Nietzsche e la genesi del mondo umano (con un'eco da Rilke)
            di Antonello Giugliano
"O 
            einer, o keiner, o niemand, o du:
Wohin 
            gings, da's nirgendhin ging?
O 
            du gräbst und ich grab, und ich grab dir zu,
und 
            am Finger erwacht uns der Ring"
P. 
            CELAN, Die Niemandsrose (1963) I, 1
"Ma la legge interna della scienza storica 
            è questa: insieme al costruirsi del mondo storico nel tempo, cresce 
            di pari passo la comprensione scientifica della natura storica dell'uomo. 
            Infatti l'uomo non può comprendere se stesso attraverso nessun genere 
            di vuota elucubrazione sopra di sé: da quest'ultima nasce soltanto 
            la grande miseria nietzscheana della soggettività esasperata. Soltanto 
            nella comprensione della realtà storica, che egli stesso produce, 
            l'uomo perviene alla coscienza del suo potere, nel bene e nel male"[i][1].
Forse non è un caso che a meno di un anno 
            dalla morte di Nietzsche, Dilthey sentisse l'esigenza, immediatamente 
            all'inizio del suo gran saggio del 1901 sul secolo diciottesimo e 
            il mondo storico, di tirare una linea netta di demarcazione tra l'impostazione 
            scientifico-spirituale propria della sua considerazione della scienza 
            storica e della storia e quella, impersonata dalla tragica vicenda 
            filosofica e biografica di Nietzsche, che ne rappresentava il preciso, 
            catastrofico, opposto.
E questa esigenza di separare criticamente 
            il chiaro dal torbido stava quasi anche ad esorcizzare l'ombra malignamente 
            stagliantesi di un'indicibile affinità di contenuto (il problema dell'essenza 
            e del senso della storia) che poteva in qualche modo ricollegare, 
            spesso anche per la loro forma, i grandi studi e frammenti coevi e 
            successivi dell'incompiuta Einleitung in die Geisteswissenschaften 
            (1883) diltheyana con quelli dell'altrettanto incompiuto e frammentario 
            Der Wille zur Macht  postumo nietzscheano (1901, poi 1906).
Dilthey, il quale forse segretamente 
            era pienamente consapevole di una scandalosa analogia, aveva ragione 
            a marcare e rimarcare questa assiale differenza di concezioni. Ancora 
            nel 1903 vi era tornato sopra quasi inquietamente in un testo biografico 
            privato: "Invano, in una solitaria considerazione di sé, Nietzsche 
            cercò la natura originaria [del sé], la sua essenza astorica. Egli 
            tirò via una pelle dopo l'altra. E cosa rimase poi?"[ii][2].
Come quello già formulato trent'anni 
            prima da suo cognato, l'eminente filologo ritschliano H. Usener, contro 
            La nascita della tragedia ("uno che ha scritto queste cose 
            è morto per la scienza"[iii][3]), il giudizio critico di Dilthey su Nietzsche 
            avrebbe potuto dirsi definitivo. Esso racchiudeva infatti la quintessenza 
            di quanto andava detto per determinare il significato di Nietzsche 
            nel suo autosprofondamento filosofico e per avvisare chi incautamente 
            avesse voluto ancora avvicinarglisi. Se il mondo filosofico fosse 
            stato ragionevole, avrebbe dato retta all'ammonimento diltheyano 
            di non prendere mai più Nietzsche scientificamente sul serio. Infatti 
            quella annunciata da Nietzsche costituiva l'antipodo della concezione 
            'umanistica' della storia, anche di quella propria della più avvertita 
            storiografia critico-scientifica.
Ma, si sa, la filosofia, soprattutto 
            quella autenticamente filosofica, cioè arcontica e cioè 'afilologica' 
            e perciò per principio sovranamente capace di distruggere anche ed 
            innanzitutto se stessa, per finire e per ricominciare da capo in se 
            stessa, dalle rovine della 'rovina' di se stessa,  è contraria alla 
            ragionevolezza, è essa stessa non ragionevole e non vuole sentire 
            ragioni, massimamente quelle cosiddette scientifiche, che la distraggano 
            da se stessa, dalla mania di se stessa. Come appunto la fatale vicenda 
            (filologico-filosofica e biografica) di Nietzsche stava a dimostrare.
Per Nietzsche non solo e semplicemente 
            del "costruirsi del mondo storico umano nel tempo" si trattava, bensì 
            di provocare la tensione della soggettività (una sua "esasperazione" 
            l'aveva chiamata Dilthey), una tensione tale da farla improvvisamente 
            scoccare verso il concentrico superamento di se stessa, verso l'analogon 
            opposizionale di se stessa, verso il proprio primordiale fuori-di-sé 
            e perciò di procedere verso il proprio 'grado zero', verso il fondamento 
            della propria possibilità (la domanda circa la 'soggettività' stessa 
            in quanto porta d'accesso alla comprensione della vita-'hypokeimenon' 
            universale e parte della totalità costituita da quest'ultima: la "ursprüngliche 
            Natur", come l'aveva definita Dilthey), e cioè mettendo innanzitutto 
            in questione il senso di tutto l'apparato categoriale ("una pelle 
            dopo l'altra") con cui ogni totalità attraverso l'uomo ostende se 
            stessa: ciò che tradizionalmente costituisce la identità e la medesimezza 
            di quella soggettività e che si chiama 'costruzione', 'mondo', 'storia', 
            'uomo', 'linguaggio', 'pensiero', 'significato', 'vita', 'tempo' etc. 
            etc., insomma di tutti quegli elementi fondamentali che Dilthey - 
            che credeva di dover arrestare ad un certo punto, ritenuto inaggirabile, 
            la forza illuminatrice dell'analisi e quindi di non poter più spingere 
            oltre il pensiero - aveva sintetizzato appunto nella fondamentale 
            formula del "costruirsi del mondo storico nel tempo".
L'alternativa che perseguiva invece un 
            pensiero come quello inaugurato da Nietzsche era quella di un regresso 
            'trascendentale' infinito che cerca di attingere la scaturigine primordiale 
            del costituirsi della vita stessa in quanto vita e in quanto vita 
            di una 'soggettività', appunto sollevando una 'pelle' dopo l'altra, 
            attraverso uno svuotamento di tutte le categorizzazioni e stratificazioni 
            storiche onde attingere quel 'vuoto' da cui derivare l'autentica legge 
            e vibrazione interna della storia e della scienza storica. Un'alternativa 
            che pone innanzitutto in gioco e perciò filosoficamente in pericolo 
            l'interrogante stesso, la sua 'soggettività', esponendolo al rischio 
            di naufragare in sé nella esasperata "miseria" del proprio fuori-di-sé. 
            Insomma, decidendo di saltare al di là della propria 'ombra', Nietzsche 
            aveva proceduto verso la decisa infrazione metafisica del monito 
            filosofico-critico che lo stesso Dilthey aveva formulato pochi anni 
            prima in una lettera indirizzata al suo acuto interlocutore filosofico 
            conte Yorck von Wartenburg: l'inaggirabilità della "coscienza storica, 
            che l'uomo non può togliersi la pelle e trovarsi come è in sé (e su 
            ciò Nietzsche divenne pazzo)"[iv][4].
Paradossalmente (e ciò in quanto intorno 
            a Nietzsche sempre di nuovo di un infinito e concentrico paradosso 
            si tratta), però, la dichiarazione dell'impossibilità filosofica di 
            un aggiramento non può essere mai definitiva, proprio in quanto mera 
            dichiarazione che ha ancora tutto il giro della totalità delle possibilità 
            attorno a sé, e cioè ancora di nuovo dietro e avanti a sé, sopra e 
            sotto di sé; allorché questo aggiramento improvvisamente si compie 
            - è proprio della circolarità del cerchio il necessario ed inarrestabile 
            continuare a girare su se stesso, anche laddove e proprio laddove 
            esso appare ristare solo più immobile in se stesso: questo essendo 
            il modo primario di girare innanzitutto su se stesso e dunque anche 
            di aggirare e raggirare innanzitutto se stesso - esso porta alla 
            precisazione del concetto di 'aggiramento' stesso e dunque chiarisce 
            il senso del limite che era stato posto da Dilthey come invalicabile: 
            in questo caso, dei concetti di coscienza storica e di in sé, di costruzione, 
            di storicità, di mondo e, innanzitutto, di tempo.
A Dilthey (ma in parte con minor penetrazione 
            filosofica della drammaticità dei termini della questione toccata) 
            farà eco pochi anni dopo (dopo che il mondo storico, cui anche il 
            secolo diciottesimo e la scienza storica appartenevano, veniva lentamente 
            inghiottito dall'abisso che si era iniziato a spalancare con la prima 
            guerra mondiale ed il cui spettacolo era  stato dalla sorte pietosamente 
            risparmiato al vecchio Dilthey, scomparso nel 1911) il teologo Ernst 
            Troeltsch, il quale, in un articolo dedicato allo spirito metafisico 
            e religioso della cultura tedesca, celebrando il carattere idealistico 
            di fondo della filosofia e storiografia tedesche, sottolineava come 
            proprio perciò, e nonostante tutti i suoi indiscutibili meriti di 
            critico della cultura, "Nietzsche [...], der, mehr ein Dichter als 
            ein Denker [ist], mit der deutschen Philosophie wenig [...] zu tun 
            hat"[v][5].
Qui non mi interessa entrare nel merito 
            della questione, spesso analizzata, ma ancora non del tutto chiarita, 
            della effettiva incidenza del pensiero di Nietzsche (ma di quale Nietzsche?) 
            sugli autori della costellazione del cosiddetto storicismo tedesco 
            contemporaneo[vi][6]. Attraverso una sorta di mitridatizzazione 
            filosofica, al fine di una 'urbanizzazione' del pensiero nietzscheano 
            stesso, un certo tipo di storicismo si è limitato solo più ad una 
            tanto cauta quanto superficiale riassunzione della acuta tripartizione 
            della storiografia in antiquaria, monumentale e critica operata da 
            Nietzsche nella seconda considerazione inattuale.  Proprio la (contraddittoria) 
            recezione da parte dei principali esponenti del Historismus  
            è esemplificativa della contraddittorietà della recezione di Nietzsche 
            e quindi di come, però, proprio lo storicismo laddove esso prenda 
            sul serio i suoi problemi ed innanzitutto la problematizzazione di 
            se stesso, cioè la chiarificazione filosofica dei propri fondamenti 
            concettuali, trovi in Nietzsche il suo momento decisivo sia nel rifiutarlo 
            o riutilizzarlo entro i ben stretti limiti della figura dell'acuto 
            critico della cultura e testimone della crisi della filosofia (come 
            in Windelband e Dilthey e in Troeltsch e in Meinecke), sia nell'assumerlo 
            più o meno radicalmente e/o superficialmente (come in Simmel, Spengler, 
            Weber).
Anche sulla scia del tipo or ora menzionato 
            di recezione critica del pensiero di Nietzsche ci si è ormai abituati 
            a considerare interpretativamente Nietzsche ed insieme il contrario 
            di Nietzsche. Più propriamente, però, si dovrebbe parlare non semplicemente 
            di Nietzsche e del suo contrario, bensì dire e pensare che Nietzsche 
            filosoficamente è  in se stesso il suo proprio contrario.
Il radicalismo di Nietzsche ha fatto sì 
            che il suo pensiero venisse utilizzato per i più diversi tentativi 
            di determinazione filosofica della verità della realtà nella sua totalità, 
            come è avvenuto nella filosofia dei valori rickertiana e in certe 
            peculiari tendenze 'vitalistiche' della fenomenologia eidetico-trascendentale 
            (laddove come in Scheler si tratta di determinare la genesi 'materiale' 
            dei valori); nella filosofia della vita simmeliana e nell'esistenzialismo 
            jaspersiano, nell'utopismo messianico blochiano e negli sviluppi della 
            stessa fenomenologia ermeneutica heideggeriana.
La potenza della concezione nietzscheana 
            in tutta e con tutta la sua propria programmatica ambiguità, che la 
            esponeva continuamente al necessario fraintendimento e alla sua volontaria 
            autodistruzione, era tale da riuscire ad attrarre a sé anche i suoi 
            migliori oppositori filosofici, come è il caso dello stesso Dilthey 
            il quale rispetto alle prime nette stroncature qualche anno più tardi 
            riconoscerà l'importanza culturale di Nietzsche per la ridefinizione 
            concettuale dell'essenza della filosofia in termini di filosofia della 
            vita storica.
La distruzione dell'umanesimo e della 
            filosofia stessa: questa intenzionalità ultima del pensiero di Nietzsche 
            non ha impedito che questo pensiero stesso venisse ricollocato e riutilizzato 
            proprio nell'ambito contrapposto alla sua arci-intenzionalità, e questo 
            contromovimento si configura come generale 'filosofia dei valori', 
            e precisamente come urbanizzazione e bonifica del pensiero nietzscheano 
            mediante il suo innesto sul filone della tradizione lotzeana: la derivazione 
            di questa 'filosofia dei valori' anche proprio da Nietzsche (e malgrado 
            Nietzsche) attende ancora una approfondita e spregiudicata analisi, 
            che dovrebbe tenere sempre di nuovo in debito conto la fondamentale 
            linea di connessione entro cui procedere alla chiarificazione e comprensione 
            dei singoli elementi che la scandiscono: Nietzsche-Rickert-Heidegger[vii][7]), e ciò proprio in quanto il pensiero di 
            Nietzsche, che ci è giunto ed in parte ancora ci giunge mediato dal 
            pensiero wertphilosophisch e da quello seinsgeschichtlich, 
            ha già relativizzato tutto il discorso sul valere dei valori in quanto 
            ha radicato la stessa logica e dunque la 'verità' nel terreno primordiale 
            dello Schein, e dunque dell'animalità, del tempo. Rickert è 
            stato a suo modo l'anticipatore del supremo tentativo filosofico del 
            XX secolo, quello heideggeriano, di salvare la filosofia da se stessa 
            col tentare di salvare Nietzsche da se stesso, dall'autosfondamento 
            della filosofia nella sragione, nella non-ragione. Ben più del filosoficamente 
            inconcludente tentativo jaspersiano - che risentiva ancora di un'impostazione 
            'clinicistica' per quanto ermeneuticamente aggiornata ed affilata 
            - o del concettualmente goffo e malriuscito tentativo bäumleriano 
            di lettura nazionalsocialista di Nietzsche come filosofo-politico 
            della volontà di potenza, sarà Heidegger il massimo artefice di quel 
            tentativo di salvare la filosofia da se stessa col tentare di salvare 
            Nietzsche dal 'se stesso' del suo esser-fuori-di-sé.
Cento anni dalla morte di Nietzsche. 
            L'impressione è quella di una ancora futura contemporaneità del pensiero 
            di Nietzsche (che ha avuto il coraggio/la follia di andare a prendere 
            il toro per le corna, cioè di attraversare il cerchio di fuoco della 
            autodistruzione della filosofia: il suo proprio naufragium feci, 
            bene navigavi - ma senza il compimento schopenhaueriano nel Nulla, 
            bensì la sua evocazione come cerchio concentrico del ritorno), del 
            suo continuo essere-avanti-a-sé, e simultaneamente tutta l'inadeguatezza 
            della posizione ancora 'aletheiologica', pur se consapevolmente e 
            tormentatamente relativizzante e  critico-problematica, propria dell'anabasi 
            dello storicismo diltheyano e troeltscheano.
La ribaltabilità di Nietzsche nei propri 
            opposti e nell'opposto di questi opposti e così via all'infinito, 
            questa ribaltabilità è tutta già inscritta nella 'catastrofalità' 
            del pensiero nietzscheano e nella sua essenza fondamentale: lo Schein.. 
            "La novità nella nostra attuale posizione verso la filosofia è una 
            convinzione che finora non fu propria di nessuna epoca: che cioè 
            non possediamo la verità. Tutti gli uomini del passato 'avevano 
            la verità': persino gli scettici"[viii][8].
Ciò implica, allora, che il pensiero si 
            sposti dal piano del 'poter-essere-un-tutto', quale estrema configurazione 
            fenomenologico-esistenziale della volontà di verità, a quello del 
            'tutto-può-essere' (anche e innanzitutto che non si dia più alcuna 
            possibilità-di-totalità, alcuna totalità che possa essere possibile) 
            dello Schein.. Di qui, da questo piano, si dovrebbe riarticolare 
            e riformulare il tutto non più nei termini categoriali-esistenziali 
            di 'Sein und Zeit ', bensì più appropriatamente nei termini 
            apparenziali di 'Schein ' e 'Zeit ' (in cui la 
            congiunzione sarebbe solo il pleonasmo dell'autoapparenzialità dell'esser-fuori-di-sé 
            del temporalizzarsi della temporalità). Lo Schein costituisce 
            il pensiero dominante della 'anti-filosofia' di Nietzsche, e ad esso 
            sono sottomessi tutti gli altri pensieri fondamentali (eterno ritorno 
            dell'eguale, volontà di potenza, nichilismo, genealogia etc.).
Ma in esso non si tratta di una mera 
            contrapposizione gnoseologistico-fenomenistica (come tutta la costellazione 
            della variegata Erkenntnistheorie neokantiana - da Riehl e 
            Simmel a Rickert fino al finzionalismo vaihingeriano di Del Negro[ix][9] - ha sempre voluto vedere, e come lo stesso 
            Nietzsche ha spesso fatto se non autofraintendendo se stesso offrendo 
            però almeno i presupposti per il fraintendimento del suo più proprio 
            pensiero[x][10]) tra eleatismo degli apparati categoriali 
            ed eraclitismo del divenire intensivamente ed estensivamente infinito 
            della vita (esterna ed interna); ciò di cui Nietzsche parla nel famoso 
            aforisma nr. 54 del primo libro de La gaia scienza (1882) è 
            piuttosto una più precisa, seppur non ancora definitiva, esplicitazione 
            concettuale di quanto la metafisica artistica de La nascita della 
            tragedia aveva espresso nei termini filosoficamente approssimativi 
            della diade estetica dionisiaco-apollineo e del loro infinito sfondo 
            'musicale'.
"La coscienza dell'apparenza.. 
            In che modo meraviglioso e nuovo e insieme tremendo ed ironico mi 
            sentivo posto con la mia conoscenza dinanzi all'esistenza tutta! Ho 
            scoperto per me che l'antica umanità e animalità, perfino tutto 
            il tempo dei primordi e l'intero passato di ogni essere sensibile, 
            continua dentro di me a meditare, a poetare, ad amare, ad odiare, 
            a trarre le sue conclusioni, - mi sono destato di colpo in mezzo a 
            questo sogno, ma solo per rendermi cosciente che appunto sto sognando 
            e che devo continuare a sognare se non voglio perire: allo 
            stesso modo in cui il sonnambulo deve continuare a sognare, per non 
            piombare a terra. Che cos'è ora, per me, 'apparenza'! In verità, non 
            l'opposto di una qualche sostanza: che cos'altro posso asserire di 
            una qualche sostanza, se non appunto i soli predicati della sua apparenza? 
            In verità, non una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad 
            una X sconosciuta e pur anche togliere! Apparenza è per me ciò stesso 
            che realizza e vive, che va tanto lontano nella sua autoderisione 
            da farmi sentire che qui tutto è apparenza e fuoco fatuo e danza di 
            spiriti e niente di più; che tra tutti questi sognatori anch'io, l''uomo 
            della conoscenza', danzo la mia danza; che l'uomo della conoscenza 
            è un mezzo per tirare in lungo la danza terrena ed in questo senso 
            fa parte dei soprintendenti alle feste dell'esistenza; e che la sublime 
            consequenzialità e concomitanza di tutte le conoscenze è forse, e 
            sarà il mezzo più alto per mantenere l'universalità delle 
            loro chimere di sogno e la generale comprensione reciproca di questi 
            sognatori e con ciò appunto la durata del sogno"[xi][11].
La coscienza dell'apparenza: la co-scienza 
            appunto che appare in me, cioè attraverso la mia conoscenza, una soggettività 
            che è simultaneamente altra-e-non-altra da me: essa è l'autentico 
            me, l'autentico sé di me stesso: essa pone me ed io pongo/scopro essa: 
            essa, cioè tutta la primordiale umanità ed animalità con tutto ciò 
            che queste stesse in parte sono, con tutto ciò cui queste stesse appartengono: 
            tutto il tempo dei primordi e l'intero passato di ogni essere sensibile, 
            che continuano ad accadere (cioè ad avere un passato, un presente 
            ed un futuro) nel sé soggettivo-umano troppo umano: essa è il sogno 
            primordiale (cui la stessa cosiddetta veglia appartiene) di cui ciò 
            che si è soliti chiamare la dimensione onirica potrebbe essere una 
            peculiare porta d'accesso, che però contrariamente a quanto si crede 
            non conduce sempre più all'interno, bensì che dall'interno porta 
            all'oltremodo esterno, al massimamente esterno: al più ampio cerchio 
            dei cerchi che continua ad apparire e a ri-petere se stesso girando 
            e rigirando su se stesso e perciò nel 'me stesso', a "tutto il tempo 
            dei primordi e l'intero passato di ogni essere sensibile", e precisamente 
            al suo principio stesso: il temporalizzarsi l'uno nell'altro del 
            passato del presente del futuro.
Circa tre anni dopo, ciò che qui sembra 
            ancora presentato solo più nel quadro di una arguta meditazione critico-culturale 
            e psicologico-moraleggiante, viene da Nietzsche ulteriormente e radicalmente 
            tematizzato (ormai lo Zarathustra è definitivamente in cammino). 
            Così in una breve sequenza di frammenti - la cui vertiginosità da 
            sola basterebbe a fissare la irripetibile importanza filosofica del 
            suo nome e del suo pensiero, anche laddove poi questo stesso pensiero 
            ha bisogno di venire scrollato dalle inevitabili incrostazioni che 
            lo ricoprono, e ciò anche attaverso il ricorso ad altri 'luoghi' in 
            cui il medesimo flusso di pensiero riemerge intensificato e rigenerato 
            (come è il caso, e lo vedremo tra poco, di alcuni aspetti della 'poesia' 
            di Rilke)/-, Nietzsche scriveva, contro la fatale concezione metafisica 
            tradizionale di una apparenza inautentica contrapposta ad un essere 
            autentico, di un inapparente 'essere' vero sottostante e contrapposto 
            alla mera apparenzialità dei 'fenomeni', che "ci sono parole nefaste 
            che sembrano esprimere una conoscenza, mentre in realtà impediscono 
            una conoscenza; una di queste è la parola 'apparenze' ['Erscheinungen' 
            ]. Quanta confusione procurino le 'apparenze' ['Erscheinungen'], 
            può essere svelato da queste proposizioni, che cito da vari filosofi 
            moderni ---"[xii][12], e sottolineava perciò come il contenuto 
            'retrostante' dei fenomeni non sia altro che l'apparenzialità dell'apparenza 
            stessa che rende possibile l'apparire della 'verità' stessa: "gegen 
            das Wort 'Erscheinungen'. / NB. Schein, 
            wie ich es verstehe, ist die wirkliche und einzige Realität der Dinge, 
            - das, dem alle vorhandenen Prädikate erst zukommen und welches verhältnismässig 
            am besten noch mit allen, also auch den entgegengesetzten Prädikaten 
            zu bezeichnen ist. Mit dem Worte ist aber Nichts weiter ausgedrückt, 
            als seine Unzugänglichkeit für logischen Prozeduren und Distinktionen: 
            also 'Schein' im Verhältniss zur 'logischen Wahrheit' - welche aber 
            selber nur an einer imaginären Welt möglich ist. Ich setze also nicht 
            'Schein' in Gegensatz zur 'Realität', sondern nehme umgekehrt Schein 
            als die Realität, welche sich der Verwandlung in eine imaginative 
            'Wahrheitswelt' widersetzt. Ein bestimmter Name für diese Realität 
            wäre 'der Wille zur Macht', nämlich von Innen her bezeichnet und nicht 
            von seiner unfaßbaren flüssigen Protheus-Natur aus"[xiii][13].
Solo per il pensiero umano, troppo umano, 
            solo per ciò che muove necessariamente dall'interno verso l'esterno 
            e per cui l'esterno è sempre dato come un che di interno e a partire 
            dall'interno e dunque come l'esterno di un interno, la realtà arcontica 
            dello Schein  può venire solo "designata dall'interno" e cioè 
            appunto come "volontà di potenza", intesa come il supremo potenziamento 
            della volontà per uscire fuori da se stessa, per pervenire al fondamento 
            dell'interiorità di se stessa, all'esterno assoluto di sé: a quella 
            sua inafferrabile fluida natura proteiforme: a quel sogno primordiale 
            che avvolge di sé e circonda col suo più ampio giro precedendoli ogni 
            contrapposizione di interno ed esterno, alto e basso, superficialità 
            e profondità, essere e apparenza, soggetto e oggetto, natura e spirito, 
            etc. Proprio perciò il "Wille zur Macht 
            ist das letzte Factum, zu dem wir hinunterkommen"[xiv][14].
Ma se si prescinde da quell'interno/esterno 
            per procedere - attraverso la massima 'esasperazione' dell'interno, 
            attraverso la discesa agli inferi, ai fondamenti abissali - fuori 
            verso quell'esterno assoluto, come è possibile ostendere concettualmente 
            questo orizzonte apparenziale intenzionato come fluida natura proteiforme?
Nietzsche 
            era talmente consapevole di questo problema di 'metodo' da poter acutamente 
            osservare: "Das müßte etwas sein, nicht Subjekt, nicht Objekt, nicht 
            Kraft, nicht Stoff, nicht Geist, nicht Seele: - aber man wird mir 
            sagen, etwas dergleichen müsse einem Hirngespinnste zum Verwechseln 
            ähnlich sehn? Das glaube ich selber: und schlimm, wenn es das nicht 
            thäte! Freilich: es muß auch allem Andern, was es giebt und geben 
            könnte, und nicht nur dem Hirngespinnste zum Verwechseln ähnlich sein! 
            Es muß den großen Familienzug haben, an dem sich Alles mit ihm verwandt 
            wiedererkennt --"[xv][15].
Con ciò, però, Nietzsche ha già anche 
            dato la risposta: questa è il tempo che 'apparenta' tutto: l'interno 
            e l'esterno etc. etc. L'autoapparire del tempo-Schein  che 
            domina anche l'epocalità dell'essere e le epoche dell'essere, 'è' 
            esso il fondamento dell'autoappropriazione e della autodisappropriazione 
            dell''essere' in quanto 'proprio' di sé stesso. Questo è 'propriamente' 
            il fondamento disumano dell'umano: ciò che "maltrattava"[xvi][16] Nietzsche fin nelle radici del suo più 
            proprio essere e che egli disperava perciò di poter comunicare mediante 
            una concettualizzazione filosofica tradizionale, giacché "zwischen 
            dem Ähnlichsten gerade lügt der Schein am schönsten; denn die kleinste 
            Kluft ist am schwersten zu überbrücken"[xvii][17]
"Maltrattato": anche perché Nietzsche, 
            completamente invaso  dal pensamento di quel pensiero capitale, 
            da quel "Gipfel der Betrachtung" - tanto abissalmente alto da dare 
            le vertigini: esso stesso nella sua propria verticalità una vertiginosa 
            vertigine - non è in grado di 'concettualizzarlo' e 'definirlo' adeguatamente, 
            cioè nella sua interezza. E perciò Nietzsche ricorre alla 'poesia', 
            cerca cioè di 'cantarlo'. Ma il suo 'canto' non è in genere adeguato 
            alla vertiginosa altitudine di quel pensiero abissale la cui abissalità 
            è tale perché la superficialità (e la frivolità) appartiene all'essenza 
            di quel pensiero stesso. Nietzsche rincorre la 'poesia' (lo 
            Zarathustra, per es., o i Ditirambi di Dioniso etc.), 
            ma il suo 'canto' (salvo rarissime eccezioni: per es. la famosa Sils 
            Maria[xviii][18]) nel complesso fallisce[xix][19], come fallisce nella 'prosa' la concettualizzazione 
            di quell'Ur-pensiero: il puro, tautologico, fuori-di-sé dello 
            Schein  in quanto temporalizzarsi del tempo.
In tal senso, si può affermare - facendo 
            comunque attenzione a non restare intrappolati nella tradizionale 
            contrapposizione e/o giustapposizione di filosofia e poesia (tipo 
            quella che sta alle origini della prima recezione del Nietzsche artista-poeta 
            e pensatore, come suonava il sottotitolo della gloriosa monografia 
            del neokantiano A. Riehl[xx][20]) - che Rilke (in alcuni aspetti della 
            cui 'poesia', come ho anticipato, il medesimo flusso di pensiero che 
            attraversa Nietzsche riemerge intensificato e rigenerato), se fallisce 
            nel 'pensiero' non fallisce nel 'canto', nel suo  proprio canto 
            poetico che è già come un nuovo pensiero (quel pensiero-balenante 
            che su di un altro binario - quello 'filosofico' - anche Nietzsche 
            prefigura: attraverso la metafisica, ovvero l'antimetafisica, dello 
            Schein). 
La caratteristica fondamentale di questo 
            pensiero è la caratteristica fondamentale dello Schein  stesso: 
            la sua propria transitorietà e fugacità; ciò implica propriamente 
            la sua propria immemorialità, ma questa è propria innanzitutto 
            dell'animalità dell'animale; una sua formulazione estrema (ma 
            tenendo conto che questo pensiero, appunto in quanto puro fuori-di-sé, 
            è  l'antiestremo di ogni estremizzazione dialettica) potrebbe essere: 
            la irripetibilità del suo eterno ritornare e l'eterno ritornare della 
            sua propria irripetibilità. Con ciò è espressa la uniduplicità propria 
            dello Schein, che è la vita stessa, e questa, innanzitutto, 
            è l'animalità  degli animali.
Ma proprio Heidegger, malgrado il suo 
            puntuale rilevare in Nietzsche la rimandatività ed identificazione 
            di animalità ed eterno ritorno dell'eguale, proprio Heidegger, 
            attraverso questa tattico sfioramento del problema filosofico-primordiale 
            che i "Zarathustras Tiere"[xxi][21] in sé rappresentano, elude strategicamente 
            il problema stesso: precisamente come avviene per la questione dello 
            Schein.  Anche in ciò animalità  e Schein, girando 
            ogni volta in circolo concentricamente (proprio come fanno l'aquila 
            ed il serpente di Zarathustra) su se stessi, si rimandano a vicenda.
Ma ogni volta è come se Heidegger si ritraesse 
            atterrito da ciò a cui lo Schein , attraverso la sua propria 
            intima compenetrazione di animalità  e temporalità - esso stesso 
            questa 'commettitura' primordiale - conduce. Se solo si sapesse che 
            cosa questi termini propriamente significano, si potrebbe semplicemente 
            dire: verso il fondamento 'disumano' dell'umano. Ciò implica che si 
            parli anche della 'animalità' e del 'tempo', ma il doppio volume 
            heideggeriano su Nietzsche  uscito solo nel 1961 non  fa trapelare 
            gran che di questa esigenza che pure l'accompagna come un'ombra oltre 
            la quale è impossibile saltare.
Ma proprio riandando a ritroso a partire 
            dal doppio volume su Nietzsche  quest'ombra si rende invece 
            pienamente visibile e comprensibile (nei limiti in cui un'ombra può 
            esserlo): e questa è la intima vicinanza negli Holzwege[xxii][22] heideggeriani, pubblicati dieci anni prima, 
            del lungo saggio su Nietzsche e di quello altrettanto lungo su Rilke; 
            non a caso l'un saggio segue l'altro[xxiii][23]: come a dire che la poesia di Rilke è 
            impensabile senza presupporre Nietzsche, epperò che il pensiero di 
            Nietzsche è cieco ed incompiuto senza gli essenziali presagi d'essere 
            che Rilke canta e rappresenta e che solo un pensiero-balenante, un 
            pensiero che procede per balenii, qual è proprio quello della cosiddetta 
            'poesia', allorquando essa afferra sovranamente se stessa, può mettere 
            in opera.
Qui però non entrerò direttamente né nelle 
            questioni della tarda filosofia heideggeriana, del suo peculiare 
            linguaggio e dei suoi problematici binomi: pensiero e poesia, pensiero 
            poetante e poesia pensante, né nelle questioni della poesia di Rilke 
            in quanto tale, della posizione che occupano in essa le Elegie 
            Duinesi , delle interne stratificazioni nella lunga composizione 
            di queste ultime e della loro connessione con altri coevi cicli poetici 
            rilkiani.
Mi interessa piuttosto far vedere, attraverso 
            l'eco reiterata del pensiero di Nietzsche in alcuni picchi d'eccellenza 
            della poesia di Rilke, davanti a cosa il pensiero di Heidegger (il 
            quale proprio questa ispirazione metafisica nietzscheana della poesia 
            di Rilke riconosce e sottolinea[xxiv][24]) si ritrae atterrito, mettendo in moto 
            tutta una strategia di difesa e di aggiramento. E ciò è già ben visibile 
            nel tanto prudente quanto esatto giudizio di Heidegger circa i limiti 
            della comprensione e dell'avvicinamento critico delle Elegie di 
            Duino  e dei Sonetti ad Orfeo[xxv][25]. D'altra parte, però, occorre anche sottolineare 
            come proprio l'estrema stratificazione di ispirazioni e di suggestioni 
            presente nei due maggiori cicli poetici rilkiani renda necessario, 
            per seguire propriamente l'importo metafisico nietzscheano nella poesia 
            di Rilke, trascegliere "alcune parole fondamentali [Grundworte] 
            dell'autentica [gültige] poesia di Rilke"[xxvi][26] e dunque fare ricorso anche a versi esterni 
            a quei due cicli poetici principali.
Utilizzerò perciò alcuni passi delle Elegie 
            Duinesi come 'materiali' (dunque senza alcuna preoccupazione di 
            fedele e/o puntuale commento sistematico[xxvii][27], e ciò proprio in quanto la pura e sovrana 
            autostensione peculiare della poesia per eccellenza in generale, 
            e di alcuni versi delle Elegie Duinesi  in particolare, sembra 
            possedere in sé la capacità di non aver bisogno di un commento che 
            la riconduca logicamente ad altro: in quanto sono i versi che, reiterati 
            nella loro lettura, rendono propriamente intelligibili le parole del 
            commentario), o meglio come autentico contro-canto ed esplicitazione 
            in quanto (laddove non ricade nelle sue infelici formulazioni esoterico-sapienziali 
            che costituiscono un secondo strato innestato sul nucleo originale 
            delle Elegie Duinesi) in alcuni di questi versi Rilke canta 
            il Dionisiaco nietzscheano con una rigorosità concettuale inattinta 
            dallo stesso Nietzsche (che spesso è abbastanza evasivo e rinunciatario 
            se non anche addirittura 'impreciso' a concettualizzare il Dionisiaco: 
            in effetti però ciò è connesso alla questione dello Schein 
            che non permette più alcuna determinazione logica bensì solo una ostensione 
            'estetica', ekstatica, per mezzo della 'logica' propria della poesia 
            autenticamente filosofico-metafisica[xxviii][28]), mettendo in connessione con insuperata 
            essenzialità propria solo della poesia il Dionisiaco, l'Animalità 
            e la Temporalità del Tempo ed il loro reciproco autoapparire.
Anzi si può dire che come la Nascita 
            della Tragedia  di Nietzsche è un vero e proprio trattato di metafisica 
            dell'apparenza - che costruisce curvando nel proprio senso materiali 
            schopenhaueriani e wagneriani  -, cosa che la filologia classica ufficiale 
            coeva fece giustamente notare stroncandola scientificamente, così 
            le Elegie Duinesi di Rilke costituiscono per alcuni tratti 
            l'essenzializzazione di quella metafisica dell'apparenza. In entrambi 
            i casi è questione della delimitazione apollinea nell'essere (ousìa) 
            prodotta dal dolore dionisiaco del divenire (dynamis/energheia),  
            della delimitazione apollinea nell'essere che è apparenza, ma quest'ultima 
            altro non è che il precipitato del movimento di apparizione dell'illimitato 
            che è il principio dinamico di produzione in sé, ma ciò è proprio 
            lo Schein (che è il monstrum  per eccellenza: ciò che 
            appare in sé, cioè fuori-di-sé, massimamente - ed insieme, poiché 
            è il principio stesso della vita e dunque esso stesso massimamente 
            vivente, è l'animale primordiale, il minotauro), cioè il temporalizzarsi 
            del tempo: il puro fuori-di-sé (proprio di ciascuna delle sue ekstasi) 
            nelle sue condensazioni (le varie singole esistenze). Come si vedrà 
            più avanti, Rilke impiegherà formulazioni poeticamente più confacenti 
            alla complicata semplicità propria della 'cosa' da ostendere.
La conoscenza che Rilke aveva di Nietzsche 
            e degli aspetti essenziali del suo pensiero, segnatamente quelli connessi 
            con la metafisica artistica de La nascita della tragedia, gli 
            fu certamente mediata anche da Lou von Salomé. Com'è noto, i due 
            si conobbero nel 1897 (data di inizio della loro intensa relazione 
            sentimentale ed intellettuale). La più anziana Lou aveva pubblicato 
            già nel 1894 la sua pionieristica ma in più punti acuta ricostruzione 
            del pensiero di Nietzsche[xxix][29] in cui, a suo modo, metteva in risalto 
            la centralità della questione della temporalità e la sua intima connessione 
            con la 'follia' mistica: "Questa tendenza verso l'elemento ascetico 
            e mistico, che, proprio nella lotta contro di essi, si palesa con 
            forza come il tratto segreto della filosofia di Nietzsche [...]. La 
            dottrina nietzscheana dell'eterno ritorno non è mai stata messa in 
            rilievo e apprezzata a sufficienza, sebbene in certa misura essa costituisca 
            sia le fondamenta sia il coronamento dell'edificio concettuale di 
            Nietzsche, e sia stata l'idea da cui egli ha preso le mosse nella 
            concezione della sua filosofia dell'avvenire, così come quella con 
            cui la conclude"[xxx][30]. E forse fu proprio anche questo testo 
            della vom Salomé[xxxi][31] che condeterminò all'epoca la altrettanto 
            pionieristica quanto disordinata scelta editoriale di Fritz Kögel 
            di mettere in risalto il pensiero di Nietzsche fondamentalmente come 
            pensiero del temporalizzarsi del tempo e cioè come pensiero dell'eterno 
            ritorno dell'eguale[xxxii][32].
Non è un caso quindi se quel che rimane 
            dei frammentari appunti di lettura rilkiani della seconda edizione 
            (1886) de La nascita della tragedia di Nietzsche fu trovato 
            proprio tra le carte private di Lou. Queste annotazioni - diciotto 
            fogli manoscritti privi di titolo -, risalenti probabilmente al marzo 
            1900 (periodo in cui Rilke abitava presso Lou Andreas-Salomé nella 
            villa Waldfrieden di Berlino-Schmargendorf) furono pubblicate solo 
            nel 1966, come Marginalien zu Friedrich Nietzsche "Die Geburt der 
            Tragödie", nel quadro dell'edizione delle opere complete di Rilke[xxxiii][33].
Come ho già detto prima, non mi interessa 
            qui entrare nel merito di queste annotazioni per valutare nel dettaglio 
            la loro maggiore o minore capacità di penetrazione e corrispondenza 
            estetico-filosofica al classico testo nietzscheano in quanto tale 
            (su ciò cfr., per es., il classico contributo di F. Jesi[xxxiv][34], ma intanto la letteratura critica sull'argomento 
            si è ovviamente di parecchio arricchita). Qui esse vengono richiamate 
            solo per documentare la presenza altresì di un filo in qualche modo 
            diretto tra Rilke e Nietzsche, casualmente o meno mediato anche dalla 
            von Salomé. Anzi, il dato di fatto fondamentale di queste note rilkiane 
            è di muovere già ad una essenzializzazione della metafisica artistica 
            nietzscheana (quale d'altra parte aveva iniziato a procurare Nietzsche 
            stesso, come quest'ultimo ricorda nel suo Tentativo di autocritica 
            apposto come introduzione alla seconda edizione,1886, de La nascita 
            della tragedia[xxxv][35], cioè proprio l'edizione che Rilke aveva 
            tenuto presente), cioè ad una arconticizzazione di essa, della metafisica 
            dell'artista primordiale, e attraverso di essa del pensiero di Nietzsche 
            in quanto tale riconducendolo al suo principium individuationis 
            che è, insieme, il principio di tutti i principi; nei termini di 
            queste note rilkiane: alla "causa della Musica".
"Es ist 
            auffallend, daß man für 'Musik' in allen erwähnten Wirkungen immer 
            jenes Andere setzen kann, das nicht Musik ist, sondern, 
            welches nur durch Musik am reinsten ausgedrückt wird. Der Lyriker 
            bedarf ja nicht  der Musik, um zu schaffen, sondern 
            nur jenes rythmischen Gefühles, das schon nicht mehr des Gedichtes 
            bedürfte, wenn es sich erst in Musik ausspräche. Und sollte mit Musik 
            nicht überhaupt jene erst dunkle Ursache der Musik gemeint 
            sein und somit die Ursache aller Kunst? Freie bewegte Kraft, Überfluß 
            Gottes? Auch Malerei und Bildhauerei hat nur den Sinn, jene 'Musik' 
            zu interpretieren, an Bildern zu verbrauchen. Und dann wäre etwa die 
            Musik schon der Verrath jener Rythmen, die erste Form sie anzuwenden, 
            noch nicht an den Dingen der Welt, sondern an den Gefühlen, an uns. 
            Daran schlösse sich die Lyrik an, die uns leise mit der Welt verknüpft, 
            indem sie von unseren Gefühlen spricht als von Dingen der Welt und 
            aus der Lyrik entwickelte sich auf dem Umweg über die plastischen 
            Künste, die mit Weltdingen bereits symbolisch verfahren, das Drama, 
            die bildhafteste und darum vergänglichste Interpretation, der tiefverborgenen 
            Rythmen, die indessen die Absicht hat, in den Schauenden jene erste 
            primäre Ursache der Kunst zu erwecken, indem sie die Individualität 
            in den einzelnen Zuschauern zerstört, aus hunderten eine Einheit schafft, 
            d. h. ein Instrumentum für jene dionysischen Geräusche des Hintergrunds. 
            Und also schließt sich hier der Kreis. Aus der gewaltsam durch den 
            Rausch des Schauens vereinten Menge löst sich ein Einzelner mit dunkler 
            Kraft los, isoliert seine Gestalt und vergeudet in Flötentönen den 
            Gott, der die erschütterte Menge erfüllt"[xxxvi][36].
Ed in un 
            altro passo Rilke annota: "Das Ursprüngliche ist das Wellenschlagen 
            des Unbegrenzten und sein erster vollkommenster Ausdruck: Musik. 
            Fast mit der ganzen Breite spricht sich der bewegte Hintergrund in 
            der Musik aus, - während in der letzten Anwendung, im Drama, in den 
            schmalen Gestalten nur ein kleiner Theil jenes Hintergrundes Raum 
            hat, der allerdings so wirkt, daß aus den Zuschauern wieder 
            ein verhältnismäßig Unbegrenztes, - also ein momentaner 
            Schauplatz jenes ursprünglichen Wellenschlages entsteht"[xxxvii][37].
Attraverso la messa in rilievo di questo 
            singolare pensiero della "causa della musica", cioè di ciò 
            che 'è' essendo tutto ed il contrario di tutto,  dunque anche della 
            musica strettamente intesa così come dell'apparire di tutte le altre 
            arti, rispetto alle quali l'inapparente 'musica' serba però una primazia 
            che la rende 'causa', innanzitutto di 'se stessa', cioè 'causa della 
            musica' - per cui essa è in sé l'inapparente apparire del puro fuori-di-sé 
            - e attraverso ciò l'orizzonte autoapparenziale di qualsiasi possibilità 
            dell'apparire e di qualsiasi apparizione concreta, Rilke si procura 
            la matrice concettuale (che pure subirà non poche variazioni terminologiche, 
            come si vede già dall'ultimo passo appena citato: ma più precisamente 
            si tratta di estensioni e vibrazioni concentriche provenienti da un 
            medesimo 'diapason') per procedere alla arconticizzazione della metafisica 
            nietzscheana quale avverrà in particolare nelle Elegie Duinesi 
            .
E segnatamente in alcune parti di esse: 
            anche in Rilke infatti non può non farsi sentire l'insostenibile tensione 
            dell'intenzionalità continua e irriducibile del principio dei principi, 
            della scaturigine delle scaturigini; come per Nietzsche prima, e poi, 
            più tardi, anche per Heidegger, anche se in modi radicalmente diversi, 
            lo sforzo estremo di intenzionare e concettualizzare il gran principio 
            dei principi non può non risultare esso stesso storico, individuale, 
            e perciò votato necessariamente al naufragio, in se stesso rovinante 
            nel proprio opposto, nella perdita di se stesso, nell'oblìo del raggiungimento 
            totale di sé, nel venire sommerso nella deiezione della 'quotidianità'; 
            a ciò cerca di far fronte appunto la tematizzazione - che è a disposizione 
            del talento proprio del genio poetico e solo raramente del filosofo 
            che si atteggia (spesso solo goffamente se non pateticamente) a poeta 
            - dell'apparenzialità dell'ossimoro puro, in cui è ricompreso lo stesso 
            'naufragium feci, bene navigavi', cui appartengono anche ed innanzitutto 
            i versi dell'epigrafe tombale rilkiana della "rosa, pura contraddizione, 
            piacere/ di essere il sonno di nessuno sotto tante/ palpebre"[xxxviii][38], il che significa appunto intenzionare 
            e concettualizzare la supremazia dell'apparire dell'apparenza, del 
            temporalizzarsi del tempo, del fondo animale del minotauro, della 
            curvatura del divenire, della "causa della musica", etc. 
La compiuta 'esasperazione' della soggettività, 
            l'attingimento della sua propria "natura originaria", della sua propria 
            "essenza astorica", di cui parlava Dilthey a proposito di Nietzsche, 
            è proprio ciò che viene rappresentato da Rilke attraverso la figura 
            dell' "angelo": il potente 'rovescio' dell'uomo: perciò questo assoluto 
            'rovescio' è/appare 'astorico': il fondamento della storicità storico-umana 
            appare come 'astorico', poiché esso è l'ossimoro puro proprio dell'essenza 
            del tempo, cioè l'apparire di se stesso come autentico non-se-stesso: 
            e proprio in questa sua autenticità, in questo suo apparire-ed-essere 
            propriamente se stesso: inautentico, irragiungibile, apparente, velocissimo, 
            lentissimo, lunghissimo, brevissimo, aurorale, inaugurale, immobile, 
            improvviso etc.; ma tutte queste determinazioni sono tali di come 
            'esso' appare a noi dall'interno, appunto cioè come determinazioni 
            temporali, ma non in sé, cioè nel suo proprio autoapparire, e perciò, 
            come direbbe Nietzsche, non nella 'sua' inafferrabile proteiformità: 
            giacché pure questo voler afferrare è già esso stesso l'autoapparire, 
            l'autoapparirsi, del tempo, il suo proprio temporalizzarsi: il tempo 
            che vuole afferrare il tempo: "Ciò dovrebbe essere qualcosa, non soggetto, 
            non oggetto, non forza, non materia, non spirito, non anima - ma 
            mi si dirà che qualcosa di simile somiglia a un'allucinazione, fino 
            a confondersi con essa? E' quello che credo io stesso: e guai se così 
            non fosse! Certo, dovrà somigliare, fino a confondersi con essa, 
            anche a ogni altra cosa che esiste e può esistere, e non solo all'allucinazione! 
            Dovrà avere una grande caratteristica comune, dalla quale tutto si 
            riconosca apparentato ad esso"[xxxix][39].)
Si può dire, perciò, che questo è il medesimo 
            tema metafisico delle Elegie Duinesi[xl][40], pur se esso stesso giammai nella piena 
            e totale disponibilità del poeta, che spesso lo perde, lo smarrisce, 
            scambiandolo per altro e con altro, e che perciò lo può solo attendere: 
            in quanto il suo proprio apparire (quello della 'cosa' stessa), il 
            suo intimo automovimento, è quello dell'apparire dell'apparenza pura: 
            l'Angelo, che però non appare mai del tutto, giacché ciò, l'apparire 
            della sua pura autoapparenzialità, significherebbe l'annientamento 
            di ogni apparenza finita, perciò esso è tremendo: "e se anche un Angelo 
            a un tratto/ mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte/ 
            mi farebbe morire"[xli][41]; il trattenersi della pura autoapparenzialità 
            dall'apparire totalmente crea come una distanza tra sé ed il proprio 
            completo apparire: il rilucere di questa sospensione è il 'bello': 
            "Perché il bello non è che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo 
            reggere ancora,/lo ammiriamo anche tanto, perch'esso calmo, sdegna/ 
            distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo"[xlii][42]. Gli Angeli sono essi stessi una dimensione 
            primordiale, la scaturigine di ogni apparire in cui le direzioni 
            temporali si equivalgono, si sovrappongono, si invertono e si cancellano; 
            essa è come la vibrazione di un'onda musicale che si innalza oltre 
            con il proprio esser-stata  o, più intensamente, è come una corrente 
            rifluente tra vortici contrapposti che pur però appartengono ad essa: 
            "Montava/ un'onda dal passato"[xliii][43]; "Ma i vivi errano, tutti,/ ché troppo 
            netto distinguono./ Si dice che gli Angeli, spesso, non sanno/ se 
            vanno tra i vivi o tra i morti. L'eterna corrente/ sempre trascina 
            con sé per i due regni ogni età,/ e in entrambi la voce più forte 
            è la sua"[xliv][44].
Anche gli Angeli sono e non sono questa 
            stessa corrente centripeta e simultaneamente centrifuga.
"Gli Angeli sono tutti tremendi"[xlv][45]. "Si movesse ora l'Arcangelo, il pericoloso, 
            si movesse da dietro le stelle/ di un passo soltanto, giù verso di 
            noi: con la violenza/ del battito, ci ucciderebbe il nostro proprio 
            cuore. Chi siete voi?/ Voi, primi perfetti, viziati della Creazione,/ 
            profili di vette, creste di tutto il Creato/ rosse d'aurora, - polline 
            della divinità in fiore,/ articolazioni di luce, anditi, scale, troni, 
            spazi d'essenza, scudi di delizia, tumulti/ di sentimento in tempeste 
            d'entusiasmo, e a un tratto, uno per uno,/ specchi : la bellezza 
            che da voi defluisce/ la riattingete nei vostri volti"[xlvi][46]
Ogni Angelo è la concentrazione delle 
            diverse direzioni del tempo e delle sue temporalizzazioni (gli Angeli, 
            come il tempo, sono simultaneamente singolari-e-plurali: essi sono 
            il principio del tempo, cioè della temporalizzazione dei tempi). 
            Perciò il singolare di Angeli è: Arcangelo, cioè il loro principio 
            arcontico. Di fronte ad essi - che sono la totalità estensiva ed intensiva 
            delle eternità passate, presenti e future, sempre di nuovo di volta 
            in volta ritornanti in se stesse -, e proprio da essi, in quanto tali 
            culmini della concentrazione del temporalizzarsi dei tempi, reso possibile, 
            sta il divenire storico umano (di qui il poter-essere-per-una-totalità 
            proprio di quest'ultimo, il suo poter-essere sempre oltre se stesso, 
            il suo costante passare per essere sempre di nuovo in vista di se 
            stesso, e dunque in esso, nella sua consustanziale caducità e rovinanza, 
            anche quello strano ed inspiegabile - e in fondo falso in quanto 
            malcompreso - presagio di definitiva eternità quale sembra affiorare 
            massimamente nel forte sentimento d'amore che promette ogni volta 
            di legare gli amanti l'uno all'altro per sempre): Dai superni agli 
            inferi, l'altissimo e l'infimo si confondono l'uno nell'altro, chiudendo 
            un medesimo cerchio:
"Ma per noi, sentire è svanire; ah, noi/ 
            ci esaliamo, sfumiamo; di brace in brace/ buttiamo odore più lieve. 
            Ecco, qualcuno ci dice:/ sí, tu mi entri nel sangue, questa stanza, 
            la primavera,/ s'empie di te... Che giova, egli non può trattenerci,/ 
            noi svaniamo in lui e intorno a lui. E la bellezza/ oh, chi la trattiene? 
            Sul volto la sembianza/ sorge e spare senza posa. Come rugiada dall'erba 
            novella/ quel che è nostro svapora da noi, come il calore da/ vivanda 
            calda. Oh, sorriso, dove mai? Oh alzar d'occhi:/ nuova, calda, fuggitiva 
            onda del cuore -/ ahimè: eppure siamo questo, noi. Avrà forse 
            sapore/ di noi il cosmico spazio in cui ci dissolviamo. Sarà vero 
            che gli Angeli/ attingono soltanto dal loro, emanato da loro,/ o 
            c'è talvolta, come per sbaglio, un po'/ d'essere nostro? Ai loro tratti/ 
            siam misti soltanto così, come quel che di vago ch'è nel volto/ delle 
            gestanti? Gli Angeli non se ne accorgono nel vortice/ del loro ritorno 
            a se stessi (Come potrebbero accorgersene)"[xlvii][47].
L'io e il tu, e massimamente quello degli 
            amanti, sono semplicemente la loro propria rispettiva individuazione 
            oppure attraverso di essi  appare e agisce quello che è il principio 
            e l'orizzonte di possibilità di ogni individuazione e relazione e 
            di ogni promessa di (eterno) amore? Chi è veramente l'altro? E chi 
            è veramente il se stesso? E chi abbraccia/comprende/afferra chi?  
"Amanti, a voi, placati l'uno nell'altro,/ 
            io domando di noi. Voi vi avvincete. Ne siete sicuri?/ [...] Lo so,/ 
            vi toccate beati così, perché la carezza trattiene,/ perché non svanisce 
            quel punto che, teneri,/ coprite; perché in quel tocco avvertite/ 
            il permanare puro. E l'abbraccio, per voi, è una promessa/ quasi 
            d'eternità. Eppure, [...]"[xlviii][48].
Al di là delle dottrine e degli esoterismi 
            che Rilke pure mette in campo per produrre la sua costruzione poetica, 
            ciò che qui occorre mettere in rilievo è l'intreccio tra l'autoapparenzialità 
            pura degli Angeli, la bellezza: cioè il loro trattenersi dall'apparire 
            completamente al cospetto delle semplici apparenze finite, e il rimbombare 
            in queste ultime (siano esse apparenze non-più o non-ancora apparenti) 
            dello scroscio assordante del fluire della corrente concentrica dei 
            tempi del tempo con cui gli stessi Angeli si identificano. Ma un altro 
            aspetto occorre ancora rilevare, e cioè il fatto che questa corrente 
            immemorabile, il cui autoapparire attraversa e ricomprende in sé 
            le singole apparenze individuali (per es. gli amanti) trascinandole 
            con sé, non solo si identifica con gli Angeli, ma questi stessi e 
            quella stessa esprimono una loro ulteriore fattezza come Animale primordiale: 
            come se Angelo e Animale fossero le due facce coincidenti del medesimo 
            cerchio concentrico della corrente primordiale dell'autoapparire del 
            tempo nel suo continuo rifluire (temporalizzarsi) in se stesso: questo 
            è allora l'Animale primordiale che scorre come tempo cosmico dei primordi 
            attraverso il presente, passato e futuro delle vite e dei corpi dei 
            singoli, già-nati o già-morti o non-ancora nati, che sempre obbediscono 
            - pur illudendosi del contrario, come tra gli amanti che credono di 
            stravedere l'uno per l'altro - ad esso in quanto attratti dal loro 
            atavico signore abissale, dalla loro linfa e matrice primigenia. Ciò 
            costituisce appunto l'ambito della "creaturalità".
Perciò: "Cantare l'amata è una cosa. Un'altra, 
            ahimè,/ quell'occulto, colpevole Dio-fiume del sangue"[xlix][49].
E' questo, il "Signore del piacere"[l][50], questo "Nettuno del sangue"[li][51] colui che, attraverso l'attrazione dell'amante 
            per l'amata,  propriamente "levava il capo divino [...]/ per chiamare 
            la notte a tumulto infinito"[lii][52]. E' perciò che lo "struggersi dell'innamorato/ 
            per il volto dell'amata", "lo sguardo che s'interna nel volto puro 
            di lei", "quello spasmo d'attesa, ch'è nell'arco delle sue sopraciglia"[liii][53], non gli viene dalla spirituale purezza 
            stellare dell'amore, né gli viene dall'apparire dell'innamorata, 
            né, infine e soprattutto, gli viene "da sua madre"[liv][54]. L'amata è solo l'occasione perché nell'amante 
            affiori quel "dio-fiume del sangue" che solo così, cioè particolarizzandosi 
            in figure limitate che esso insieme ama e distrugge, riesce ad autoapparirsi 
            ed insieme a distruggere e non distruggere se stesso. In tal senso 
            l'amata non riesce a richiamare e a trattenere del tutto nella limitazione 
            l'amante perché questi è e non è se stesso ma è trattenuto e voluto 
            da una volontà che sta al fondo della sua singolarità, il fondamento 
            universale individuale della sua singolarità.
"Credi davvero che l'abbia scosso così 
            il tuo apparire/ leggero [...]?/ Certo gli turbasti il cuore, ma turbe 
            più antiche/ si scaricarono in lui all'urto di quel tocco./ Richiamalo... 
            tu non puoi richiamarlo del tutto da oscura compagnia"[lv][55].
Ma ancora prima e più dell'amata, presso 
            la quale l'amante vuole scaturir fuori da quel dolore/piacere primordiale 
            che lo vuole, lo pretende e lo disintegra, cercare di uscir fuori 
            da esso per incominciare ad esistere, è la madre quella che fin dal 
            principio, fin da piccolo, gli ha dato un inizio, cioè individuazione, 
            esistenza nell'articolazione di passato-presente-futuro, difendendolo 
            dal "Caos ondeggiante"[lvi][56]. Ma anche la madre, come l'amata (che 
            è come un'ulteriore figura materna), non riesce a trattenere il figlio/l'amante 
            da quella regione occulta propria del dio-fiume del sangue, del signore 
            del piacere, del Nettuno del sangue, quella regione della vita prima 
            della vita cui egli propriamente appartiene e che costituisce la sua 
            autentica matrice primordiale precedente la stessa maternità della 
            propria madre. Quel regno delle madri dei tempi remotamente remoti 
            e remotamente futuri che si sollevano improvvisamente per temporalizzarsi, 
            per accadere, per autoapparire. Che interrompono l'ordine consueto, 
            non appena il sonno della notte si impossessa del giorno. Per farlo 
            ricominciare nuovamente dall'inizio. Come la silente crescita dell'intrico 
            vegetale ed animale.
"Madre, tu  lo facesti piccino, 
            sei tu che gli desti principio,/ per te era nuovo, tu chinavi ai suoi 
            occhi nuovi/ il mondo amichevole, e gli scansavi l'estraneo"[lvii][57]. "Così, rasserenato, nel suo letto,/ solvendo 
            la dolcezza della tua lieve figura/ sotto le palpebre assonnate nel 
            gusto del primo sonno - :/ pareva difeso... Ma dentro: 
            chi contrastava,/ chi frenava in lui i flutti dell'origine [Herkunft]?/ 
            Ah, non c'erano precauzioni quando dormiva: dormiva ma sognava, 
            ma febbricitava: e come ci si prestava!/ Lui, il nuovo, il timido, 
            com'era irretito/ dalle liane striscianti dell'intimo accadere:/ già 
            aggrovigliate in archetipi, in strozzante rigoglio,/ in forme dallo 
            slancio ferino. Come si abbandonava. Amava./ Amava il suo intimo, 
            il selvame del suo intimo,/ quell'originaria foresta ch'era in lui, 
            sulla cui muta rovina/ stava, verde luminoso, il suo cuore. Amava. 
            Quando lasciava il suo cuore, andava/ oltre le proprie radici, alla 
            potente scaturigine,/ dove la sua piccola nascita era già sopravvissuta./ 
            Amando affondava nel sangue più antico, nelle forre dov'era la paura 
            sazia ancora dei padri. E ogni/ orrore conosceva lui, ammiccava, 
            era come d'intesa./ Sí, l'orrido sorrideva..., di rado/ hai sorriso 
            così teneramente tu, mamma. E lui come faceva/ a non amarlo, se gli 
            sorrideva. Prima di te/ l'aveva amato, perché già quando lo 
            portavi,/ era sciolto nell'acqua che fa lieve il germoglio./ Vedi, 
            noi non amiamo come i fiori, attingendo/ da un'annata soltanto; a 
            noi, quando amiamo/ sale alle braccia un'immemorabile linfa. O fanciulla/ 
            è così: noi non amiamo in  noi, un essere solo, futuro, 
            ma/ l'immenso fermento; non un singolo figlio,/ ma i padri, che come 
            frane di monte/ posano al fondo nostro, ma l'arido greto/ di madri 
            d'un tempo -; ma tutto/ il muto paesaggio sotto il Destino/ nuvoloso 
            o limpido -; questo, fanciulla, era prima di te./ E tu che 
            ne sai, - tu suscitasti/ tempi remoti nell'innamorato. Quali mai 
            sentimenti/ eruppero da esseri scomparsi. [...]"[lviii][58].
Come si vede, qui il tempo come Animale 
            primordiale è insieme la fusione di diversi eppur medesimi orizzonti 
            'amniotici' che in analogia a quella che Rilke, nelle postille a Nietzsche, 
            aveva chiamato la "causa della musica" si potrebbero chiamare la 'causa 
            della madre' ovvero le matrici botaniche, vegetative, linfatiche, 
            animali, pulsionali della vita le quali nel sonno e nella notte e 
            nell'amore si impadroniscono di nuovo dell'individuo. Quella possente 
            scaturigine rispetto alla quale ogni nascita è solo piccola e solo 
            già sopravvissuta. Lo stesso accadere del presente è perciò solo l'occasione 
            d'innesco dell'avvento di un passato immemorabile la cui linfa inesausta 
            brama ancora il proprio compimento. Qui Rilke, proprio per sottolineare 
            il carattere disumano e pre-umano di questo fluido accadere primordiale, 
            lo chiama anche l'orrore e l'orrido. 
Insomma, si tratta di quell'ambito che 
            Rilke altrove ha anche, più genericamente, chiamato 'natura' e che 
            qui chiamerà, nella celebre ottava elegia, "l'aperto": "das Offene 
            ". Questo è tale per la "creatura". E questa (il termine designa 
            tutto ciò che appare in natura, senza alcun riferimento ad un 'creatore' 
            che non sia la 'natura' medesima[lix][59]), è innanzitutto l' "animale": "La creatura, 
            qualsiano gli occhi suoi, vede/ l'aperto. Soltanto gli occhi nostri 
            son/ come rigirati, posti tutt'intorno ad essa,/ trappole ad accerchiare 
            la sua libera uscita./ Quello che c'è  fuori, lo sappiamo soltanto/ 
            dal viso animale; perché noi, un tenero bambino/ già lo si volge, 
            lo si costringe a riguardare indietro e vedere/ figurazioni soltanto 
            e non l'aperto ch'è sì profondo/ nel volto delle bestie. Libero da 
            morte./ Questa  la vediamo noi soli; il libero animale/ ha 
            sempre il suo tramonto dietro a sé./ E dinanzi ha Iddio; e quando 
            va, va/ in eterno come vanno le fonti"[lx][60].
Questi versi rilkiani costituiscono una 
            essenzializzazione della metafisica di Nietzsche, ma essi procedono 
            con una ancora più forte sottolineatura della supremazia del più ampio 
            cerchio della 'natura' e della sua temporalità, della sua 'animalità', 
            sul cerchio inferiore della 'storia' umana. Per riprendere di nuovo 
            l'analogia con la rilkiana "causa della musica", si potrebbe dire 
            la 'causa della storia', o, più propriamente, la 'causa del tempo'. 
            E così infatti li ha letti Heidegger: come una minaccia metafisica 
            di fondazione della temporalità storico-esistenziale dell'esserci 
            a partire dalla temporalità in quanto Animale primordiale per il 
            quale non si dà 'essere' ma solo autoapparire dell'Aperto. Un sostituirsi 
            di quest'ultimo, in quanto Schein , alla "verità" dell' Essere 
            la quale sostiene anche il Tempo. Ma ciò, l'impatto di questi versi 
            su Heidegger, non è quasi più visibile nel saggio del '46, dove la 
            sua grande maestria interpretativa chiude piuttosto che aprire i conti 
            con la metafisica nietzscheano-rilkiana della primazia dell'autoapparenzialità 
            dell'Animale primordiale. L'effetto di questo impatto è invece ancora 
            parzialmente visibile nel corso universitario di quattro anni prima 
            in cui Heidegger aggira l'orrido ossimoro di "'animale' ed 'angelo'"[lxi][61] in cui la metafisica 'pagana' nietzscheano-rilkiana 
            riafferma la pura 'creaturalità' senza alcun 'creatore' od orizzonte 
            di possibilità (anche solo aletheiologico-ontologico) che non sia 
            l'autoapparenzialità stessa dello Schein , cioè della animalità  
            primordiale (il 'Dionisiaco'): "Denn das Offene, das Rilke meint, 
            ist nicht das Offene im Sinne des Unverborgenen. Rilke weiß und ahnt nichts von der alhqeia ;  er weiß 
            und ahnt nichts davon, so wenig wie Nietzsche"[lxii][62].
Perciò, 
            rispetto a questa "Deutung des Menschenwesens aus dem Tierwesen"[lxiii][63] 
            che attraverso Nietzsche costituisce "das durchgängige Thema der Dichtung"[lxiv][64], 
            cioè della poesia di Rilke[lxv][65], 
            Heidegger sottolinea come "der Geist der Schopenhauerschen Philosophie, 
            vermittelt durch Nietzsche und die psychoanalytischen Lehren, steht 
            hinter dieser Dichtung. Wenngleich die Metaphysik Nietzsches im Hinblick 
            auf die Lehre vom Willen zur Macht außerhalb der Rilkeschen Dichtung 
            bleibt, so waltet doch das eine entscheidende Gemeinsame, daß das 
            Wesen des Menschen aus dem Wesen des Tieres begriffen, hier 'gedichtet', 
            dort gedacht wird. Rein metaphysisch gesehen, d.h. im Hinblick auf 
            die Auslegung des Seienden als die rational-irrationale Wirklichkeit, 
            ist der Bereich der dichterischen Grunderfahrung Rilkes von dem der 
            denkenden Grundstellung Nietzsches in nichts unterschieden"[lxvi][66]. 
            Proprio per questo motivo, però, per salvare l'orizzonte aletheiologico 
            dell'Essere, l'apparire in quanto apparire nella verità dell'Essere, 
            occorre per Heidegger respingere l'equazione nietzscheano-rilkiana 
            di 'Schein-Dionisiaco-Offene-Animale-Angelo-Bellezza-Primordialità' 
            (ciò che O. Becker sintetizzerà nel termine "Dawesen " contrapponendolo 
            all'orizzonte storico-umano, troppo umano del Dasein  heideggeriano[lxvii][67]) facendo valere appunto che "zwischen 
            dem, was Rilke 'das Offene' nennt, und dem Offenen im Sinne der Unverborgenheit 
            des Seienden [cioè nel senso di Heidegger, A.G.] gähnt freilich eine 
            Kluft. Das in der alhqeia wesende 'Offene' läßt erst Seiendes 
            als ein Seiendes aufgehen und anwesen. Dies Offene sieht allein der 
            Mensch. [...] Das Tier dagegen sieht weder, noch erblickt es jemals 
            das Offene im Sinne der Unverborgenheit des Unverborgenen"[lxviii][68].
In tal modo Heidegger pretende di aver 
            ristabilito l'orizzonte di preminenza che nella metafisica 'animalizzante' 
            nietzscheano-rilkiana risultava ribaltato, capovolto e pervertito. 
            Nondimeno qui, malgrado il suo netto rifiuto di questa metafisica, 
            Heidegger mantiene ancora in qualche modo aperta la porta del dubbio 
            circa l'arduo problema di una adeguata determinazione filosofica 
            della dimensione 'senza-parola' del cosiddetto regno animale e vegetale, 
            ossia di quel dominio che Rilke aveva possentemente evocato nei suoi 
            versi paragonandolo ad una immane corrente 'panamniotica' che rifluisce 
            sempre di nuovo in se stessa e dall'ondeggiante intrico della quale 
            la stessa temporalizzazione propria della individualità storica scaturisce. 
            Heidegger vi si riferisce però chiamandolo semplicemente 
            "il vivente". "Doch mit dem Hinweis auf den Ausschluß des Tieres aus 
            dem Wesensbereich der Unverborgenheit beginnt erst das Rätsel uns 
            aufzugehen"[lxix][69]; 
            epperò secondo Heidegger proprio questo enigma rappresentato dal 
            vivente in sé stesso e nel suo non meno enigmatico passaggio alla 
            forma storico-umana la metafisica nietzscheano-rilkiana non riesce 
            a penetrare: "auch in Rilkes Dichtung die Wesensgrenze zwischen dem 
            Geheimnis des Lebendigen (Pflanze - Tier) und dem Geheimnis des Geschichtlichen, 
            d.h. dem Menschen, weder erfahren noch innegehalten wird"[lxx][70]. 
            Il giudizio di Heidegger risulta però non del tutto condivisibile.
Nelle Neue Gedichte (1907) di Rilke 
            è contenuta una poesia che è doppiamente archetipica: nel senso che 
            essa sta all'origine della svolta poetica di Rilke, ma anche, e soprattutto, 
            nel senso che essa evoca il centro propulsore di quella svolta stessa 
            - così come di qualsiasi altra possibile svolta e svolgimento e rivolgimento 
            etc. -, 'centro' al cui richiamo imperioso i versi rispondono ripetendone 
            la movenza. 
Forse non del tutto a caso la poesia è 
            intitolata Der Panther (1903): questo termine oltre a designare 
            l'animale costituisce, nel suo strano etimo,  l'archetipo trascendentale 
            dell'animale puro, perfetto (voll-endlich, si potrebbe dire 
            nella terminologia rickertiana, cioè finito-perfetto), eccellente, 
            massimo, la intensificazione dell'animalità stessa, appunto l'animale 
            di tutti gli animali: o panqhr.
"Sein Blick 
            ist vom Vorübergehen der Stäbe/ so müd geworden, daß er nichts mehr 
            hält./ Ihm ist, als ob es tausend Stäbe gäbe/ und hinter tausend 
            Stäben keine Welt.// Der weiche Gang geschmeidig starker Schritte,/ 
            der sich im allerkleinsten Kreise dreht,/ ist wie ein Tanz von Kraft 
            um eine Mitte,/ in der betäubt ein großer Wille steht.// Nur manchmal 
            schiebt der Vorhang der Pupille/ sich lautlos auf -. Dann geht ein 
            Bild hinein,/ geht durch der Glieder angespannte Stille -/ und hört 
            im Herzen auf zu sein"[lxxi][71].
In una lettera del 17 marzo 1926 (pochi 
            mesi prima della morte) Rilke, rispondendo ad una giovane lettrice 
            che gli aveva chiesto di conoscere più in dettaglio alcuni aspetti 
            della sua vita e della sua opera, così scriveva: "Effetto della grande 
            influenza di Rodin, che mi aiutò a superare una superficialità lirica 
            e un à peu près  a poco prezzo (derivante da un sentimento 
            vivamente commosso ma non maturo), impegnandomi a lavorare per qualche 
            tempo come un pittore o uno scultore davanti alla natura, con 
            l'inesorabile volontà di capire e di imitare. Il primo frutto di questo 
            severo e buon ammaestramento fu la poesia La pantera - nel 
            Jardin des Plantes a Parigi - che ne rivela l'origine"[lxxii][72]. 
L'origine che qui è rivelata - la Ur-animalità, 
            che si tratta di fissare, comprendere e afferrare (plasticamente, 
            figurativamente, sonoramente) nella sua suprema motilità - è ciò che 
            chiama la poesia rilkiana verso il proprio diventare se stessa, imponendole 
            di uscir fuori di sé e perciò di "superare una superficialità lirica 
            e un à peu près  a poco prezzo (derivante da un sentimento 
            vivamente commosso ma non maturo)":
Il punto 
            centrale di quei versi apparentemente solo più impressionisticamente 
            descrittivi è : "Der weiche Gang geschmeidig starker Schritte,/ der 
            sich im allerkleinsten Kreise dreht,/ ist wie ein Tanz von Kraft um 
            eine Mitte, / in der betäubt ein großer Wille steht"[lxxiii][73]. 
            Il molle ritmo di passi che flessuosi e forti girano in minima 
            circonferenza come una danza di forze intorno a un centro: ove stordito 
            un gran volere dorme.
In questi strani versi Rilke cerca di 
            descrivere una configurazione dell''animale primordiale', che in sé 
            è appunto un centro che gira e rigira su se stesso, intorno a se stesso 
            (la 'pantera' ma anche quel centro, come la 'rosa', inconsistente 
            ed invisibile intorno a cui essa gira e rigira, girando e rigirando 
            intorno a se stessa) contenendo in sé tutto l'autoapparire del temporalizzarsi 
            del tempo.
Ed è precisamente a questa dimensione 
            dello Schein  che si riferisce Nietzsche quando decide di raccontare 
            'come si diventa ciò che si è', mostrando il principium individuationis  
            di natura e cultura: laUr-individuazione del puro in-sé/fuori-di-sé: 
            il tempo-Schein, lo Schein-und-Zeit arcontico immemoriale; 
            immemoriale come l'animale-primordiale: lo Ur-individuo ricomprendente 
            in sé ogni uno ed ogni dualità, essendo 'prima' di 'uno' e 'due'. 
            Insomma, l'individuazione quale principio dello stesso principium 
            individuationis e dunque quale principio della stessa 'verità': 
            l'autoapparire dello Schein  che solo rende possibili natura 
            e storia e la loro distinzione.
 In Ecce homo , la 
            sua 'autobiografia', Nietzsche conia la più intensa formulazione del 
            proprio pensiero 'abissale', una formulazione tanto trasparente quanto 
            enigmatica (per la cui disarmante 'semplicità' forse solo la concettualità 
            sviluppata da O. Becker[lxxiv][74] è stata in grado finora di offrirci una 
            chiave se non di soluzione almeno di precomprensione):
"Das Glück 
            meines Daseins, seine Einzigkeit vielleicht, liegt in seinem Verhängniss: 
            ich bin, um es in Räthselform auszudrücken, als mein Vater bereits 
            gestorben, als meine Mutter lebe ich noch und werde alt. Diese doppelte 
            Herkunft, gleichsam aus der obersten und der untersten Sprosse an 
            der Leiter des Lebens, décadent zugleich und Anfang 
            - dies, wenn irgend etwas, erklärt jene Neutralität, jene Freiheit 
            von Partei im Verhältniss zum Gesammtprobleme des Lebens, die mich 
            vielleicht auszeichnet"[lxxv][75]
"La fatalità della mia esistenza ne ha 
            fatto la felicità, le ha dato, forse, il suo carattere unico: io, 
            parlando per enigmi, come mio padre sono già morto, come mia madre 
            vivo ancora ed invecchio. Questa doppia discendenza, come dire dal 
            più alto e dal più basso germoglio sulla scala della vita, décadent 
            e inizio al tempo stesso - questo solo, se mai, può spiegare 
            quella neutralità, quella libertà da qualunque partito di fronte al 
            problema generale della vita, che forse mi contraddistingue"[lxxvi][76].














