno anche un nome (si chiamano poetiche), possono avere estensione diversa: singoli, gruppi a soggetto determinato (che so, futuristi, ermetici ecc.) o anche gruppi a soggetto diffuso, epocale. In quest'ultimo caso la poetica costituisce la guida di fondo dell'uso artistico delle cose, la delega d'artisticità data a determinate cose, propria di intere culture (che so, del Medioevo, della Modernità ecc.) spesso tra loro in opposizione. E se la cultura è pluralista, poetiche (queste, a soggetto diffuso) con cui quelle dei singoli e dei gruppi determinati devono fare i conti.

Ma, mi si potrebbe obiettare, ciò vale per la poetica dell'arte detta concettuale e - da notare - se intesa nelle sue movenze più rigorose, non per l'arte in generale. Ebbene, io penso invece che il principio, che viene a nudo nell'arte concettuale, valga anche per l'arte in generale, in qualsiasi epoca. Non c'è tempo, qui, per raccontare la storiella dell'ammiratore di Van Gogh e dell'aborigeno australiano, cui di solito faccio ricorso per dare icasticità a questa mia convinzione, ma credo che nessuno di noi faccia fatica a credere che la Gioconda, ad esempio, o, che so, Guernica di Picasso valgono ciò che valgono per questa nostra cultura, che le ha delegate a visualizzare ciò che noi pensiamo (ciò che noi abbiamo bisogno che) sia l'arte per noi e che in altra cultura, con altri interessi ed altri bisogni, esse potrebbero significare altro o addirittura nulla: divenire semplici oggetti da dimenticare. L'artisticità è come, e mi si perdoni l'immagine che, per altro, mi sembra estremamente efficace, l'occhio di bue" a teatro: si posa ora qui e ora là e ciò che tocca diventa arte e ciò che non viene toccato o lasciato rimane o torna ad essere - in rapporto a quest'occhio, si capisce, non ad altro - nulla. E dico qualcosa di più: dico che questo meccanismo epistemico non presiede solo alla nascita di tutta l'arte, ma è il meccanismo epistemico che presiede alla costituzione di ogni identità, del volto culturale, che ogni entità, ogni cosa, arriva, nel mondo, ad avere. Converrà riflettere un momento su questo e lo farò ancora una volta con una storiella.

 4. Intermezzo (breve) epistemico

Qualcuno dei presenti avrà sentito parlare di Abdus Salam ? Abdus Salam è un fisico (non so se sia ancora vivo, ma me lo auguro) che, nel 1989 credo, vinse con altri il premio Nobel per la fisica a seguito dei risultati ottenuti dalle loro ricerche sul livello in cui tutte le forze della natura si presentano come una sola forza. E' il grande progetto a cui lavorava, che io sappia, anche l'ultimo Einstein. Ebbene, alla domanda del giornalista che, dopo la premiazione, gli chiedeva perché mai egli si accanisse tanto a volere trovare questa unificazione, Abdus rispose, lasciando il nostro giornalista di stucco, " perché Allàh è uno !". E' facile comprendere come il giornalista, non proprio ferrato sull'identità della scienza, sia rimasto sorpreso: " Come è possibile - si sarà chiesto - che un uomo, con questa motivazione, vinca un premio (e che premio !) nella scienza occidentale, intrinsecamente autonoma e laica ? ". Ora, se il giornalista ne avesse saputo di più sulla scienza, ripeto, non si sarebbe meravigliato, se avesse saputo della fondamentale distinzione epistemologica tra orizzonte della genesi e orizzonte della giustificazione di una teoria avrebbe saputo che una teoria, appunto, non nasce scientifica in sé, ma lo diventa nell'uso scientifico che se ne può fare. Le teorie possono venire da qualsiasi luogo, possono venire dai sogni, dalle mele che cadono - pare proprio che anche questo sia accaduto - dalle religioni ecc., non importa: fino a questo punto non sono ancora teorie scientifiche, sono ancora semplici formazioni concettuali più o meno organizzate al pari di ogni nostra altra pensata, per così dire.; diventano teorie scientifiche soltanto quando io le uso secondo i principi della scienza, principi che vogliono tante cose, ma soprattutto due: che tali pensate vengano formulate senza contraddizioni interne (come già sappiamo) e che non siano contraddette (falsificate) dal livello di realtà a cui esse pretendono di rapportarsi. Tutto qui: se Allàh serve a elaborare una pensata che così può essere usata, a comprensione non sconfermata di qualche nostro livello di realtà, diretto o indiretto che sia, ben venga Allàh nella nostra scienza occidentale e laica. Non è la scienza che è diventata religione o, viceversa, la religione che è diventata scienza: i loro apparati d'uso delle idee non si sono avvicinati di un millimetro: sono rimasti tali e quali. E' la materia pensata che, nel caso, ha lasciato il suo apparato d'uso fideistico per entrare in quello sperimentale, appunto, della scienza occidentale. Apparato unico, formale (vuoto) perché costituito da principi d'uso del pensiero che non cambiano con il cambiare del pensiero che li riempie. Apparato unico e immobile. Quante teorie la scienza ha scartato da quando è nata, ma i principi che hanno retto l'accettazione o lo scarto sono sempre quelli. In certi periodi sono stati offuscati, in altri riscoperti (penso, per esempio, a una lettera di Galileo a Welser, che contiene già tutta la depurazione post-positivistica che la scienza, nel Novecento, ha operato su se stessa) e continuano a fare, soli, il corpo (ripeto, unico) della scienza.

Da questo punto di vista il bel libro di Kuhn sui paradigmi [T.S.Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969.] può ingenerare una deplorevole confusione. Non nella mente di Kuhn, ci mancherebbe, o in quelle esperte di epistemologia, ma nel lettore meno avvertito sì. E' ormai all'ordine del giorno sentire gente, anche di fama, che straparla di paradigmi della scienza, facendo di ogni erba un fascio. Correttamente occorrerebbe distinguere tra la scienza e la materia in cui prende corpo e cioè le visioni del mondo che possono riempirla. Sono queste, sono questi i paradigmi che tracciano le vicende plurali, ordinarie e straordinarie di cui parla Kuhn, non il paradigma (l'insieme dei principi) che le (li) mette scientificamente in forma, che appunto è uno, vuoto e in linea di principio immobile da sempre. Ma torniamo più strettamente alla questione dell'identità legata all'uso.

Bene, quanto ci ha fatto vedere l'aneddoto di Abdus Salam può essere esteso alla cultura in generale: è la cultura stessa che àncora ogni sua entità a una sua identità d'uso. Che significa "scola-bottiglie" ? Alla lettera: scolare bottiglie, appunto un suo uso. Togliete questo oggetto da quella pratica e esso non avrà più nome, sarà tornato "cosa" in attesa (rammenta, chi mi segue, il rinnovamento del PCI ad opera di A. Occhetto ? Esso fu, per diversi anni, la "cosa") di un altro nome e così via. E poi il termine "cultura" non viene da colo, colis, colui, cultum, colere ? E che significa tale verbo latino ? non forse "coltivare", modellare e allora usare secondo un determinato fine, un determinato modello, una determinata poetica, nell'arte ? Si coltivano i campi, ma anche, dicono i vocabolari, le menti e le amicizie, cioè a dire gli uomini al fine di dare loro l'identità d'amico e allora perché non le cose al fine di dare loro l'identità d'arte ? Arte per cultura e non per natura (per confezione o struttura materiale), con tutta la mobilità che questo comporta.

Resta un ultimo movimento. Resta da far vedere, dopo aver fatto vedere (e spero di esserci riuscito) che la scienza non è la tecnica e che la tecnica non è l'arte, che l'arte a sua volta non è la scienza. E a questo punto la cosa non è difficile: questa conclusione consegue naturalmente da quanto fin qui si è detto. Vediamo.

5. Arte vs scienza e conclusione

In fondo che cosa s'è fatto fin qui, da questo punto di vista ? Staccando l'arte dalla tecnica non s'è staccata la materia dai processi culturali (simbolici ) che, nominandola secondo se stessi, le assegnano ora questa ora quella identità a seconda della loro storica diversità e mutabilità ? Non che, intendiamoci, la cultura possa fare di una cosa materiale ciò che vuole. Ci mancherebbe ! Convinzioni così idealisticamente onnipotenti hanno perso da tempo il loro senso, ammesso che ne abbiano mai avuto. No. Ciò che qui si intende dire è che ogni cosa può manifestare ciò che essa è, i suoi diversi e stratificati livelli di realtà insomma, soltanto all'interno dell'a priori culturale che le dà identità. Il libro mio citato comincia con la seguente specie di slogan: " le cose suonano secondo se stesse, ma è la cultura che dà il 'la' ". E non vuole proprio dire cosa diversa da quelle fin qui sostenute. Quando l'amico prof. Guido Guglielmi, anni or sono, diceva: non è a seguito dell'analisi linguistico-strutturale cui lo sottopongo che un testo diventa poesia, ma è perché già lo considero poesia (già ho dato ad esso l'identità di poesia, dico io) che posso procedere a una sua analisi critica in chiave linguistico-strutturale. Poi, a questa analisi, esso rivelerà le strutture linguistiche che sono sue proprie, non quelle di altri (ci mancherebbe !), ma la decisione circa il suo destino non è in suo possesso. Non posso vedere nello scolabottiglie ciò che non c'è, ma nel veder ciò che c'è sono condizionato dal fatto che io lo consideri un semplice oggetto d'uso pratico o un'opera d'arte. Come oggetto d'uso pratico, come scolabottiglie-scolabottiglie sarò portato (necessitato direi) a vederlo soltanto nella sua capacità di tenere sospese bottiglie a collo in giù, affinché possano asciugarsi ben bene. Delle altre sue caratteristiche non sono tenuto a curarmi. Come opera d'arte, invece, tutto l'oggetto può diventarmi significativo, compresi gli stupefacenti paesaggi di muffe che il tempo può avervi sopra disegnato.

Siamo sempre lì: l'artisticità coincide con un modello d'uso culturale, se si vuole (e ripeto) simbolico, perché poi quest'uso non è mai arbitrario, se è vero che ho parlato di "un occhio di bue" mosso da bisogni e interessi ecc. che, in quanto tali, non possono essere mai casuali. Questo lo abbiamo visto quando abbiamo distinto l'artisticità dalla tecnica, ma lì abbiamo anche visto qualcosa che suggerirebbe una negazione di quanto qui messo a paragrafo. Abbiamo visto, infatti, che anche la scienza arriva a trovare, per così dire, la propria scientificità (e quindi propriamente se stessa) non in un qualche pensiero, ma solo in un modello d'uso di tutti i possibili pensieri. Perché, allora, volere opporre arte a scienza ? Non s'annegano entrambe, a questo livello, nell'extra-testualità del modello d'uso ? Lasciamo stare che la scienza appaia riempita da pensiero e l'arte da cose, perché si tratta appunto di pura apparenza. E non tanto perché la storia abbia proposto scopertamente come arte anche pure proposizioni, puri pensieri (il rinvio è sempre, strettamente parlando, all'arte concettuale), ma proprio perché ogni cosa appare prioritariamente a noi come segno. Segno del modello culturale che la nomina, quindi non solo intrisa di pensiero, ma, in quanto tale, fatta letteralmente di pensiero. Toglietele questo livello e essa perderà il suo nome e, con esso, ogni rapporto con noi regredendo nell'oscura intangibilità metafisica del tutto.

Certo. Certo. Ma c'è modello e modello ! E del resto buona norma scientifica vuole che le differenze, se interessano, vadano cercate dove sono, non dove non sono. L'abbiamo appena visto con lo scolabottiglie. Nella scienza i segni (e le teorie sono segni: che altro, se no ?) contano pere il livello denotativo del pensiero che contengono, insomma per i soli concetti che possono intersoggettivamente veicolare. Non per altro. Convenzione vuole che in un congresso scientifico la verità di una comunicazione sia quella che in essa ha inscritto il suo autore e non altri. Secondo una monosemia d'uso che non ammette deroghe e alla quale il destinatario (l'ascoltatore) va pensato del tutto subordinato. Certo, in linea di principio, ché in linea di fatto i fraintendimenti e le fughe per la tangente dell'ascoltatore sono sempre possibili. Ma, appunto, come errori prima o poi da correggere, non come legittimità interpretative da perseguire. In questo la scienza non è diversa da ogni altra nostra pratica strumentale del mondo: nelle nostre pratiche-pratiche segni e oggetti valgono unicamente come entità a una e una sola dimensione: quella inscritta nel loro nome. Zappare per la zappa; sostenere abiti per l'attaccapanni e così via.

Ecco appunto: la scienza non è diversa da ogni nostra altra pratica-pratica, ma è diversissima dalla pratica che chiamiamo "arte". [Il disaccordo, nel caso, con quanto sosteneva, per esempio, Galvano della Volpe appare evidente. D'accordo sulla polisemia nel funzionamento dei segni nell'arte (Della Volpe parla anche di plurivocità, ma il concetto mi pare lo stesso), ci si separa invece per il resto. Egli ritiene univoco (monosemico, nei miei termini) il funzionamento dei segni nella scienza e equivoco nel discorso quotidiano e comune. Luogo, pratica, dove invece io ritengo che funzionino ancora in modo univoco o monosemico, che dir si voglia. L'errore di Galvano della Volpe mi pare imputabile a un indebito e tacito mutamento di punto di vista che egli fa nel corso della classificazione. Quando definisce il discorso scientifico il luogo dell'univoco, egli lo fa a partire dalle presupposizioni che guidano il discorso scientifico in linea di principio: certo che in linea di principio il discorso scientifico va pensato come univoco: non è forse l'emittente (lo scienziato) l'unico proprietario di quanto il suo discorso afferma ? E non è forse compito di chi lo ascolta mettersi al suo servizio e permettersi di capire unicamente quanto egli vuole che, nel caso, si capisca ? Certo che questa è monosemia (univocità), ma in linea di principio, giacché in linea di fatto, nella concreta occorrenza del discorso, i fraintendimenti (gli equivoci, appunto) sono sempre possibili. E a me pare sinceramente che anche il nostro comune discorso funzioni allo stesso modo. In linea di principio monosemico (se a un barista chiedo una birra è una birra che egli mi deve dare, non altro; se all'ufficio informazioni della stazione chiedo l'orario di partenza del treno per Roma è questo orario che mi si deve dare, non altro e così via) e solo equivoco in linea di fatto, non per altro. E' sempre infatti possibile che il barista mi fraintenda e al posto della birra mi dia un'altra cosa, che io alla stazione capisca male e sbagli treno: questo è possibile, ma è possibile qui come nel discorso scientifico e qui, come là, correggibile. Galvano della Volpe vi vede invece una differenza, perché quando classifica il discorso scientifico lo fa a partire dalle ragioni di principio e quando classifica invece il discorso comune cambia punto di vista e lo fa per linee di fatto. Cosa che fa crollare tutta la classificazione: primo requisito infatti di una sana classificazione, di una classificazione insomma che non voglia arrivare al comico esito dell'enciclopedia cinese citata da Borges, è quello di non mutare, in corso d'opera, il suo punto di vista.
Se poi Galvano della Volpe vuole semplicemente dire che nella scienza si usano segni (termini) che hanno per definizione un significato solo e nella lingua di tutti i giorni no, ebbene dico ancora che non è vero, perché è sì vero che il termine " cane" può volere dire cose diverse, da un animale di un certo tipo a una parte di fucile, ma solo a livello di dizionario (di
langue), non di parole, di discorso in atto. Se dico " ero a caccia e mi si è inceppato il cane ", solo un folle potrebbe pensare che io mi riferisca a una improvvisa occlusione intestinale del mio cane. Molto più semplice (e doveroso per tutti) pensare che mi si sia inceppato il fucile e non sia partito il colpo. Compito del discorso in atto è proprio questo: quello di portare a determinazione, direbbe H. Weinrich, l'indeterminato (l'equivoco) proprio del dizionario. E che il nostro discorso comune sia discorso in atto e non dizionario non credo proprio ci siano dubbi, con buona pace di Galvano della Volpe e della sua, voluta, equivocità.] Nella pratica dei segni (degli oggetti -segni) secondo arte è proprio questo modello monosemico e imperialistricamente gerarchizzante (l'attenzione a un unico livello di realtà dell'oggetto-segno, con la messa in oblio di tutti gli altri) che oggi viene meno, in favore di una loro apertura polisemica democraticamente esperibile da ogni cultura che sia in grado di significarli. Monosemia (scienza) allora contro polisemia (arte): ecco il criterio di cui eravamo in cerca. E, da notare, polisemia sincronica, non diacronica, che come criterio distintivo sarebbe inutile: ogni cosa, nel tempo, può finire per cambiare significato, non solo l'opera d'arte. Qualcuno potrebbe farmi notare che già nel Medioevo Dante, per esempio, inviando la terza cantica della sua Commedia a Can Grande della Scala, suggeriva un uso polisemico dell'opera d'arte. Certo, ma quella era una polisemia chiusa (quattro livelli di significato e basta); quella di oggi invece pare legittimarsi come indefinitamente aperta. Roba però, questa, per altra conferenza: non voglio e non posso qui occuparmene. Se qualcuno fosse interessato al problema, mi permetterei di rinviarlo anche agli altri miei libri: è un tema di cui mi sono occupato molto in questi anni e spero non insensatamente. Con l'augurio invece d'essere riuscito a dare un'idea sufficientemente organica dei rapporti e delle differenze tra le pratiche di cui ero tenuto a parlare, ringrazio veramente tutti della pazienza e dell'attenzione con cui sono stato ascoltato.

Veramente grazie.

Reference literature:

I have referred to the edition of "Metarmophoses" Publius Ovidius Naso Metamorphoses (Editit Rudolfus Ehwald) vol. II, Lipsiae in Aedibus B.G. Teubneri MCMXV

Antichna literatura. Entziklopedichen spravochnik (sust. A. Nikolova, B. Bogdanov), S. 1988 (editing house Dr. Peter Beron)

Batakliev, Georgi, Antichna mitologia. Spravochnik, S., 1985 p. 70, 106 I dr. (editing house Dr. Peter Beron)

The American Citation Index states that Erich Auerbach's "Mimesis" was the most cited book in the theory of literature in the period 1950-1976.

 

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