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Decostruzione e pensiero scientifico
(Parol on-line, ottobre 1998)

di Manlio Iofrida

In che senso in Derrida si può rintracciare un discorso sulla scienza, nonché una vera e propria epistemologia (nel senso di teoria del sapere scientifico)? Per un lato, la domanda sembra avere una risposta scontata e non molto interessante: poiché questo filosofo ebreo-franco-algerino è molto debitore nei confronti di Heidegger - molto di più e molto più esplicitamente dei suoi "fratelli" post-strutturalisti Deleuze e Foucault - la sua concezione della scienza non farebbe che ripetere le riflessioni heideggeriane sulla metafisica, sul rapporto fra Essere e tecnica, sull' "essenza della tecnica". Nonostante le reiterate affermazioni di Derrida riguardo al suo debito incolmabile nei confronti di Heidegger, questa risposta sarebbe però errata; in realtà, proprio sul terreno del rapporto con il sapere scientifico si verifica una delle maggiori prese di distanza di Derrida dal suo "maestro". E' opportuno, a questo punto, ricordare che nella decostruzione hanno pesato in modo determinante anche altri registri culturali: innanzitutto quello fenomenologico - nel periodo della formazione di Derrida in Francia la fenomenologia ha conosciuto il suo massimo fulgore, soprattutto con l' opera di Merleau-Ponty; in secondo luogo, quello strutturalistico - il Corso di linguistica generale di de Saussure è un punto di riferimento essenziale per Derrida. Tenuto conto di questo, nella mia lezione cercherò di far vedere: 1) come nella prima opera di rilievo da lui pubblicata, l' Introduzione a L' origine della geometria di Husserl [Paris 1962; tr. it. (da cui si citerà qui di seguito) Milano 1987; d' ora in poi indicata con la sigla IOG.], Derrida sviluppi una riflessione sul concetto di verità, e in particolare sul rapporto fra verità e storia; 2) come egli reinterpreti il concetto di comunicazione nella conferenza Firma evento contesto [La si veda in Derrida, Margini - della filosofia , tr. it. Torino 1997, pp. 393 e sgg.; d' ora in poi citata con la sigla SEC.]. Sulla base della messa a punto di questi aspetti del pensiero di Derrida, cercherò allora di chiarire la peculiarità del suo heideggerismo, peculiarità che fa sì che esso possa essere messo in comunicazione con determinati aspetti della ricerca scientifica contemporanea - a questo scopo, farò due brevi esempi, riferendomi a testi di Gregory Bateson e di Francisco Varela [Cfr. OG, p 86 e sgg.].

Il problema centrale dell' Introduzione a OG è quello della storia e del rapporto fra storia e scienza, fra storia e sapere; ripercorrendo e ripetendo il testo di Husserl, Derrida cerca di rispondere alla domanda: come si sono costituiti il vero, la scienza? E' una questione nella quale scienza e storia si intersecano e che è in qualche modo paradossale: come è possibile che il vero, il sapere, che è obiettivo, che trascende l'empiricità, che per sua natura non è legato al qui e all'ora, che è indipendente dal tempo e dallo spazio (la geometria di Euclide è stata, è e sarà sempre valida), come è possibile che questo sapere abbia una storia, un rapporto con la temporalità? Eppure questo paradosso va affrontato, perché non c'è dubbio che il sapere non è sempre stato, ma è cominciato e si è sviluppato, ed anche per motivi più profondi. Infatti per Husserl non si tratta di fare una storia empirica della geometria, di vedere cioé come psicologicamente siamo arrivati a costituire questa scienza; il suo discorso è più radicale: si tratta di vederne la storicità trascendentale. Detto in altri termini : non si tratta di vedere come effettivamente siamo arrivati alla geometria, chi e in quali condizioni e attraverso quali passaggi l'abbia inventata. Questa è una storia possibile, ma non tocca assolutamente l'oggetto in quanto tale: quali che siano le vicende attraverso cui è passata la geometria, i suoi teoremi alla fine rimangono gli stessi. La radicalità del discorso di Husserl sta nell'affermare che invece vi è una storicità interna, costitutiva, immanente alla geometria in quanto scienza. Se la storia nel primo senso, in quanto empirica, cade sotto il colpo della riduzione fenomenologica, poiché è legata al qui e all'ora, non altrettanto può dirsi per la storicità trascendentale, che rientra a buon diritto nell'analisi costitutiva. Ma chiariamo meglio il senso di questa storicità trascendentale: innanzitutto essa implica che la scienza ha bisogno per il suo stesso costituirsi, per poter apparire come tale, della temporalità. Ma cosa significa ciò concretamente, se si esclude che qui temporalità abbia il senso della temporalità empirica? Derrida richiama la differenza fra Husserl e Kant a questo proposito: per Kant chi ha creato la geometria è stato passivo, ha solo esplicitato una possibilità, ha rivelato qualcosa di preesistente; per Husserl, invece, prima del fondatore, dell' inventore, non c'era geometria in potentia ; la geometria è stata veramente creata . Per Kant la storia è sempre soltanto storia dei fatti, mentre i concetti non hanno storia: lo spazio, i concetti geometrici sono già costituiti; per Husserl invece c'è anche una storia dei concetti non empirici, degli oggetti ideali. In questo senso Husserl sfugge, almeno nei punti alti della sua riflessione, all' alternativa fra storicismo empirico e razionalismo antistorico[OG, p. 114 e sgg.].

Un altro chiarimento di questi concetti lo si può dare partendo dal concetto husserliano di idealità . Far scienza è costituire oggetti ideali e gli oggetti ideali sono per definizione indipendenti dal qui e dall'ora, non sono legati ad un soggetto empirico, ma sono validi per un soggetto trascendentale. In realtà allora potremmo dire: far scienza presuppone la comunicazione, il linguaggio; il luogo primario della costituzione di oggetti ideali è infatti proprio il linguaggio. In questo senso la scienza non è che il compimento, il perfezionamento della nostra possibilità di parlarci, di comunicare fra noi, di uscire da noi stessi per rapportarci agli altri. Far scienza in questo caso coincide anche con quello che si chiama l'istituzione di una tradizione: io comunico, tramando, lascio in eredità un corpus di cognizioni che gli altri possono comprendere, accogliere, accrescere... Nella misura in cui la scienza è comunicazione e tradizione, essa viene allora a coincidere o a inglobare il concetto di storia , in quanto "storia" significa il processo per cui una comunità si rapporta al suo passato per autoidentificarsi, si porta dietro una memoria collettiva che è l'insieme dei suoi saperi e delle sue tradizioni. Se storia significa stabilire una linea di continuità fra presente e passato, far comunicare reciprocamente il presente e il passato, istituire un collegamento fra generazioni, le condizioni di possibilità di un discorso storico sono in realtà le stesse di quelle del discorso scientifico : in entrambi i casi idealità, linguaggio, comunicazione sono i presupposti a cui siamo rinviati. La dimensione che si apre col discorso scientifico come con quello storico è quella della comunicazione e del rapporto reciproco. In questo senso Derrida dice, ripetendo Husserl: la storia della verità si rivela essere la verità della storia[SEC, p. 395-6.], perché la storia è il processo attraverso cui ci tramandiamo il sapere. In questo senso la storia si presenta in Husserl come continuità e linearità, come un processo di crescita lineare da una generazione all'altra; il che è come dire che qui Husserl (almeno come telos , come ideale) ci presenta l'idea di una comunicazione perfetta, di un linguaggio univoco, che consente di dire tutto, che è (per usare questa metafora) completamente trasparente. Gli uomini costruiscono dei linguaggi ideali e conseguono sempre maggiormente obiettività, trasparenza, senso: la storia, di nuovo e in modo ancora più forte, è storia del vero e del senso e tutto ciò che può significare spessore, opacità, è messo al bando, in una prospettiva che privilegia senza mezzi termini i valori della integrale visibilità, della superficie completamente visibile.

Ma il discorso di Husserl è in realtà assai più complesso; per comprenderlo bisogna mostrare come gioca in esso la questione della scrittura. Ho detto delle condizioni di possibilità della verità e dell'idealità; ora fra queste condizioni di possibilità Husserl pone anche la scrittura: è soltanto col passaggio dalla trasmissione semplicemente orale del sapere alla costituzione di un corpus scritto che l'obiettività raggiunge la sua pienezza. Cosa sarebbe, infatti, una scienza come la geometria senza la scrittura? Inoltre bisogna considerare che obiettivazione e idealizzazione significano distacco da ogni elemento di soggettività empirica; ora tale indipendenza non è completa fintanto che una verità non è scritta, perché essa dipende ancora dall'esistenza di uno o più soggetti empirici viventi; solo quando una verità è affidata alla scrittura si realizza la sua completa libertà dall'empiria.

La scrittura essendo ciò che porta a completamento il processo di idealizzazione e quindi la comunicazione, essa apre la possibilità sia della scienza che della storia. Ma la scrittura è anche ciò che fa comparire la possibilità della perdita del senso. Fino adesso abbiamo dato per scontato che il processo di obiettivazione e di idealizzazione avesse un risvolto unicamente positivo, fosse solo un processo di crescita: creando enti ideali io ho la possibilità di mettermi in relazione con tutti, nessuno escluso, posso dire tutto a tutti quanti. Il fatto della scrittura mi mette ora davanti a un'altra caratteristica dei sistemi di comunicazione: per produrre idealità un sistema di comunicazione deve pur sempre riferirsi al sensibile, deve incarnare queste obiettività; insomma l'idealità non è mai pura e questo è vero per qualunque sistema di comunicazione, anche per quello semplicemente orale: la scrittura non fa che rendere particolarmente evidente questo aspetto, per cui la creazione di valori e entità ideali non è mai assoluta e completa, ma sempre relativa e limitata da elementi empirici.

Anche l'idea che noi possiamo ridurre tutto a senso trasparente, alla purezza della coscienza e della consapevolezza subisce a questo punto un colpo: la scrittura rappresenta una specie di punto cieco, il penetrare dell'empirico, del casuale e dell' insensato all'interno della verità. Tanto è vero che, con la scrittura, può succedere che la verità si perda : basta la circostanza che non siamo più capaci di decifrare una determinata lingua perchè da veicolo di verità la scrittura si tramuti in un elemento di opacità.

Cosa significa questo carattere "storico" della verità? E' chiaro che qui non abbiamo più a che fare col senso precedente di "storia", né con quello che si dà a questa espressione quando si parla di "storicità della scienza", intendendo che le categorie e le teorie scientifiche conoscono un certo sviluppo, legato (o non legato) a determinate strutture sociali, economiche, ecc.; ma questo sarebbe per Derrida un discorso di Historie , di storicità empirica; il suo discorso, come dicevo, riguarda invece la storicità trascendentale , cioé una storicità essenziale, costitutiva della struttura interna della verità stessa. Detto in parole più povere: questa storicità è il carattere irriducibilmente parziale della verità, il suo dover essere un ritaglio ; ogni verità rimanda ad un insieme di condizioni che la rendono possibile e che - per definizione - non possono autovalidarsi - ciò che regola un protocollo di verità non può applicarsi a se stesso. Quello che sto esprimendo il più semplicemente possibile è poi un principio che è stato rigorosamente dimostrato da Gödel. Dunque la verità è storica nello stesso senso per cui, se io vedo un quadro dentro una cornice, non posso nello stesso tempo mettere a fuoco la cornice: il complesso che dà luogo al fenomeno della verità, la cornice e il quadro, non posso mai averlo tutto presente , a fuoco nello stesso tempo. E' da questa parzialità che deriva la storicità in senso empirico della verità, la sua mobilità, la sua pluralità - di volta in volta posso guardare da cornici diverse, ovvero da contesti diversi; di volta in volta posso istituire dei differenti giochi di verità. Quindi, il discorso sulla storicità della verità si riconduce al suo essere un gioco di presenza e assenza, di vuoto e di pieno.

Ora, per dare qualche altro chiarimento su questo, vengo al punto 2) della mia esposizione, facendo qualche riferimento al saggio Firma evento contesto , che appartiene ormai alla fase matura della riflessione di Derrida (la I ediz. è del 1971). E' da notare che qui Derrida usa il suo concetto di scrittura e non più quello di Husserl. Questo concetto di scrittura è comunque ancora legato al problema del linguaggio, della "tradizionalità" della verità, insomma alla questione della possibilità della comunicazione , come già nel testo precedente. Vediamo allora cosa ne è in SEC dei concetti di verità, di scienza e di comunicazione classici, il modo in cui Derrida cerca, non di negarli, ma di trasformarli.

Innanzitutto, Derrida mette in questione il concetto tradizionale di verità e comunicazione come "trasporto di un significato" e propone un concetto di verità come effetto , come spostamento di forze :

Se comunicazione avesse parecchi sensi e se tale pluralità non si lasciasse ridurre, non sarebbe giustificato definire di primo acchito la comunicazione come la trasmissione di un senso , anche supponendo che fossimo in condizione di intenderci su ciascuna di queste parole (trasmissione, senso, ecc.). Ora la parola comunicazione , che niente ci autorizza inizialmente a trascurare come parola e a impoverire in quanto parola polisemica, apre un campo semantico che per l' appunto non si limita alla semantica, alla semiotica, ancor meno alla linguistica. Appartiene al campo semantico della parola comunicazione il fatto che essa designi anche dei movimenti non semantici. Qui un ricorso almeno provvisorio al linguaggio ordinario e agli equivoci della lingua naturale ci insegna per esempio che si può comunicare un movimento o che una scossa , un urto, uno spostamento di forza può essere comunicato -intendiamo, può essere propagato, trasmesso. Si dice anche che luoghi differenti o distanti possono comunicare tra loro attraverso un passaggio o un' apertura. Ciò che si verifica in tale caso, ciò che è trasmesso, comunicato non sono fenomeni di senso o di significazione. Non abbiamo in questo caso a che fare né con un contenuto semantico o concettuale, né con un' operazione semiotica, ancora meno con uno scambio linguistico [Ivi , p. 401.].

Allora, per ridefinire la comunicazione in senso differente, Derrida ricorre alla scrittura; perché proprio la scrittura - in contrapposizione alla parola, all' oralità - gli serve a questo scopo? Essenzialmente perché in essa è maggiormente sottolineato quel valore di assenza che a Derrida interessa. Per essere più precisi: perché la scrittura si presenta più evidentemente come un gioco di presenza e assenza. Il significante orale, invisibile, sembra "togliersi" di fronte al significato e dà dunque l' idea che il significato si possa trasmettere come tale , puro e intatto; la scrittura, più malfida, materiale e compatta, e anche, lo abbiamo visto prima, deperibile, si pone come un significante molto più opaco, molto meno secondario, molto più ingombrante - insomma la scrittura mostra con più evidenza quel "punto cieco", insensato , in sé invisibile, a partire dal quale ogni senso, ogni comunicazione si possono produrre. Torniamo al testo di SEC. Dopo avere riportato alcuni passi dal Saggio sull' origine delle conoscenze umane di Condillac, Derrida porta l' attenzione sul tema dell' assenza:

1) Essa è in primo luogo l' assenza del destinatario. Si scrive per comunicare qualcosa a degli assenti. L' assenza dell' emittente, del locutore dal marchio che egli abbandona, che si stacca da lui e continua a produrre degli effetti al di là della sua presenza e dell' attualità presente del suo voler-dire, cioé al di là della sua vita stessa, questa assenza che tuttavia appartiene alla struttura di ogni scrittura - e, aggiungerò più sotto, di ogni linguaggio in generale -, questa assenza non viene interrogata da Condillac.

2) L' assenza di cui parla Condillac è determinata nel modo pìù classico come una modificazione continua, un indebolimento progressivo della presenza. La rappresentazione supplisce regolarmente la presenza. Ma, articolando tutti i momenti dell' esperienza in quanto essa è coinvolta nella significazione ("supplire" è uno dei concetti operativi più decisivi e più frequentemente utilizzati nel Saggio di Condillac), questa operazione di supplenza non viene esibita come rottura di presenza ma come riparazione e modificazione continua, omogenea, della presenza nella rappresentazione [Ivi , p. 403.].

Ora da queste considerazioni su Condillac Derrida procede innestando il proprio discorso, che risulta così non una negazione assoluta di quello classico, ma una sua distorsione, prodotta attraverso la radicalizzazione di uno dei suoi aspetti: quello dell' assenza, pensata appunto in modo meno "secondario" rispetto alla presenza, concepita con la stessa dignità di quest'ultima. Qualche pagina dopo:

1) poiché ogni segno, tanto nel "linguaggio d' azione" che nel linguaggio articolato (anche prima dell' intervento della scrittura in senso classico), presuppone una certa assenza (che deve essere determinata), bisogna che l' assenza nel campo della scrittura sia di tipo originale se si vuol riconoscere una specificità quale che sia al segno scritto;

2) se per avventura si trovasse che il predicato che è stato in questo modo accolto per caratterizzare l' assenza propria alla scrittura si addice ad ogni specie di segno e di comunicazione, ne seguirebbe uno spostamento generale: la scrittura non sarebbe più una specie di comunicazione e tutti i concetti alla cui generalità si subordinava la scrittura (il concetto stesso come senso, idea o afferramento del senso o dell' idea, il concetto di comunicazione, di segno, ecc.) apparirebbero come acritici, mal formati o, piuttosto, destinati a garantire l' autorità e la forza di un certo discorso storico [Ivi , p. 406-7.].

Ora questa radicalizzazionre dell' assenza comporta le seguenti conseguenze: 1) il segno scritto può funzionare in assenza di un destinatario empirico, determinato: per poter essere leggibile, deve poterlo essere anche quando siano morti coloro cui essa era destinata. Ciò comporta che non esiste una codice rigorosamente segreto: se c'è un codice, esso deve essere ripetibile al di là di ogni destinatario possibile; 2) il segno scritto può funzionare in assenza del locutore; anche quando sarò morto il mio scritto continuerà ad essere letto: e non c'è alcuna garanzia che esso sia interpretato secondo quello che io "volevo dire". A questo punto, Derrida ritiene di poter concludere che questo concetto di scrittura, ottenuto mediante la radicalizzazione dell' assenza, in primo luogo mette in questione la distinzione rigorosa di testo e contesto, in secondo luogo comporta uno specifico, essenziale legame fra iterazione e differenza, fra produzione di qualcosa di ripetibile, identico, e trasformazione di questo stesso qualcosa; in terzo luogo, si applica non solo alla scrittura, ma a ogni tipo di segno, anzi all' esperienza in generale ; vediamo le sue argomentazioni:

1) Un segno scritto, nel senso corrente della parola, è dunque un marchio che resta, che non si esaurisce nel presente della sua iscrizione e che può dar luogo ad un' iterazione in assenza e al di là della presenza del soggetto empiricamente determinato che, in un dato contesto, l' ha emesso o prodotto. 'E in base a questo che, almeno tradizionalmente, si distingue la "comunicazione scritta" dalla "comunicazione parlata".

2) In concomitanza con ciò, un segno scritto comporta una forza di rottura con il suo contesto, cioé con l' insieme delle presenze che organizzano il momento della sua iscrizione. Questa forza di rottura non è un predicato accidentale, ma la struttura stessa dello scritto. Se si tratta del contesto cosiddetto "reale", quello che ho appena detto è fin troppo ovvio. Fanno parte di questo preteso contesto reale un certo "presente" dell' iscrizione, la presenza dello scrittore a ciò che egli ha scritto, tutto l' ambiente e l' orizzonte della sua esperienza e soprattutto l' intenzione, il voler-dire, che in un dato momento si suppone animi la sua iscrizione. Appartiene al segno di essere leggibile in via di diritto anche se il momento della sua produzione è irrimediabilmente perduto e anche se non so ciò che il suo preteso autore-scrittore ha voluto dire coscientemente e intenzionalmente nel momento in cui egli l' ha scritto, cioé l' ha abbandonato alla deriva che gli è essenziale. Passando ora al contesto semiotico e interno, la forza di rottura non è minore: in ragione della sua iterabilità essenziale, si può sempre prelevare un sintagma scritto dalla concatenazione in cui esso è avvinto o dato, senza fargli perdere ogni possibilità di funzionamento, se non, appunto, ogni possibilità di "comunicazione". Si possono eventualmente riconoscergliene delle altre iscrivendolo o innestandolo in altre catene. Nessun contesto può racchiuderlo. Né alcun codice, essendo qui il codice ad un tempo la possibilità e l' impossibilità della scrittura, della sua iterabilità essenziale (ripetizione/alterità)_

Questi_predicati, con tutto il sistema che ad essi si raccorda , sono riservati, come così spesso si crede, alla comunicazione "scritta", nel senso stretto della parola? Non li si ritrova in ogni linguaggio, per esempio nel linguaggio parlato e al limite nella totalità dell' "esperienza" in quanto essa non si stacca da questo campo del marchio? Cioé, nella griglia di cancellazione e di differenza, di unità di iterabilità, di unità separabili dal loro contesto interno o esterno e separabili da se stesse, in quanto l' iterabilità stessa che costituisce la loro identità non permette loro mai di essere un' unità di identità a sé? [Lo si veda in Bateson, Per un' ecologia della mente , tr. it. Milano 1980, pp. 62 e sgg.]

In questo modo, abbiamo introdotto un altro aspetto importante del discorso di Derrida: testo e contesto, linguaggio e mondo non sono mai rigorosamente separabili. In fondo, è un altro modo di presentare l' argomento precedente della cornice e del quadro: poiché dire che testo e contesto sono separabili con un taglio rigoroso vale quanto dire che posso isolare e avere integralmente presenti nello stesso tempo sia la cornice che il quadro, sia la forma che è condizione di possibilità della verità che il suo contenuto; invece, in senso antikantiano, contenuto e forma, linguaggio e metalinguaggio sono inesorabilmente intrecciati. Una conseguenza di quanto precede, o, se si preferisce, un altro modo di esprimere questa situazione è quello di dire che la ripetizione e la differenza sono inseparabili: condizione della trasmissione della verità è la (possibilità della) sua dispersione - così il tema della verità come gioco fra presenza e assenza porta al tema della verità come disseminazione . Nel seguito del saggio, Derrida insiste ancora di più sulla necessità del paradosso per il prodursi della comunicazione: perché ci sia comunicazione di verità bisogna che sia almeno possibile che il messaggio si perda; perché ci sia linguaggio serio e rigoroso, devono essere possibili gli usi impropri, parassitari, "non seri" del linguaggio.

Questo tema della parzialità della verità, del suo essere un gioco di pieno e di vuoto, del suo includere il paradosso e la contraddizione è un buon punto di partenza per collegare la decostruzione ad alcune posizioni contemporanee che si muovono fra ricerca scientifica e filosofia. Il primo parallelo, che si impone quasi spontaneamente dopo le considerazioni che ho appena fatto, è quello con Gregory Bateson; vari aspetti della sua riflessione possono essere avvicinati al pensiero di Derrida (che, per parte sua, non manca di riferirsi al tema del double bind ), ma il testo da cui mi sembra più opportuno partire è il metalogo "Perché le cose hanno contorni". In esso, come è noto, Bateson mette a fuoco il problema del contorno da molteplici punti di vista - il contorno e la tolleranza, il contorno e l' identità, il contorno e l' emozione, in generale il rapporto fra la libertà e la possibilità di eccedere i contorni - e verso la fine arriviamo a queste battute di "metalogo":

Figlia. Che cosa vuol dire per te che una conversazione ha un contorno? Questa conversazione ha avuto un contorno?

Padre. Oh, certamente sì. Ma ancora non possiamo vederlo, perché la conversazione non è ancora finita. Non si può vederlo mai, quando ci si è in mezzo. perché se tu potessi vederlo, saresti prevedibile - come una macchina. E io sarei prevedibile e noi due insieme saremmo prevedibili [Ivi , p. 68.].

Dunque, impossibilità di avere una chiara definizione del contorno finché siamo immersi nella comunicazione di cui esso è condizione, inevitabile parzialità di ogni meta-conoscenza_

Sui temi del contesto e su quello, ad esso strettamente connesso, dell' "apprendere ad apprendere", Bateson torna ripetutamente, insistendo specialmente sull' importanza di render mobili i contesti; dal nostro punto di vista, è interessante leggere queste affermazioni, tratte dal saggio La pianificazione sociale e il concetto di deuteroapprendimento [Anch' esso contenuto in Per un' ecologia della mente , cit., pp. 195 e sg.]:

E' luogo comune che il soggetto sperimentale, sia esso uomo o animale, diventa un miglior soggetto dopo ripetuti esperimenti. Egli non solo apprende a salivare ai momenti opportuni o a recitare le appropriate sillabe senza senso, ma anche, in qualche modo, apprende ad apprendere . Non solo risolve i problemi postigli dallo sperimentatore e che singolarmente sono problemi di apprendimento semplice, ma al di là di questo egli diventa sempre più capace di risolvere problemi in generale.

In un gergo da semigestalt o semiantropologico, potremmo dire che il soggetto apprende a dirigersi verso certi tipi di contesto, o che sta acquistando un certo 'intuito' per il contesto del risolvere problemi. Nella terminologia adoperata in questo articolo si può dire che il soggetto ha acquisito la capacità di cercare contesti e sequenze di un tipo piuttosto che di un altro, un' abitudine a 'segmentare' il flusso degli eventi per evidenziarvi ripetizioni di un certo tipo di sequenza significativa [Ivi , p. 204.].

Rilevante è anche richiamare il peculiare utilizzo che Bateson ha fatto della teoria dei tipi logici di Russell: tale teoria è da lui utilizzata come base per argomentare che, a partire da un determinato gradino della scala evolutiva, la comunicazione è possibile solo in quanto violi le prescrizioni russelliane che vorrebbero tener distinti i suoi vari "livelli". E' particolarmente interessante che Bateson guardi al fenomeno del gioco (che anche per Derrida è, come abbiamo visto, fondamentale: cfr., oltre alle menzioni letterali di esso, anche tutti i riferimenti al non-serio, al parassitario, alla finzione, nel citato saggio SEC) come esempio della violazione delle regole russelliane; non meno rilevante, per un confronto con Derrida, è il fatto che Bateson esamini la comunicazione e il gioco non limitandosi all' uomo, ma allargando la sua visione ai mammiferi (e, altrove, al vivente in generale):

questo fenomeno, il gioco, può presentarsi solo se gli organismi partecipanti sono capaci in qualche misura di metacomunicare, cioé di scambiarsi segnali che portino il messaggio: "Questo è un gioco" _ questo messaggio contiene gli elementi che di necessità generano un paradosso del tipo di Russell o di Epimenide _ si farebbe della cattiva storia naturale se ci si aspettasse che i processi mentali e le abitudini di comunicazione dei mammiferi si uniformassero all' ideale dei logici. E in realtà, se il pensiero e la comunicazione umana si uniformassero sempre all' ideale, Russell non avrebbe formulato, anzi non avrebbe potuto formulare, l' ideale [Ivi , p. 219-20 (il brano è tratto dal saggio Una teoria del gioco e della fantasia ).].

Anche sulla concezione generale della comunicazione le vicinanze fra Bateson e Derrida sono spesso sorprendenti. Farò solo un breve esempio, tratto dallo stesso saggio di cui ho appenda discusso. Bateson sostiene che la comunicazione non va intesa come un trasporto di significato, ma va pensata sul modello del rapporto fra mappa e territorio, e cioé come quell' insieme di regole tacite (Derrida direbbe: regole scritte ) che permettono di relazionare uno schema grafico a un territorio reale; queste regole non sono tacite accidentalmente , ma essenzialmente , poiché solo parzialmente essere possono essere portate alla coscienza; in parte, esse le sfuggono sempre:

_un messaggio, di qualunque genere, non consiste degli oggetti che esso denota ("la parola 'gatto' non ci può graffiare"). Il linguaggio, piuttosto, sta con gli oggetti che denota in una relazione paragonabile a quella esistente tra la mappa e il territorio. La comunicazione enunciativa, così come si presenta a livello umano, è possibile in seguito allo sviluppo di un insieme complesso di regole metalinguistiche (ma non verbalizzate) che governano le relazioni tra parole e proposizioni da una parte e oggetti ed eventi dall' altra [Ivi , p. 220.].

La conclusione che naturalmente Bateson trae da questo è che, in una certa misura, mappa e territorio devono essere sia distinti che confusi [Ivi , p. 225-6.], conclusione che è di nuovo molto vicina a Derrida.

Il secondo parallelo è invece con le ricerche epistemologiche di Francisco Varela e in particolare al volume La via di mezzo della conoscenza , di cui egli è autore insieme a E. Thompson e a E. Roesch [tr. it. Milano 1992.]. Anche questi autori tendono, come è il caso di Bateson, a riportare il fenomeno della conoscenza all' interno della natura; si insiste sul fatto che la verità deriva dal legame col contesto - in questo caso si parla di accoppiamento fra l' ambiente e un sistema vivente e della verità come prodotto di tale accoppiamento. Dal mio punto di vista quello che interessa far rilevare è come, anche in questo caso, il pernio del discorso sia costituito dai temi dello sfondo e della cornice, nonché della mobilità di quest' ultima; mi limito al seguente  riferimento:

_l' infondatezza è la condizione stessa del mondo dell' esperienza umana, così riccamente tessuto ed interdipendente. Abbiamo espresso questo concetto fin dal primo capitolo di questo libro dicendo che tutte le nostre attività dipendono da uno sfondo che non può essere mai vincolato ad un senso di solidità e finalità definitive. La mancanza di fondamento, quindi, dev' essere cercata non in qualche analisi lontana e filosoficamente astrusa, ma nell' eseprienza quotidiana. In realtà, l' infondatezza si rivela nella cognizione come "senso comune", e cioé nel sapere come comportarci in un mondo che non è stabile e prefissato, ma continuamente forgiato dalle azioni nelle quali ci impegniamo [Ivi , p. 176.].

In sede di conclusione, vorrei riprendere il discorso, precedentemente abbozzato, sullo heideggerismo di Derrida: esso deve essere letto in costante riferimento, oltre che alla tradizione fenomenologica, al tema del paradosso e alla concezione nietzscheana della verità come prodotto della forza vitale - verità che è insieme pratica e teorica. Questi riferimenti fanno sì che Derrida sia molto lontano dall' ortodossia heideggeriana e da alcuni temi che hanno larga parte nella riflessione heideggeriana successiva alla Kehre : il poeta come pastore dell' Essere, il privilegiamento della poesia e la sua contrapposizione alla scienza, alla tecnologia, ecc. Molto più sensibile è Derrida rispetto alla concezione heideggeriana della verità come evento , come novità imprevedibile, che non riflette le cose ma si fa con esse; così pure, egli è molto vicino alla tematica della verità come velamento/svelamento, di cui quella della verità come parzialità non è che una declinazione. Ma l' accettazione di queste fondamentali concezioni heideggeriane va insieme alla polemica con le affermazioni - altrettanto heideggeriane - secondo cui la scienza "non pensa"; al contrario, la "regione" del sapere scientifico, proprio alla luce degli sviluppi scientifici ed epistemologici più recenti - e gli esempi che ho dato ne sono un convincente indizio - si muove verso una concezione attiva , produttiva , antimetafisica della verità e dunque può collegarsi fecondamente all' eredità filosofica di Nietzsche e Heidegger.

A titolo conclusivo, voglio anche ricordare che questo incontro con la scienza non è rimasto per Derrida qualcosa di meramente teorico, ma ha conosciuto una realizzazione concreta nel Collège International de Philosophie , che fin dalla sua fondazione (di cui Derrida è stato un protagonista) ha avuto come caratteristica il collegamento della ricerca filosofica con altre discipline, e fra queste, in un ruolo nient' affatto secondario, con le discipline scientifiche [Disponiamo ora dei documenti di fondazione del Collège : cfr. Le Rapport bleu , Paris, 1998, che riunisce contributi di F. Châtelet, J. Derrida, J.-P. Faye, D. Lecourt.].

 

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