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Scienza ? Caro Galimberti, perché non parlarne?*

Di Luciano Nanni

Caro Galimberti, comincerei da una lettera che tempo fa le ho inviato e alla quale ha fatto seguito solo silenzio. In essa scrivevo:

" Caro Galimberti, sono un suo [a dire il vero allora avevo usato il più confidenziale ' tu ', ma forse la licenza concessami era eccessiva ] lettore abituale e spesso mi trovo d'accordo con ciò che lei scrive, tanto che non è raro il caso che io, nelle mie lezioni, la citi in mio appoggio. Ma c'è una sua riflessione ormai ricorrente che, malgrado me, ogni volta che la incontro dà forma nella mia mente a un interrogativo di questo tipo: ' possibile che non se ne accorga ? '. E' una riflessione circa l'identità, diciamo così, della scienza. Un po' come se qualcuno, camminando sulle sue gambe, ne negasse l'esistenza pur continuando ad usarle, a camminare insomma con esse. Qualcosa, in conclusione, di inquestionato, di praticato quasi per inerzia, in modo acritico e abitudinario. E mi accade di pensare: ' peccato in Galimberti ! Sempre così vigile e disincantato.' O forse sono io 'fuori sparadello', per dirla alla campagnola, incantato da sirene d'abîme analitiche e ipercritiche. Non so: può darsi. So che continuerò a leggerla e potrebbe, se vuole, aiutarmi a farlo liberando il piacere che ne ricavo da questo ricorrente intoppo.

Oggi, per esempio, recensendo su la 'Repubblica ' il libro della Kaplan, Voci dal silenzio, lei osserva e afferma l'inseparabilità di psiche e storia e l'inevitabile mobilità dell'' apparato' della psiche. Bene. E perché mai questo suo discorso non dovrebbe essere ascrivibile alla  'scienza'? Perché identificare la scienza solo con le intenzioni sotto cui ne parla Freud ? Non è fatto il suo discorso ( intendo di lei, Galimberti ) in base alla presupposizione che esso dica qualcosa circa la psiche, primo, senza contraddizioni nel dire, e secondo, indicando l'orizzonte in cui quanto il suo discorso afferma può essere intersoggettivamente controllato, la storia appunto ? E che altro ci vuole per avere la scienza, la scienza come noi in Occidente e dopo Galileo, la intendiamo, si capisce ?

Il suo discorso non è pensabile come scienza perché incontra un contenuto 'mobile'? Ma mi lasci dire: che c'entra il contenuto con la scientificità di una scienza ? Non c'è contenuto che sia in linea di principio interdetto alla scienza. Tale constatazione d'inappartenenza, ammesso che avesse un senso, sarebbe già un'affermazione scientifica. Scientifico non è questo o quel contenuto, si trattasse pure di costanti o del loro contrario, ma la sua semplice affermabilità secondo i due criteri formali indicati.

Non crede ? La psicanalisi freudiana non è prova tout court contro la scienza ( sto al suo discorso ), ma ( sempre stando alle sue considerazioni ) una teoria, caso mai, sbagliata, ideologica, della psiche proprio nell'orizzonte della scienza all'interno della quale lei può confrontarsi con il dire di Freud e vedere una cosa diversa. Anche scoprire che lo specifico di una data realtà è la sua 'mobilità' è far scienza. Il non-doxatico, la scienza ( quella che va considerata tale ), l'ha sempre posto nelle modalità dell'affermare, non nel contenuto dell'affermazione. Anche nell'episteme greca. In essa infatti l'esigenza del non-doxatico nel contenuto era più un'esigenza etica ( didattica ) che epistemica vera e propria. Confusione di cui la scienza si è ad ogni modo, nella modernità e soprattutto nei suoi momenti novecenteschi più consapevoli, ben liberata. E si può dire di essa ciò che, tornando alla mia immagine, si può dire delle gambe. Non è che vadano confuse con i terreni che esplorano. Restano gambe e il camminare resta camminare anche se il terreno da uniforme diventa accidentato e imprevedibile, quando non addirittura mobile. Non possiamo forse camminare anche sul treno ? O, che so, su una scala mobile ?

Da questo punto di vista anche il tanto citato libro di Kuhn sul succedersi dei paradigmi può [ come già mi son provato a dire nella mia lettera al 'Sole 24 Ore' qui  pubblicata prima di questa a lei diretta ] indurre in errore. Non crede? Per convincere il mio interlocutore di solito faccio ricorso a un aneddoto riguardante la vita di Abdus Salam (che può ancora trovare nella mia lettera al "Sole" appena indicata).  Scientifici non sono i paradigmi che si succedono nella storia ( mi riferisco alla nostra età moderna ) come scientifici, ma è il modello formale scientifico che, assumendoli, li usa in senso scientifico. E questo, nella sua idealità è del tutto immobile, almeno da Galileo, tanto per intenderci, in poi. Nella sua idealità, ripeto, e allora nei suoi momenti di maggiore purezza teoretica, si capisce, ma non varrebbe nemmeno la pena di precisarlo: se impuro, infatti, non sarebbe nemmeno più 'il modello scientifico'.

Non crede ? Non crede che valga anche per la specificità della scienza ciò che vale in Aristotele per la specificità dell'uomo ? Inutile chiederle se rammenta: Tizio, Caio e Sempronio. Ciò che li distingue, anche per Aristolete, non è pertinente direbbero i linguisti al loro essere 'uomo'. In quanto 'uomo' sono la stessa cosa. ' L'uno differisce dall'altro solo in quanto, oltre che uomo - la sto dicendo con Severino ( La filosofia antica, Rizzoli, 1995, pp. 122/123 )- è anche qualcosa d'altro dall'essere uomo; in quanto cioè è anche qualcosa di cui non si può predicare la nozione di 'uomo', o il cui senso non è espresso da quest'ultimo termine. E non è questo anche ciò che si può dire delle scienze ? Biologia, fisica, chimica, psicologia, estetica ( ciò che insegno ) ecc. non differiscono tra loro in quanto 'scienze', in quanto 'scienze' sono la stessa 'scienza'. Differiscono per altro: non per il loro apparato formale, per i loro presupposti e princìpi di metodo, che restano unici, ma perché si occupano di livelli diversi della realtà, cioè di contenuti diversi, appunto per 'qualcosa d'altro dall'essere scienza', per qualcosa insomma del tutto eterogeneo rispetto al campo costitutivo della loro scientificità.

Non crede ? Beh! Era solo questo che al momento avevo bisogno di proporle per una riflessione comune. Ora posso continuare la lettura della sua recensione a Louise J. Kaplan e spero, con questo, di ottenere anche il suo perdono per questa mia scrittura di getto e forse veramente inadatta[1] a una lettura rilassata e distesa. Augurandomi nonostante tutto di no, che così ostica alla lettura non sia, la saluto caramente, Suo, Luciano Nanni. "

Bene. Perché riproporle oggi gli stessi quesiti di allora ?  Di primo acchito si potrebbe pensare perché ad essi, come anticipato, non c'è stata risposta, ma così non è o quanto meno, se lo è, lo è in seconda battuta, al seguito insomma di qualcosa d'altro. E questo qualcosa d'altro è il fatto che, continuando a leggerla su "Repubblica", trovo che lei continua ad avere della scienza la stessa opinione a mio parere errata di allora. E' questo che tiene per me nell'attualità e quella mia lettera e il bisogno di una qualche riflessione al riguardo. La stimo troppo per non dare peso a ciò che lei dice, ma dando peso a quanto lei dice mi trovo a disagio con me stesso e con ciò di cui sono con vinto. Riflessione che mi auguro questa volta mi arrivi e, se non da lei - considerata la pubblicità data questa volta alla mia lettera -, almeno da altri che magari si muovano sulla linea delle sue stesse convinzioni.

Prove di questo suo permanere nelle idee che le ho attribuito? Per esempio su "Repubblica" dell' 8 luglio del 2001 lei scrive: " E non è un caso che proprio scienza e religione, così divise su tanti argomenti, sulla condanna ( sic ! ) dell'omosessualità abbiano stipulato una santa alleanza." Ma quando mai una scienza che resti tale passa alla condanna morale di ciò che crede di "scoprire" ? Siamo ancora alla confusione tra modello formale e contenuti , con l'aggravante questa volta della scelta morale. Ho l'impressione che lei si costruisca un'idea di scienza che di scientifico non ha nulla e che poi l'attacchi come se fosse la scienza. A una scienza che sia veramente tale è concessa soltanto la formulazione di ipotesi senza mai dimenticare la possibilità che siano sbagliate, non la loro trasformazione in verità assoluta sulla cui  base poi passare a costruire codici morali. Lei attribuisce alla scienza colpe che non sono della scienza, ma piuttosto della morale ( se vuole della religione ) o dell'ideologia ( immissione indebita della metafisica nella scienza stessa ). Vale a dire di due usi non scientifici delle ipotesi scientifiche. Usi dogmatici che una vera scienza non farebbe mai, giacché tradirebbe quell'idea critica di verità, e quel postulato descrittivo, che propriamente l'informano ( la mettono in quanto scienza in forma ).

Ferdinand de Saussure, inoltrandosi con intenzione scientifica negli studi di linguistica, constata ad apertura del suo Cours che la linguistica come scienza ( e  non siamo, si noti,  ai tempi delle grammatiche sanscrite, ma ai primi del Novecento) che la linguistica come scienza doveva ancor nascere, giacché tutte le volte che nel corso della storia essa ha tentato di costruirsi come scienza ha finito per tradirsi, diventando una pratica normativa. Id est: ha dimenticato l'occhio "disinteressato" che dovrebbe informarla in quanto scienza e si è lasciata andare a propugnare certi modi di parlare condannandone ( ecco il suo punto !) altri. Il medico non esercita un occhio scientifico quando assegna la cura, ma soltanto quando fa la diagnosi. E  ha forse senso scientifico introdurre direzioni morali nella diagnosi ? Una diagnosi, certo, può essere sbagliata e andrà corretta in nome della verità scientifica, non di una qualche morale, laica o religiosa che sia. Certo, in fase di diagnosi un medico può sbagliare e di conseguenza dare poi una cura sbagliata, ma si tratta di errori diversi. In quanto scienziato egli non trasformerebbe mai in precetto pratico la sua ipotesi: passerebbe la vita a controllarla o falsificarla che dir si voglia. Chi passa al precetto pratico è l'uomo pratico o, se si vuole, la vita con la sua incorporata e inevitabile necessità d'azione, non il teoreta. Se c'è una colpa della scienza ( della diagnosi ) è quella di non avere alcun rapporto facile, sicuro e immediato con la Verità e di non potere fornire una base infallibile all'azione. Ma è su questo limite che essa non solo nasce, ma può dare il meglio di sé. Non essendo onniscienti, la scienza è per questa linea l'unico nostro bene. Non confondiamo il soggetto empirico con i soggetti funzionali che un soggetto empirico può attivare. Un corpo può attivare vari soggetti funzionali, marito professore, politico ecc. Le responsabilità non sono mai del soggetto empirico, ma sempre dei soggetti funzionali. Diagnosi e cura non vanno di pari passo e, anche se il corpo del medico rimane lo stesso, non obbediscono allo stesso criterio di senso. Fatta una diagnosi, la cura non è affidata in senso stretto allo scienziato, ma al sistema valoriale dell'uomo etico, sia esso il medico stesso o il paziente. Trasfusione di sangue ? Se sono testimone di Geova  non la faccio, se non lo sono magari sì, e così via e così via..

Non ci si difende mai abbastanza dalla confusione tra Cesare e Dio e dai danni che ne derivano alla verità, nozione alla quale lei stesso non rinuncia, se è vero come è vero che anche lei, dicendo ciò che dice della scienza, intende dirlo secondo verità, quindi scientificamente. E scientificamente non per lei né per me, ma proprio per quel pubblico, "per quella pubblica opinione che" come lei sottolinea ancora nell'ultimo suo scritto che ho citato " tiene in gran conto le parole della scienza".   Inutile dire che su questo sono d'accordo con lei e  penso che lei allora possa essere d'accordo con me nel riconoscere a noi  ( intendo a chi ritiene di potere parlare con coscienza della scienza )  il dovere di presentargliela, questa nostra scienza, nel modo più corretto possibile.

No me ne voglia, suo

Luciano Nanni

* Lettera a Umberto Galimberti, inedita.

[1] La lettera inviata a Galimberti era scritta a mano.

 

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