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Attraversare il teatro
scritture per Luigi Gozzi. (Parol 14, 1998)

1. Interpretare Gozzi

Questo è il quarto inizio. Non è facile scrivere su Luigi Gozzi per me che lavoro e vivo con lui da molti anni: 21

Il primo tentativo cominciava: "Consigli per un attore/ice che debba interpretare il personaggio di Luigi Gozzi (invece che l'Amleto, o Argante, o Zeno)". Seguivano lunghe didascalie per suggerire l'eleganza dei gesti distratti, il ritmo piano della voce, la quale deve anche praticare la puntualizzazione quasi fonematica delle parole o la dislalia, l'arruffamento, il pesticciamento dei suoni fino a mettere seriamente in difficoltà l'uditore e passare da toni gravi e precisi a una leggerezza divertita e svagata.Il secondo ritratto era una sequenza di citazioni dai suoi copioni, frasi quotidiane, brevi racconti che facessero gustare una delle qualità più gozziane: l'ironia.

Però senza vedere il lampo sghembo degli occhi di Luigi, l'imbarazzo camuffato da distacco o viceversa, i ritmi sorprendenti con cui piazza qua e là battute che lasciano interdetti gli interlocutori è difficile far precipitare un testo di Gozzi sulla pagina, occorre agirlo. La sua parola suppone sempre un'azione, un corpo d'attore.

Allora semplicemente da attrice racconterò come avvengono le prove con Luigi, con quali procedimenti dalla pagina esce l'azione teatrale, l'opera che lo spettatore vedrà compiuta.

Ovviamente ogni testo ha una sua storia teatrale diversa dalle altre, perciò io elencherò alcuni passaggi fondamentali comuni ai processi di formazione degli oltre 30 spettacoli (quasi tutti da testi suoi) che Gozzi ha messo in scena da quando io lavoro con lui (1969). Prima dell'inizio delle prove nessuno sa nulla del futuro testo, ancor meno del futuro spettacolo: questo significa che gli attori che lavoreranno per uno spettacolo di Gozzi, me compresa, danno la loro disponibilità qualunque sarà la loro parte, il numero delle battute e altre contabilità che in molte compagnie sono oggetto di contrattazione selvaggia.

Ma Luigi scrive quasi esclusivamente per gli attori che sa di avere a disposizione. Si crea perciò fìn dai primi contatti un rapporto di attesa reciproca. Il primo giorno di prove, quando viene consegnato il copione, ogni attore è curioso di sapere come l'autore lo ha pensato, immaginato. Ma l'autore, che si sta trasformando in regista, non scopre mai totalmente le sue carte o, come dice lui, "io metto lì delle domande, adesso sta agli attori rispondermi".

In pratica, molto raramente il testo è già completo, di solito mancano le ultime scene ma soprattutto ci sono molte battute non attribuite. Sta agli attori scegliere che cosa dire o non dire, costruire un proprio percorso all'interno del materiale drammaturgico. Durante le prime letture tutti possono dire tutto.

Immagine 1

Da Luigi vengono accuratamente evitati i discorsi sul personaggio: viene invece percorsa la sintassi, la formazione del senso, vengono composti i ritmi e soprattutto si fa attenzione alla continua riflessione sul tempo e al mutevole gioco di relazioni che si creano fra gli attori. Alla domanda "chi sono io?" si sostituisce abbastanza tranquillamente un continuo "chi sei tu per me, in questo momento?". A richieste come "ma io qui sono aggressiva o timorosa?" una tipica risposta gozziana è "tutte e due".

Quando si va in piedi (si comincia cioè ad agire in scena) Luigi fornisce di solito le geometrie di base: spostamenti, direzioni, stasi, entrate, uscite, velocità di passaggi, incroci o no di traiettorie. Non vengono mai fornite indicazioni sui gesti (a meno che non siano battute silenziose) perché, se il disegno complessivo dello spettacolo è chiaro, il corpo dell'attore (compresa la voce) ha già indicazioni sufficienti per dar forma alla propria presenza.

Certo non tutti gli attori possono rispondere alle domande di Gozzi: occorrono capacità d'astrazione immenso piacere al gioco, rapidità di cambiamenti emotivi, una passione curiosa verso il mescolamento continuo di colto e grossolano, raffinato e volgare, appassionato e perfido, occorre essere sinceri fìno al pericoloso e mentitori fìno alla faccia di bronzo più impenetrabile. Perché un altro tipico tratto gozziano è l'amore per fi paradosso e se non si capisce la complessità emotiva e concettuale di questa figura retorica non si potrà mai dire effìcacemente in scena una battuta come "Lei si fida molto delle parole. Lei diffida troppo delle parole".

Le prove giornaliere sono di sette ore a ritmi serrati (con breve pausa-caffè) per non meno di 2 mesi con un riposo settimanale. Nei primi 10-15 giorni Luigi propone esercizi di improvvisazione inerenti al tema ma non al testo dello spettacolo, che viene solo letto a tavolino. Nei 10 giorni successivi vengono stabilite le geometrie delle varie scene. Di solito dopo il primo mese lo spettacolo è montato e lo si può eseguire tutto. Da questo momento comincia il distacco tra autore e testo, poi successivamente tra regista e spettacolo: quando l'intero processo è compiuto, davanti al pubblico gli attori sono completamente padroni dello spettacolo, come se lo avessero inventato loro dall'inizio alla fine. La sera della prima Luigi deve quasi sempre elaborare un piccolo rituale di lutto e non esce mai agli applausi: la cosa non gli appartiene più. Adesso sono gli attori che pongono domande al pubblico e quando se ne ricordano (ma gli attori hanno una memoria narcisistica) tornano da lui per riportargli qualche risposta.

Marinella Manicardi

 2. Ecce Corpus

Dare a Cesare quel che è di Cesare... Dare al corpo quel che è del corpo... Liberare il corpo, lasciarlo esprimere, ritrovare o recuperare sensi e sensazioni perdute: quale bizzarra chimera assilla gli umani nell'obbligo di restituire al corpo quel che non gli è mai appartenuto? Quella "cosa" che continuiamo a chiamare corpo è molto più astuta, intelligente e sapiente di quanto siamo disposti a credere.

La ricerca teatrale condotta da Luigi Gozzi lo ha avvertito da sempre. Questa ricerca infatti è proceduta lungo la via (apparente) di fragorose ed equivoche caricature della "vita quotidiana" del nostro corpo. Eppure ciò che si mostrava sulla scena sembrava chiaro, esposto alla vista di tutti. A chi avesse orecchio per intendere, e non si lasciasse abbagliare dalle immagini, in scena erano piuttosto sottili parodie e ancor più impercettibili e decisive ironie a farla da padrone. Perché le pièce di Gozzi ogni volta ci hanno preso in contropiede? Forse perché la ricerca di Gozzi sorge da un sogno infantile, guarito beninteso da ogni infantilismo: che cosa c'è dentro il corpo? Bambola, soldatino, marionetta, burattino: chi li anima da dentro? Perché si muovono e si agitano tanto? Come si sposta il loro baricentro? Domande legittime. In effetti il nodo sembra questo: conta di più ciò che questi esseri animati dicono o cercano di dire che non i movimenti dei loro corpi. Ci accorgiamo che dentro il corpo ci sono parole, discorsi, ricordi dimenticati e dimenticanze rimemorate. E corpo è fatto di parole, è organizzato con la stessa materia con cui sono fatte le parole. Proprio così: il teatro delle Moline di Gozzi mette in scena il corpo della parola. Negli spettacoli degli ultimi anni - in quel percorso che va dall'antico "Freud e il caso di Dora" a "La doppia vita di Anna O." fino a "Giù" e a "Santità" - la ricerca è guidata da un'invenzione. Dare a Cesare quel che è di Cesare, dicevamo. Per Gozzi questa massima diventa un lavoro e un'opera di giustizia: non si tratta di "liberare" il corpo, ma di far parlare il corpo delle parole. In altri termini: dare al corpo quel che appartiene alla parola. Non stiamo parlando dell'inflazionato "linguaggio del corpo". E' un'altra cosa: Gozzi fa parlare i suoi personaggi con il corpo delle loro parole. Quel che è messo in scena è una sorta di doppio, una sorta di rincorsa impossibile paragonabile al paradosso di Achille e la tartaruga: il corpo, con i suoi tic, i suoi spasmi, i suoi sussulti raddoppia i balbettii, gli incespicamenti, le ecolalie della parola.

Il soggetto dunque è costretto a farsi una ragione del fatto che il corpo non sta al suo posto: più cerca di farsene una ragione più sragiona. E una rovina, come nella pièce "Giù", tratta dal racconto di Leonora Carrington. "Giù": il titolo dello spettacolo del '91 non parla dell'inferno o di una catabasi sepolcrale o esistenziale ma prolifera di pungente umorismo. Perché giù? Questo avverbio di luogo sembra un proseguimento del celebre enunciato galileiano "eppur si muove ... ". Sì, in questa pièce si tratta di scienza, di un esperimento di laboratorio intorno alla gravità delle parole e alla leggerezza del corpo. Una prova di galleggiamento di due materie apparentemente eterogenee: più le parole sprofondano più è il corpo a venire a galla... Ciascuno percepisce, anche se non è affatto disposto ad ammetterlo, che il suo è un caso grave. Goethe, tanto amato da Freud, lo rammenta: i naufragi più sorprendenti avvengono nella più tranquilla bonaccia. E' l'assenza di vento e non la tempesta a fare inabissare. E Gozzi ha fatto rivivere sul palcoscenico questa caduta a corpo libero della parola: allo spettatore è assegnato un paracadute in modo che possa osservare istante dopo istante questa caduta in diretta... Non solo: una volta precipitato a terra questo corpo-di-parole si rialza illeso. Adesso la parola - il voler dire e il voler dare senso - arranca con il corpo in un corpo a corpo. E' un affrontamento all'ultima caduta (o meglio all'ultimo sangue, quasi per lavare un'antica onta) che può leggersi anche come un lavoro intorno al sublime.

Immagine 2

In fondo il teatro di Gozzi non si fonda sulla rappresentazione ma sulla rappresentanza. Non c'è nulla di spettacolare. Molto invece è giocato sui simboli, sulla loro densità, sulla forza con cui rimandano ad Altro. L'alterità non è rappresentabile se è veramente tale. Eppure ogni cosa rispetto all'alterità può avere una rappresentanza. Infatti spesso i personaggi parlano (o meglio si dibattono, si tradiscono, si fanno ingannare) dell'ingombrante rappresentanza che il loro corpo ha nel discorso che h trascina. Stiamo parlando delle due pièce "Freud e il caso di Dora" e "La doppia vita di Anna O." (testi pubblicati nel 1990 da Thema Editore) che testimoniano di un rigoroso lavoro di scrittura drammaturgica e di un'attenta rilettura di Freud. Alle rocambolesche inscenazioni isteriche, alle parole che si infrangono sul corpo e ai sintomi che non si lasciano imbavagliare fa eco la smorfia inorridita del solito psichiatra: "Cloralio... Cloralio, somministrate il cloralio" (lo psicofarmaco dell'epoca): vano rimedio che pretende di ammansire al contempo la psiche e il corpo. L'isteria ama indossare contemporaneamente i panni della bella e della bestia: doppio anacronismo che fa il verso di quel doppio chiamato da sempre, anima e corpo. Salvo poi, come ricorda Freud, volteggiare tra due gesti: "con una mano apre la veste, con l'altra la richiude". Ecco la doppia vita...

Nella pièce "Santità" (tratta dal romanzo La prima estasi di Elisabetta Rasy) è sorprendente il gioco di danza. Qui la parola appare mansueta, silenziosa, estatica. Almeno così sembra. Eppure proprio quando la parola pare sfiorare le alte vette della mistica, il corpo fa la parte dell'aquila: carpisce le buone intenzioni, rapina i pensieri, ghermisce la carne. Quella che doveva essere, con le precauzioni del rito, una preghiera perfetta diventa lotta, danza di guerra. Sorprendenti, sotto le nere vesti delle suore, i piedi: si muovono come mani, raggiungono l'espressività di chi sta gesticolando, parlano al posto di un corpo infiocchettato, costretto in tuniche, contrito in spasmodiche penitenze. E' il trionfo dell'atto mancato: i piedi di Teresa di Lisieux (ovvero quelli della bravissima Marinella Manicardi) ci guardano di sottecchi, ci parlano frusciando, ci indicano bizzarri disegni di danza. Sono i piedi i dell'angelo. Pregare, pensare a Dio, fare atto di pentimento con i piedi? In quale blasfemo materialismo siamo caduti? Ancora una volta ci siamo ingannati: a vedere tutte quelle belle suorine ordinate, composte e devote, sembrava impossibile che si trattasse di corpi a piede libero!

Giancarlo Ricci

 3. "Santità": "dar suono al personaggio"

Luigi Gozzi non molto tempo fa ha messo in scena uno spettacolo intitolato "Santità". Questo spettacolo è ispirato a un mio testo, "La prima estasi" che è una sorta di meditazione narrativa su Teresa di Lisieux. Gozzi ha utilizzato il mio testo facendone qualcosa di assolutamente diverso e, nello stesso tempo, simile, o quanto meno affìne, fedele. Perché ne ha fatto, o almeno tale mi è parso "Santità", una meditazione teatrale. Non si trattava tanto di dare voce a un personaggio che, nel libro, voce quasi non ha, perché è quasi sempre parlato, ma di dargli suono. Mi pare che questo problema abbia incontrato la particolare attenzione di Gozzi perché nel suo teatro, mi sembra, il suono è una funzione del movimento, il movimento dello spazio, e questa concatenazione, questa connessione costituisce appunto l'immagine teatrale. Una deriva necessaria, mi sembra ancora, spinge verso questa immagine luoghi e suoni di marginalità, come se l'immagine non potesse essere formulata che a partire da una periferia - la santità, ad esempio, oggi è una questione della periferia - piuttosto che da un centro: anni fa avevo visto un altro spettacolo di Gozzi, ispirato al caso freudiano di Dora, e come in "Santità" mi aveva colpito l'oscurità della scena, l'oscurità che penso essere una forma simbolica di periferia, anche, naturalmente, della periferia silenziosa della mente, che può farsi suono trovando prima un ritmo che una parola. Direi anche, per esprimere la mia ammirazione, che è il ritmo - una metrica senz'altro istintiva ma nello stesso tempo assai sapiente - che permette all'oscurità della scena di Gozzi di farsi immagine.

Elisabetta Rasy

 4. Dire in movimento

E' ovvio che non posso, perché non so, scrivere da critico: ma da spettatore disinibito sì che posso scrivere un poco, facendo contenere nella scrittura qualche riflessione sul posto. Perché sarei per l'occasione, esemplarmente, colui (o costui) che insieme ad altri siede e si è seduto con il biglietto in mano; e perciò stesso è deputato (direi, meglio, libero) ad esibire per concatenata conclusione il consenso oppure la più sfrontata disamina. Questa libertà dello spettatore, nell'ambito abbastanza angusto e tradizionale della nostra società culturale, così come è organizzata, neanche viene illustrata di straforo, neanche viene proposta come una delle necessità, neanche viene utilizzata a supporto dei discorsi più alti e conclamanti. Il pubblico o è bue - dicono - oppure è colui che accorre dietro il campano dei recensori ufficiali; che distribuiscono o scudisciate o caldi abbracci ma sempre, come i giudici della nostra giustizia, in una indipendenza assoluta (che pare assoluta), nell'assoluta astinenza di rapporti contaminati, di umanissime voglie (e anche questa astinenza pare, ripeto pare, assoluta; poi vediamo in realtà come vanno le cose). E invece, dico a mio modo, non dovrebbe esserci una maggiore libertà (autentica libertà) consentita nell'uso delle conclusioni, in altra parte o in altro androne, che non sia di rigore l'ostello teatrale che accoglie soltanto gli illustri addetti ai lavori? Ostello, in quanto ricettacolo o radunata severa dei buoni e affaticati pellegrini dell'arte del dire in movimento; cioè, dell'arte teatrale. Da quanto sopra schematicamente trascritto, deve almeno risultare che non ho con fl teatro un rapporto amabile o tranquillo; ma, al contrario, abbastanza conflittuale. Poco mi appago, poco deglutisco, poco mi lascio comprimere dai minuti artifici, dalle cento novità ripetitive, dalle mille filastrocche americane.

Ma a proposito dell'arte del dire in movimento - o, se si vuole, dell'arte rigorosa del movimento che si muove dicendo quale a me sembra con intima convinzione risultare essere il teatro, mi sento proprio di appigliarmi al capo di questo filo per entrare nel merito della presente scrittura; che vuole riferirsi al teatro di Luigi Gozzi; oppure al Teatro delle Moline, che s'affida e si appoggia a Luigi Gozzi come scrittore di scena, ricercatore delle problematiche dure, e come regista assoluto degli allestimenti conseguenti. Proposta teatrale, scandita negli anni, che come spettatore mi ha coinvolto fìn dall'inizio e che dunque ho voluto seguire via via senza quasi omissioni. E so bene, lo capisco, che parlare di movimento, a questo proposito, potrebbe essere (sembrare) non una esagerazione ma un determinante stravolgimento critico; dato che è proprio nell'univoca e cadenzata fedeltà alla scansione linguistica, quasi bloccata nella sua mente essenzialità, lo specifico dei testi conclusivi di Gozzi. Così a me pare. Il quale non si pone sulla linea di un Goldoni - che conclude, operando con assatanata costanza, dentro alla straziante ritmicità propulsiva e convulsiva dei suoi testi certo inimitabili - ma sceglie, con un rigore lucido a cui non si è più sottratto, di intraprendere, con il cumulo di un materiale verbale raccolto in mano, stretto in mano, il suo viaggio di ricerca, la sua avventura fra i problemi e le idee che si scontrano; e fra i sentimenti perseguitati con inesorabile durezza o, talvolta, con ironia. Il periplo, a seguire, dei testi di Gozzi non ci porta in campo o in spazi diversificati e qua e là magari seminati di piccole mine (come per lo più è in uso tutt'ora); ma sempre contro una prima ampia solida porta che il testo, all'inizio, con la fatica dovuta ci spalanca per aiutarci a inoltrarci su una scalinata in discesa, in continua discesa, che tende a portarci in un cuore cupo della terra, in una zona rossa di fuoco dove si muovono i primi diavoli. E la luce dell'onesto mondo lasciato alle spalle è scomparsa. Questa progressione è compiuta dentro a, una controllata concatenazione di referenze culturali, di elementi fortemente ritmici, di allestimenti linguistici; sicché noi (o almeno io, intanto) avviamo una costante partecipazione a questo moto, a questo invito, a questa comunicazione che coinvolgendoci non ci lascia. Non riteniamo alcun momento di distacco dalla o nella ricezione, proprio perché la coordinazione fra i tre elementi sopra indicati è sempre non solo cercata ma mantenuta con rigore. La porta aperta (o la porta che si apre), la discesa per questa scala che può dare le vertigini ma è esclusiva, e non può essere altro che scelta e subito scelta; e infine, quel precipita antro alimentato di voci, di suoni, di fuochi appena accesi o intravisti e di figure recise o decise, in piedi (erte) o sedute, spesso accasciate ma mai cedute via per sempre (semmai sul punto di esserlo), sono - a me così risultano - in un concentrato esemplificato, come un viaggio angoscioso ma anche esaltante dentro all'avventura della mente dell'uomo e della donna; e da questo versante, un conseguente collegamento a verificare densità sostanza tenuta renitenza di alcuni sentimenti di base- incollati sull'uomo e sulla donna come una ancestrale ferita, una possibile dannazione. Omerica dannazione, cioè, con un respiro teso di salvezza possibile che sottostà ad ogni azione, solo che l'uomo (o la donna) lo voglia e non si lasci travolgere. Solo nell'ultimo testo, e nell'ultima per me emozionante rappresentazione, questa grande porta si apriva, questa vertiginosa scala c'era nell'aria e si percepiva (si presentava) ma anziché sprofondare si inerpicava verso l'alto; saliva, saliva. Assumeva un respiro bianco di luce. NE acquietavo in essa quasi cominciassi ad ascoltare suoni e voci dimenticati e ripresi. Non più il fuoco friggeva in lontananza, ma presagio il ricomponimento di una qualche consumata tempesta. E tuttavia non ricavavo pace (una qualche pace) ma il sentitnento del ricomponimento straziante e faticoso di un ordine che sembrava perduto. E nero e il bianco delle figure ecclesiali; la gestualità esemplare delle stesse figure in piedi o sedute o recline; la virtuale presenza di una parola che doveva essere detta e si aspettava che si dicesse e che alla fine, dopo tanto attesa, era detta. Concludeva. E' la voce del teatro che vedo con l'emozione dei sentimenti e ascolto con gli occhi. Non altro.

Roberto Roversi

 5. La "tattilità" della rappresentazione

"L'attualità del teatro consiste nel fatto che si tratta di una scrittura tattile; non voglio dire 'gestuale', per non andare a ripescare Marinetti. Qui si misura la distanza tra ciò che chiamiamo 'rappresentazione' e la 'riproduzione' che è propria dei media. t solo una constatazione; perché chiunque abbia un po' di testa non può aver preclusioni per i media. Soprattutto noi, gente di teatro; che infatti abbiamo tutti pasticciato, trafficato, abbiamo tutti contaminato il nostro discorso teatrale con elementi, con apparecchiature audiovisive sul palcoscenico". E Gozzi ricorda l'intelligenza di Carmelo Bene quando anni fa, aveva messo in scena il gioco tra voce viva (se vogliamo "voce tattile") e voce microfonica, cioè voce riprodotta. La misurazione di una distanza che si ampliava e si accorciava, per poi allentarsi di nuovo.

Non ho mai visto Luigi Gozzi così a suo agio (se non a volte, alle Moline) come in questa "bottega", in questa specie di fondaco che si insinua e si fa spazio nelle viscere del 24 di via S. Leonardo; quasi in fuga dal caramello del "restauro conservativo" di quel portico basso, A ricordo già un po' scrosticciato di una perduta Bologna Caput munii. E' che, nonostante gli sforzi (a dire il vero non eccessivamente convinti) di farne "un ufficio", i due stanzoni aggrottati e quasi sotterranei trasudano e spolverano fatiche e sapienze artigiane. Mentre vibrazioni e odori di domesticità quotidiana ristagnano in un cortile verde sul fondo, attutiti da quel che di remoto che hanno gli spazi chiusi e segreti di una vecchia città.

Dall'altro lato il baldacchino spropositato della vetrata che si apre dopo il portone fa da cassa di risonanza ai passi e alle voci della strada che incrementano il caos acustico, miscelandosi col rimbombo del nostro colloquio. Bozzetti e foto e altri ricordi indecifrabili sono appesi ai chiodi preesistenti arrotondati dalle imbiancature, ed è proprio come se un artigiano vi avesse appeso frammenti e scarti di lavori consegnati da tempo.

Dunque per Luigi Gozzi regista, ma anche drammaturgo e impresario teatrale, l'attualità del teatro nasconde quasi un paradosso: proprio il dilagare dei media sembra aver prodotto nel teatro A ritrovamento o il rinnovamento della consapevolezza di una sorta di "monopolio" della rappresentazione. Rappresentazione come "verifica dei comportamenti, dalla gestualità verbale all'etichetta"; tanto che scrivere cose teatrali (come drammaturgo, ma anche come regista), significa porre in essere appunto "una tattilità della parola non riprodotta". Anzi, per Gozzi, A teatro risponde oggi al ruolo insostituibile di fondare e di segnare continuamente la distanza della rappresentazione (e verifica) dei comportamenti, rispetto a quanto potremmo chiamare, ricordando Walter Benjamin, la loro riproduzione tecnica nella spettacolarità massmediale.

Giustamente Gozzi indica, di tutto questo, una prova, una verifica e contrario: se si guardano i cartelloni teatrali, a parte la tradizione che si trascina stancamente qua e là, da qualche anno a questa parte li vediamo rimpinzati di spettacoli già prodotti e passati in televisione che adesso emigrano sul palcoscenico; sembra quasi che chiunque abbia fatto uno spettacolo televisivo, debba necessariamente rifarlo in teatro. "Insomma, mi ha proprio affascinato l'idea direi 'primitiva' di questa gente che ha visto un tizio dentro il televisore e adesso vuole andare a constatare, in teatro, che è vero. Un po' come accade nel grande mercato discografìco: la gente, dopo aver ascoltato mille volte un cantante a casa, vuole andarlo a sentire dal vero, e non si accorge che magari è in playback".

C'è dunque, da parte della gente, un grande bisogno proprio di tattilità. Che è poi l'unica verità possibile e raggiungibile nella distanza, nella separazione struggente, nella disparità insanabile, nella straordinaria, magica tensione che divide la rappresentazione dai "sintomi" del reale; un reale che fìbrilla, lontano e indifferente, là dove si perdono le forme e i tracciati della mediazione simbolica. E questo valore della tattilità come sostiene Gozzi e come ce lo ha sempre dimostrato nella sua drammaturgia e nella sua regia, la si può ottenere soltanto, come dice lui stesso, "lavorando da buoni e bravi artigiani". Cosicché, per Gozzi, se non proprio quello piccolo (come l'adorato "delle Moline") è ad ogni modo un teatro non troppo grande l'ideale per un pubblico di quelle élites allargate cui si rivolge necessariamente e correttamente anche fi cinema con i suoi cineclubs, cineforum e cinema d'éssai. Insomma, qualcosa che si avvicini il più possibile a quel "teatro da camera" di cui era stato fautore uno degli autori più amati da Gozzi, August Strindberg.

E ciò, anche perché la tattilità della parola abbisogna di quella qualità essenziale (anch'essa in qualche modo alto-artigianale) che è l'acustica, di cui erano così straordinariamente dotati i teatri ottocenteschi e che oggi nelle costruzioni o ricostruzioni più recenti appare spesso inspiegabilmente trascurata.

Mentre, andandocene dal 24 di S. Leonardo, Luigi Gozzi si chiude fragorosamente alle spalle vetrata e portoncino, ricordo vagamente un passaggio di Lanterna magica dove Ingmar Bergman, questo altro grande artigiano del cinema e del teatro, proprio riferendosi a Strindberg, racconta con straordinaria semplicità appunto la magia tattile del palcoscenico. Più tardi ho ritrovato il pezzo: "A dodici anni ebbi l'occasione di accompagnare un musicista che suonava la celesta dietro le quinte nel Sogno di Strindberg... sera dopo sera assistetti, nascosto nella torre del proscenio, al matrimonio tra l'avvocato e la Figlia. Era la prima volta che sperimentavo la magia del teatro. L'Avvocato teneva una forcina per capelli tra il pollice e l'indice. La torceva, la raddrizzava e la faceva a pezzi. Non c'era nessuna forcina ma io la vedevo! L'ufficiale stava dietro la porta delle quinte e aspettava di fare il suo ingresso. Se ne stava chino in avanti a guardarsi le scarpe, le mani dietro la schiena, schiarendosi la gola senza fare rumore: una persona normalissima. Poi la porta si apre e lui avanza sulla scena illuminata. Cambia, si trasforma: è l'Ufficiale".

Pietro Bellasi

 6. Caro Luigi,

Come sai, mi tocca parlare di te. L'ho fatto altre volte, con riflessioni che disquisivano sul tuo lavoro ponendoti in terza persona, straniandoti ad oggetto culturale. La tentazione, date le scadenze strette, per colpa mia e non tua (arrivo sempre in ritardo nelle consegne, io!) sarebbe quella di riciclare qualche vecchio materiale, modificando l'eloquio. Ma non sarebbe un gesto d'amicizia e d'amore. Allora scelgo la forma epistolare, più agevole, più flessibile, e meno dottorale. Da dove partire? Scopro subito che la lettera non è una soluzione facile, sapendo che verrà pubblicata. Da dove partire, infatti? Dal tuo repertorio insolito, che vai scavando colla pazienza di orafo, o di entomologo, nei materiali più eccentrici delle biblioteche antiquarie di Bologna (emulo di Roversi), o scartabellando nei gabinetti d'analisi fine Ottocento, tra perizie lombrosiane e notti viennesi del dottor Sigmund? Dallo spazio recintato delle Moline, dove soffia il vento della Senna, e si sprigiona un refolo della rive gauche simbolista, un'aura di Villiers de l'Isle-Adam e delle revues blanches? Ricordo, a questo proposito, la tua mirabile traduzione del Teatro e popolo di Rolland che curai per la Patron, e che un improvviso refuso redazionale attribuì in quarta di copertina ad un tuo omonimo, gestore di un negozio di frigoriferi? Lapsus degno del tuo amato Manganelli. In quel frangente, stavi per indignarti. Ma l'ira, per esprimersi in te, deve attraversare chilometri di ozioso (nell'etimo latino) epicureismo, superare siepi e barrage di un sovrano, autolesionistico distacco dal mondo, evitare il tuo sguardo sulle cose degno di un Serafìno pirandelliano incerto tra l'indifferenza e la pietà sul tutto. Le tue Moline, dicevo. In quella cavità buia scrivendo i tuoi copioni già pregusti ordinate disposizioni di corpi, ritmi di oggetti e di stracci nello spazio, fasci algidi di luce, un tocco di pop e di dada da piccola Bauhaus felsinea, e già senti i montaggi tra le tue distillate parole e le rabbrividite bande sonore che commissioni a musici complici, come il povero Gelmetti, e già da vicino, avendola in casa, prevedi sussurri e gridi, acuti e declamati, della tua Musa-Sirena, della brava Marinella, da te un giorno fatale sequestrata, e che vorrebbe forse batter l'ala lontano dall'antro. Ma sulla soglia, Marinella si ferma, perché sa bene cosa perde e non sa cosa trova, nel bailamme indecoroso del teatro italiano fuori dalla tue felice catacomba. Là fuori, pulsa con qualche eccezione, lo star system della improvvisazione, la ricerca dell'ovvio e del riconoscibile, la caccia al consenso e alle prebende ministeriali; là dominano gli impresari del kitsch imperante, della fretta e dello spreco, coll'appendice puntuale delle masse surgelate di abbonati post televisivi. Dentro la cavità silenziosa della tua Officina, nel tragitto che dai rossi portici di Strada Maggiore o dai cortili chiassosi del Dams conduce giù giù nella claustrale bomboniera, l'opera pulsa col respiro che Goethe consigliava agli autori, dove l'arte nasce seguendo le fasi di crescita d'un organismo umano, A processo naturale con cui si sviluppa un feto o una pianta. E dunque, nessuna concitazione a inseguir circuiti, festival e ricorrenze di centenari, ma solo la giusta cottura d'un cibo metabolizzato nel forno colla fiamma conveniente ma solo fantasmi messi a fuoco nella lastra più adatta. Felice catacomba ho detto. Sì, non offenderti Luigi per l'ossimoro... Catacomba aggiungo un po' compiaciuta, con pochi adepti e molto laboratorio che spesso per riscattare la tua latente socialità porti all'aria aperta, trovando assessori illuministi o provveditori coraggiosi. Ma felice, non si può negarlo. A volte discuto con colleghi professori che ti considerano rigoroso ma annoiante. Non credo di essere fazioso, quando ribatto che davanti ai tuoi alambicchi ridi, di solito, colla stessa euforia liberata grazie ad un racconto di Gogol o di Bulgakov, ad un crescendo rossiniano, ad un motto di spirito di Woodhouse o di Waugh. Nelle vivisezioni delle tue schizofreniche, epilettiche, estatiche, stigmatizzate eroine, tra conati di vomito, anoressie/bulimie dei tuoi personaggi in perenne dormiveglia, delle tue autistiche creature in cui condensi ed iperbolizzi proiezioni di fobie personali e collettive, si esala infatti una gioia niciana o bachtiniana. Non è sadismo da manuale Kraft-Ebing, non è voyeurismo titillato sugli almanacchi illustrati da un morboso anatomo-patologo, ma solo la riconoscenza davanti alla vita bassa, nascosta e censurata dalle poetiche artistoteliche e dai box office dell'industria del telecomando, vita bassa che diviene viceversa protagonista delle tue eleganti attenzioni occasione seria per i tuoi giochi verbali decollati col primo "Verri", durante il tuo giovanile apprendistato sotto l'ala di Anceschi, che ti insegnò a coniugare Artaud con Giorgio Celli, Saussure con Lewis Carrofi, Metastasio con Lévy-Strauss, Rimbaud con Artusi, Brecht con Zanzotto.

E si ride. non di un vezzo esoterico-cerebrale, perché le sonnambule e le invasate che porti in scena, o la patafisica che da Jarry si inerpica sulle macchine celibi faustiane (versione Pagliarani) o nelle da te vagheggiate vasche messmeriane, hanno una leggerezza che sarebbe piaciuta a Calvino, e lo sporco e A sudicio che colano sono studiati quali occasioni epifaniche. Leggete, o critici distratti, le pagine del Mitteleuropeo Lord Chandos che inneggiano alla ragnatela sotto ú letto, ai topini avvelenati dal latte nell'umida cantina, agli annaffiatoi abbandonati in un giardino al tramonto, ad una murena in agonia. Ecco, troverete là la medesima sobrietà da gaia scienza, la medesima uscita che dall'antropocentrismo della pièce amorosa, dal titanismo delle ideologie salvauniverso, si china su ginestre leopardiane, su clisteri goldoniani, su minestre pantagrueliche, su graffiti sveviani a tastarne la vita oltre, dopo e dentro l'io. Grazie Luigi, continua così coi tuoi filò sull'inconscio, colle tue fiabe. Del resto, il cognome che porti evoca molto ad un veneziano come il sottoscritto.

Paolo Puppa

 7. Ah! la grupposità...

Manzella - Per cominciare mi incuriosiva sapere qual è il tuo primo ricordo teatrale, qual è il primo teatro che hai visto e quali sensazioni ti hanno colpito, se sono legate più allo spazio del teatro o allo spettacolo.

Gozzi - Ho un ricordo nettissimo e non credo che la memoria mi inganni; risale ai miei dieci anni. Ed è un ricordo folgorante, è Ruggeri, Enrico IV. Credo sia stato uno degli ultimi spettacoli di Ruggeri, anno '46-'47. Il testo e l'attore, l'incanto dell'attore che è come un oggetto di grande fascino. E da ragazzino, anche la follia, pirandelliana, insomma io la presi per vera, credo. Mi ricordo ovviamente, qualche anno dopo, un altro Entico IV di Benassi, brutta edizione, ma anche lui assolutamente affascinante.

Manzella - E fascino dell'attore...

Gozzi - E del grande testo. Non avevo naturalmente letto Pirandello, ma mi ricordo un grande coinvolgimento. Prima o intorno delle strane cose, ridicole o da ridere: il teatro dei burattini, che c'era, sparso per Bologna nel dopoguerra. Ad esempio in piazza Trento Trieste, io andavo a vedere con gli altri bambini i burattini, la sera; oppure spettacolacci, rivista addomesticata di tipo familiare. E qui era proprio la scena a prendermi, l'incanto del movimento della scena.

Manzella - L'interesse per il teatro come nasce?

Gozzi - Dopo queste esperienze io ho frequentato parecchio il teatro da ragazzino. Poi mi metto a farlo all'Università; allora, ai miei tempi, esistevano i CUT e mi misi con altri ragazzi a fare un po' di teatro, da autodidatta. Poi scatta in me anche come interesse teorico e ho una mia stagione di saggista o critico negli anni '60 e oltre. Questa è anche la mia scuola dove incontro quello che ancor oggi considero il mio maestro, Luciano Anceschi, che in realtà, quando gli dissi che mi interessava il teatro, mi guardò come se mi stessi occupando di cose riprovevoli, poi capì, ma un momento di resistenza ci fu: ecco, il verri degli anni '60, in cui ho fatto fi mio apprendistato teorico e nello stesso tempo l'attività, che poi sarebbe proseguita, sono i due aspetti del mio apprendistato.

Manzella - Invece gli inizi veri...

Gozzi - Vengono di seguito all'esperienza universitaria, con un piccolo gruppo che misi insieme; uno degli spettacoli che ricordo fu Genet (Le serve) che feci per primo in Italia (mi pare 1959); c'era anche Piera degli Esposti; poi ci fu l'attività con il Gruppo 63, Sanguineti, Balestrini e gli altri. Dovetti poi concedermi una battuta d'arresto (dovevo lavorare), ripresi quattro, cinque anni dopo. Nel frattempo era anche successa una cosa strana: avevo, come dire, allevato, non so quanto consapevolmente, un fratello, Alberto, che tra l'altro era presente nel Gruppo 63. Era il più giovane, vent'anni, e diventò per una certa fase il mio drammaturgo. Così riprendemmo e il Teatro Nuova Edizione cominciò a Torino, dove Alberto si era spostato facendo quello che fa tuttora, cioè lo sceneggiatore alla RAI. M'aveva segnalato un gruppetto di giovani attori. Io allora andai a Torino e facemmo il primo spettacolo del TNE: era L'anitra selvatica di Ibsen di Alberto Gozzi. Dopo pochi mesi tornai a Bologna dove si mise insieme il nuovo gruppo, che poi durò parecchio tempo, anni. E stato in mezzo a quel gruppo che ho incontrato Marinella Manicardi.

Manzella - Questo secondo inizio viene sulla scia di un momento di cambiamento e di volontà di cambiamento profondo nella società, ma anche nel teatro. C'è stato il convegno d'Ivrea, c'è il primo Normalizzarsi di un gruppo di artisti di "avanguardia", soprattutto a Roma. Ti arrivano questi echi? Come ti arrivano?

Gozzi - Io a Ivrea ero presente anche se nullafacente, perché ero nel periodo di parziale abbandono; avrò la ripresa nel '68 a Torino, ma gli amici h avevo già tutti, Mario Ricci, ad esempio, un personaggio molto stimolante in quegli anni, Giancarlo Nanni. E poi c'era una cosa, in quegli anni, assolutamente straordinaria, che si è poi andata perdendo e oggi non esiste più, se non come memoria e nostalgia: il gruppo. lo a Bologna misi insieme una decina di ragazzi-attori (disposti a fare gli attori), alcuni dei quali hanno continuato e altri no, ma tutti con un forte senso del lavorare insieme. So di preciso che hanno dato una notevole spinta e suggerimenti al mio lavoro teatrale. Ho lavorato alcuni anni con una decina di persone in maniera molto compatta; non sapevano far niente, erano anche pasticcioni, a tratti indisciplinati, ma spinti da una grande curiosità e voglia di fare, anche fisicamente, la scena è anche lavoro fisico. Senza arriviamo, non fastidiosi per lo meno. La grupposità, se si può usare questo termine, non esiste più da tempo o non esiste spontaneamente. Anche se mi è capitato e mi capita di lavorare bene, con reciproco vantaggio, non c'è più quella spinta...

Manzella - Cos'era quella grupposità?

Gozzi - Voleva dire che si era disposti a lavorare molto partendo da una semplice ipotesi, senza smettere di essere se stessi. Io ho sempre pensato che fosse bene e fosse utile accettare le persone così come sono fatte e mi arrischiavo a teorizzare che l'attore è soprattutto i suoi difetti, che vanno perciò conservati ed anche esasperati, inducendolo a lavorare su di sé. Anche oggi, possibilmente, non faccio prove, nel senso tecnico, ma lavoro con gli attori per tentativi, per approssimazioni. Nel gruppo questo lo si capisce facilmente; oggi è diverso ed è facile cadere in quel tanto di autoritario ed eccessivo che l'attività registica comporta, ma che mi infastidisce. Come una dimostrazione inutile.

Manzella - Comunque negli anni '70 le scelte diventano più tue personali e attraverso anche autori molto diversi, da Molière a Brecht a Strindberg e allora mi chiedevo quale tema, se c'era un "tema", cercavi tra questi lavori che metti in scena, rielabori, riscrivi, che fai tuoi.

Gozzi - Il tema del rapporto, per me vitale e fondamentale, tra una realtà assolutamente fisica, ma anche esistenziale, che è quella dell'attore e quella della realtà fìttizia che viene chiamata personaggio. Provavo varie formule: nel Malato immaginario (1973), con cui inaugurai le Moline, il personaggio veniva diviso e moltiplicato per tre. Non sono giochi formali come si vide in uno spettacolo importante per me, tra l'altro l'unica mia esibizione attorica che ricordo con piacere l'Otello! (1974), che facemmo in tre, io appunto, Marinella Manicardi, che cominciò a diventare Marinella Manicardi, e Franco Mescolini che cominciava anche lui allora. Dicevo l'attore manierista per le sue qualità e scelte non solo espressive o comunicative ma addirittura personali, esistenziali.

Manzella - Manierismo dell'attore, che cosa significa?

Gozzi - L'attore è intellettualmente e fisicamente agile, è disposto a confrontarsi, cioè a confrontare se stesso o, meglio, alcune qualità che un po' conosce, un po' deve imparare a conoscere con immagini, maschere, frammenti di materiali altrui, e con questo deve costruire una figura ed è consapevole che non riuscirà a darne una totale. Allora può fingere (non tanto), mentire (meglio, ma è un rischio), spiegare, raccontare... E presenza ma anche tramite verso lo spettatore. Per questo è un manierista. Ho sempre cercato questo attore; ed è stato per me inevitabile, accompagnandolo e guidandolo, passare dal manierismo all'interesse per la patologia.

Manzella - Che dopo prende un'importanza sempre più forte nel teatro tuo a partire dalla fine degli anni '70. Volevo però capire meglio se questa patologia nasce da una riflessione sull'attore o da qualche altro stimolo più personale, se vuoi.

Gozzi - Dai fatti miei, non c'è dubbio. Inevitabilmente. Però anche dal bisogno che avevo di proiettarmi nell'attore, che guardavo con interesse, affetto mi viene da dire, invidia anche. E poi sono sempre stato affascinato dall'aspetto materiale del recitare e dell'attore, che inevitabilmente rappresenta la cosa che tutti noi siamo: la cosalità, ecco. Quel residuo materiale irripetibile, nel senso che finisce ed è unico. Anzi è unico perché finisce. Non credo a chi vuole, oggi, sacralizzare il palcoscenico. La dimensione del palcoscenico è una dimensione da attraversare. In senso fìsico ma anche simbolico, il palcoscenico è un luogo di transito e inevitabilmente la transitività è la sintassi dell'azione scenica.

Manzella - Si è già accennato allo spazio delle Moline: questa grupposità di cui parlavi prima si interseca a un certo punto con il fatto che hai un tuo spazio di lavoro. Questo spazio, l'avere a disposizione un luogo di lavoro che non è soltanto, immagino, il luogo dove provi e dove poi realizzi gli spettacoli, modifica il tuo rapporto con gli attori o il tuo modo di lavorare?

Gozzi - Sì e no. La compagnia cominciò dove poteva e poi trovò le Moline ed era l'esigenza di avere una casa. Le Moline avevano ed hanno il loro fascino. E' sempre rimasto il luogo del gruppo, che non esiste più ma di cui rimane una certa nostalgia. In più le Moline sono state e sono un teatro della città.

Manzella - Appunto, qual è il tuo rapporto con questa città, il suo ambiente culturale?

Gozzi - Bologna è una città accademica. Penso di essere autorizzato a dirlo. E questo naturalmente la rende diffidente nei confronti dello spettacolo dal vivo, cioè di quel tanto di emozione che direttamente il teatro deve dare e ottenere. Così ci si ammanta di scetticismo e si nascondono le grandi passioni, che credo sotto ci siano. Penso che questo scetticismo, che oggi trova larga diffusione, sia sostanzialmente una forma di provincialismo.

Manzella - Per arrivare ad una provvisoria, ovviamente, conclusione, anche se so che non ami le teorizzazioni o i discorsi generali, ti chiedo una riflessione sul momento attuale, sulle sue difficoltà e sul ruolo che può ancora avere il teatro in questa società, che è cambiata cosi rapidamente negli ultimi anni, nell'ultimo decennio.

Gozzi - lo sono convinto che stiamo facendo una rincorsa educativa. Dico educativa, non pedagogica, come un gioco o un confronto su quali metodi possano funzionare. E sono convinto che la piccola scena, questa funzione, ce la possa ancora avere, come luogo di esperienza.

Manzella - Penso che potremmo fermarci qui. Cosa dici?

Gozzi - Che sono un chiacchierone.

Gianni Manzella

 

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