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Lettera sul significato nella musica

(Parol 7, 1991)
di Franco Ballardini

Caro Nanni, ho cominciato questa lettera circa un mese fa, in treno, sulla spinta delle sollecitazioni provocatemi dalla tua conferenza,[Le legalità della critica. Conversazione tenuta dal Prof. Nanni presso l'Ente bolognese Manifestazioni Artistiche, il giorno 7 dicembre 1989 nell'ambito del convegno dedicato all'identità della critica.](e dello stato di benefica eccitazione mentale che spesso mi procurano le mie visite bolognesi), pensando di concluderla e spedirtela in breve tempo. Poi, come spesso purtroppo mi accade (tu lo sai bene), ma anche per l'obbiettiva rilevanza dei temi affrontati (che in parte forse mi giustifica), la penna mi ha preso la mano, e le inevitabili, frequenti, interruzioni han fatto il resto. La lettera si è così allungata ben oltre le mie intenzioni, così come i tempi della sua stesura. E' divenuta forse verbosa e inconcludente: ma voleva in effetti essere interlocutoria.

La sostanza della tua conferenza mi era naturalmente nota e chiara: ma ho ugualmente apprezzato qualche perla che mi mancava (la "barca") e alcuni passaggi brillanti come la chiusa sulla natura culturale del concetto di "oggetto materiale" (il problema che, ricordo, ponevi a Prieto). Vorrei tuttavia aggiungere qualche domanda e qualche mia riflessione su (rispettivamente) due questioni forse marginali rispetto al tuo ragionamento ma che la tua relazione mi ha ugualmente suscitato.

La prima questione è quella della "causa causae". E cioè: una volta descritta la langue della pratica contemporanea dell'arte (vale a dire la norma secondo cui l'opera d'arte viene usata non come segno ma come oggetto materiale), e pur proseguendo la descrizione fenomenologica di una tale norma in tutte le sue articolazioni (statuto delle poetiche, funzionamento della critica, ecc.), viene tuttavia da porsi anche la domanda: perché la nostra cultura (occidentale, contemporanea) ha storicamente elaborato una tale langue?

Mi rendo conto naturalmente che si tratta di un quesito non solo ambizioso ma persino pericoloso e forse velleitario. Mi chiedo anzi se ce lo si possa legittimamente porre senza il rischio di cadere in ipotesi incontrollabili o inevitabilmente essenzialiste. So bene ad esempio che un tale interrogativo potrebbe facilmente contenere un mio desiderio vetero-marxista di semplicistici rispecchiamenti fra strutture economico-sociali e sovrastrutture culturali. Ma credo di aver letto abbastanza bene la dialettica marxíana per non cadere in simili semplificazioni. Sono infatti d'accordo con te che la tesi dell'"individualismo borghese" che sembra in effetti più voler rispondere a questa domanda che non descrivere la realtà contemporanea dell'arte - non spiega granché (è stato proprio questo passo del tuo discorso a risvegliare in me questa questione, benché la covassi in realtà da tempo). Sono d'accordo con te - anche se la confutazione da te usata mi pare debole: l'individualismo borghese mi sembra infatti avere le caratteristiche di una "norma sociale", di una regola (addirittura di un'ideologia) collettiva - sono d'accordo perché l'argomento mi pare troppo generico: povero quindi (in intensione) per spiegare la "conversione materiale" dell'opera d'arte, e troppo vago (in estensione) per stabilire una corrispondenza storica: quando nasce infatti l'"individualismo borghese"? Con l'800 industriale o con la scienza moderna seicentesca? Con la Riforma protestante o con i Comuni del '300? Certo, è vero che fenomeni come la critica e le poetiche degli autori si manifestano o si diffondono in maniera rilevante soprattutto a partire dall'800 - in coincidenza quindi con il pieno sviluppo della società industriale moderna, con la nuova condizione sociale di indipendenza/isolamento in cui si trova a vivere l'artista, con l'affermazione di un mercato dell'arte e di un'industria culturale. Ma ne deriva forse la polisemia dell'opera d'arte? E - a proposito - qual è il termine a quo della langue contemporanea dell'arte? Ma vi è anche un altro versante della questione: non solo quello "verticale" di tipo socio-culturale, bensì quello "orizzontale" interculturale: e cioè quali altri rami della cultura contemporanea presentano (se la presentano) una qualche analogia con ciò che avviene nel campo dell'arte? L'estetica medievale risentiva evidentemente (ma non sono un esperto in materia) del paradigma della teologia medievale. Quali settori invece della cultura contemporanea (se ve ne sono) manifestano un rapporto (sia pure, in questo caso, non necessariamente causale o di priorità gerarchica) con quanto succede nella pratica dell'arte? Certo: vi "entrano" la psicoanalisi o lo strutturalismo - in quanto paradigmi interpretativi usati per la risignificazione dell'opera d'arte; ma per quel che riguarda, più a monte, la sua stessa trasformazione in "oggetto materiale"?

Non vorrei, con tutto ciò, averti posto interrogativi che magari esulano dai tuoi interessi - e certamente esterni all'estetica in senso stretto. Cerco allora di rimediare (forse) almeno in parte sottoponendoti alcune mie osservazioni su un altro problema, anch'esso "secondario" (ma tuttavia citato di passaggio) nella tua relazione. Si tratta del "significato" della musica. Problema "grosso" e impegnativo, anche questo; e che tuttora - nonostante il desiderio di farlo - non posso ancora dire di aver affrontato in modo serio e sistematico. Ricordo però quando me ne chiedevi qualche anno fa ("la musica è fatta solo di suoni o anche di significati?") e ora credo di poterti rispondere - sia pure in maniera non ancora organica ed esauriente - che sì,significati ve ne sono eccome: e più ci penso, più la cosa diventa qualcosa di più di una semplice opinione.

Non vorrei dar l'impressione di scoprire l'acqua calda: se ne parlo è per dirne qualcosa di più (o di diverso) rispetto a quel che già ne ha detto la semiologia della musica e - se mi consenti per aggiungere qualcosa anche al tuo breve cenno sull'argomento. Premetto che la tua conclusione ("vi è comunque una duplicità che è tipica del segno") mi pare, in fin dei conti, risolutiva - e giustamente risoluta; ma i termini che vi hai premesso ("sia che si tratti di un significato magari 'aconcettuale' o di un 'grumo affettivo'") ríspecchiano evidentemente tutta la problematicità - anche terminologica - di una questione da sempre dibattuta e tuttora controversa, per la quale invece mi pare esistano oggi gli strumenti per un chiarimento almeno a livello della terminologia appunto.

Leggo ad esempio Fubini, alla voce "Estetica musicale" del DEUMM UTET, e vedo che le categorie di "asemanticità" e di "aconcettualità" della musica sono ricorrenti nel dibattito critico (anche recente) sull'argomento. Ebbene: la prima mi sembra francamente assurda: sostenere la asemanticità della musica è tutt'uno con l'escluderne lo statuto di linguaggio (salvo cadere nell'aporia di un "linguaggio asemantico"); se abbracciamo questa tesi il problema è semplicemente negato: rimane però in piedi non solo l'abbondante letteratura teoretica che se n'è occupata ma anche (e soprattutto) la ricca fenomenologia storica di un uso "linguistico" (nel senso di "semiosico, comunicativo") della musica. Quanto all'aconcettualità: mi pare categoria impropria, derivata anacronisticamente da un'originaria accezione kantiana. E infatti Kant a definire la musica "aconcettuale": ma - a parte fi fatto che lo stesso ragionamento kantiano sulla musica, per quanto succinto, mi sembra più complesso di quel che appare a prima vista, e meriterebbe credo un'attenta rilettura - è comunque noto che la nozione di "concetto" ha nel sistema kantiano un significato del tutto particolare e specifico, che certo non coincide con quello oggi corrente. Se infatti, per dirla con Prieto, é un concetto anche l'identità sotto cui si riconosce un oggetto, ossia l'intensione (la "comprensione") della classe di cui esso viene riconosciuto membro, allora è evidente che sono "concetti" anche i significanti e i singoli fonemi di una lingua. E sotto questo profilo non v'è dubbio che la musica sia piena di concetti: lo sono tanto il tema della Quinta di Beethoven quanto il timbro di un flauto; più in generale: tutti gli intervalli melodico-armonici e tutte le figure ritmico-metriche che il soggetto "musicante"/ascoltante riconosce, così come i tratti timbrici che permettono il riconoscimento delle diverse fonti sonore, o i tratti "soprasegmentali" dovuti all'intensità e al tempo di esecuzione; per non dire poi dei temi musicali di un'opera o della sua struttura formale. In tutti questi casi insomma si ha a che fare con identità pertinenziali attraverso cui viene conosciuta la realtà materiale dei suoni.

"Concettuale" dunque già a livello del significante, a quali significati rimanda poi la musica? Qual è l'"aliquo" per cui stanno codesti "aliquid"? 0 ancora: qual è il punto di vista (le altre conoscenze) da cui deriva la pertinenza di siffatte identità? . Vi sono naturalmente, in seconda battuta, i significati di poetica o della critica (ivi compresa, per quanto di sua competenza, la storiografia musicale): il senso (i sensi) cioè che la musica (la musica nel suo complesso e i singoli testi musicali) si trova ad assumere nelle sue molteplici interpretazioni metalinguistiche. Ma il problema cui tu accennavi mi pare anteriore a quello della pratica artistica della musica (della sua eventuale, contemporanea, polisemia e via dicendo): si tratta piuttosto, in prima battuta, della sua significazione originaria; di verificare insomma il suo effettivo status di linguaggio in senso per così dire discorsivo.

Ecco allora due diverse formulazioni che sembrano sforzarsi di mettere a fuoco in maniera più precisa la medesima difficoltà analitica che ha generato le categorie di "asemantícità" e di "aconcettualità" della musica. La prima insiste sul carattere "nonreferenziale" del significato musicale; la seconda sull'esistenza di un "significato ímmanente" al fatto musicale. Gino Stefani, nella voce "Semiotica della musica" (sempre DEUMM UTET) da cui le riprendo, le critica entrambe e con validi argomenti: ma in maniera forse troppo liquidatoria. Critica la prima rifacendosi alla critica della fallacia referenziale svolta da Eco nel Trattato: nessun significato coincide con il referente, qualsiasi sistema di significazione rimanda in realtà ad unità culturali. Più che giusto. Nessun dubbio cioè sulla distanza tra significato e referente, e sul fatto che ogni linguaggio comunichi unità culturali e non referenti materiali. Ma una differenza esiste: una differenza, intendo, fra significati con o senza referente, fra il senso della parola "sedia" e quello della parola (che so) "razionalità", fra significati insomma (perdona la mia ignoranza in materia di semantica verbale) che si riferiscono o meno ad "oggetti materiali". E altrettanto pacifica sembra la debolezza referenziale della musica, il fatto cioè che quello musicale sia un linguaggio povero di significati referenziali (nel senso sopra detto). Anzi: il significato della parola "razionalità", per quanto astratto, si riferisce pur sempre a un'entità "esterna" al linguaggio verbale, mentre è probabile che buona parte dei significati musicali assomiglino a quelli del linguaggio (non a caso) matematico, dove determinate espressioni (una radice quadrata, un logaritmo, un'equazione algebrica) hanno significati non solo privi di referenti materiali, ma del tutto "interni" alla matematica stessa: per i quali cioè non esiste alcun riferimento extramatematico.

E' dunque possibile che proprio questo fatto abbia condotto, per via della fallacia referenziale di cui sopra, all'idea della "asemanticità" della musica (niente referenti= niente significati); ma una volta sgombrato il campo da codesta fallacia ( e anzi proprio per questo) diventa plausibile non solo riparlare di un significato della musica ma anche (mi pare) recuperare la nozione di "di significato non-referenziale" come strumento più appropriato e fecondo per analizzare quell'"astrattezza" del significato musicale altrimenti indicata come "aconcettualità". (Un'astrattezza anzi che, se per un verso ha sempre reso più difficile la definizione del significato musicale, per un altro sembra tanto più accordarsi alla connotazione "astratta" del termine "concetto". ) Considerazioni analoghe valgono a mio avviso anche per la seconda tesi contestata da Stefani: il significato - egli osserva giustamente - è sempre "altro" dal significante, per cui l'idea di un "significato immanente" o è un controsenso oppure finisce di nuovo per negare la semanticità della musica appiattendola sul solo significante. D'accordo. Anche in questo caso però mi sembra che con l'acqua sporca si getti via pure il bambino. Che in quella tesi cioè si esprimano, per quanto mal formulate, osservazioni utili e fondate: ciò che infatti viene chiamato "immanenza" può essere inteso piuttosto come l'esistenza di un rapporto molto stretto fra significante e significato, un rapporto cioè non-arbitrario ma "motivato" e "simbolico" (per usare i termini saussuriani), mettendo così in evidenza il forte "iconismo" del linguaggio musicale; e può nel contempo essere letto come una ulteriore sottolineatura dell'esistenza di significati "puramente musicali", rinviando così al discorso precedente sulla non-referenzialità del linguaggio musicale. Ho l'impressione che proprio la sottovalutazione di simili istanze conduca poi lo stesso Stefani a collocare l'intera teoria musicale fra gli s-codici, ovvero a relegarla in blocco sul versante del significante precludendosi così la possíbilità di indagare una parte non secondaria della semantica musícale. Ma vediamo prima qualche esempio storico del tentativo di svelare il significato nella musica.

Vi è innanzitutto una linea che potremmo chiamare (secondo l'uso corrente) "pitagorica", secondo la quale la musica ha un significato per così dire ontologico e spesso metafisico. E' una linea che parte appunto da Pitagora (meglio: dai Pitagorici) e arriva ad Agostino e Boezio, poi Zarlino, Cartesio, Mersenne, Leibníz, Eulero, Rameau, Tartini, per certi verso lo stesso Schopenhauer, fino ai positívisti (Helmholtz, il primo Riemann), persino Schónberg e Hindemith. L'elenco è naturalmente schematico, e assimila cose anche molto diverse. 0 meglio: la tesi vi si trova formulata in modi diversi: in un primo tempo in termini puramente matematico-cosmologici (i suoni musicali rispecchiano i rapporti numerici dell'universo), poi (da Rameau in avanti) in termini fisico-naturalistici (i suoni musicali rispecchiano il fenomeno acustico dei suoni armonici naturali), oppure (è il caso di Schopenhauer, in parte dello stesso Schonberg) in termini mistici (la musica è il linguaggio dell'universo). E' una tesi che ha in realtà quasi sempre i caratteri della "naturalizzazione ideologica": che tende cioè ad affermare il carattere naturale e universale di un certo linguaggio musicale; ma la si può leggere anche (e talvolta si presenta effettivamente) come "ideazione primaria", vale a dire come attribuzione di senso (come istituzione o esplicitazione di significato insomma) analizzabile quindi in termini semiologici. In quest'ottica allora abbiamo un vero e proprio codice: il significante musicale sono i rapporti fra i suoni (gli intervalli melodico-armonici) definiti (ecco i tratti pertinenti) da determinati rapporti numerici; il significato (ciò da cui deriva la pertinenza di quei tratti) è l'esistenza di quegli stessi rapporti fra le sfere del cosmo tolemaico (ma anche copernicano: cfr. Keplero) o nel fenomeno fisico (nell'armonia naturale) dei suoni armonici; un significato dunque "iconico" e (questa volta) "referenziale". Rimangono due problemi: il primo è che tale significazione funzionerebbe, secondo tutti gli autori citati, in maniera inconscia (un meccanismo certamente anomalo rispetto al funzionamento del linguaggio verbale e, forse, di ogni linguaggio propriamente detto); il secondo è che i rapporti matematici o fisici chiamati in campo dalla serie di autori in elenco in realtà non coincidono per lo più con quelli della musica ad essi contemporanea - il che ci riporta al carattere di "naturalizzazione ideologica" di codeste teorie. Ma ancora una volta la conclusione può essere duplice: possiamo scartare tutto il discorso, in quanto ideologico, e basta; oppure possiamo cercare di vedere se in esso, oltre all'intento "ideologico", non si nasconda anche qualche verità, per quanto parziale.

L'esistenza di codesta ampia letteratura teoretica è un fatto, così come è un fatto l'inserimento medievale della musica nel quadrivium - assieme a matematica, geometria, astronomia. E soprattutto è un fatto la dimensione "spaziale" del significante musicale, o (meglio) di quella sua componente (predominante nella musica colta europea) costituita dal parametro "altezza dei suoni" e organizzata nella melodia e nell'armonia musicali; un parametro (è il caso di ricordarlo) puramente percettivo: i suoni infatti, da un punto di vista fisico, non sono né alti né bassi; è la loro percezione umana (in base a meccanismi non ancora del tutto chiariti) a trasformare in "altezza" la frequenza delle vibrazioni acustiche, creando così uno spazio "immaginario" che poi la teoria musicale segmenta e organizza, regolando in modo molto preciso i movimenti melodico-armonici che vi compiono i suoni musicali. Ora: il tentativo di ricondurre tutto questo a principi naturali d'ordine cosmologico o fisico è senza dubbio fallace e ideologico; ma non è detto che - depurati dall'essenzialismo metafìsico o naturalistico che li vizia, e al di là delle incongruenze teoriche che contengono (dei numeri errati o che non tornano insomma) - tali tentativi non esprimano qualche verità pertinenziale e storicamente valida: in particolare per ciò che riguarda il possibile collegamento esistente fra l'organizzazione musicale dello spazio sonoro e la concezione dello spazio e del movimento dei contemporanei modelli filosofici o scientifici (o comunque propri della cultura del tempo).

La cosa, a prima vista, sembra in effetti proponibile per la prima versione della tesi (quella matematico-cosmologica) e non per la seconda (quella fìsico-naturalistica) dove tutto il discorso pare concentrarsi esclusivamente su fenomeni puramente acustici e senza alcun altro "referente". In realtà anche il fenomeno dei suoni armonici viene utilizzato (da Rameau e altri) non solo per le caratteristiche che effettivamente presenta, ma anche attribuendovi come "naturali" caratteristiche che invece (dal punto di vista fìsico) non possiede affatto - e che risultano poi decisive per la "naturalizzazione" in programma. Non saranno allora proprio queste caratteristiche - del tutto "innaturali" e riconducibili a parzialità storica - a risultare rivelatrici? Non sono in grado, al momento, di stabilire simili connessioni fra la musica antica e medievale e l'universo tolemaico; ma per quel che riguarda Rameau la risposta mi sembra affermativa: le caratteristiche davvero "naturali" del fenomeno degli armonici (i rapporti di frequenza fra i suoni) sono proprio quelle che non funzionano rispetto alla teoria musicale, mentre quelle che Rameau attribuisce ad esso e che il fenomeno in sé non presenta (i rapporti gerarchici e di "attrazione gravitazionale" fra i suoni) trovano invece riscontro nell'armonia musicale tonale... e assomigliano singolarmente all'universo newtoniano.

La tentata naturalizzazione fallisce quindi due volte: sia per la mancata corrispondenza tra fatti musicali e fatti naturali, sia perché gli stessi presunti fatti "naturali" si rivelano non essere tali; ma proprio questa seconda smentita scopre l'esistenza di "unità culturali" che - caduto il desiderio di naturalizzazione ideologica - potrebbero svelare un effettivo meccanismo di significazione. Inconscia? Forse. Certo non più, a questo punto, referenziale: poiché il rapporto con eventuali modelli spazio-dinamici scientifici (o tout court culturali, epistemici) mi parrebbe configurarsi più come un rapporto di omologia fra campi culturali diversi che come vero e proprio riferimento semiosico. Ma qui mi fermo e passo oltre.

Vi è una seconda linea di pensiero sul significato della musica: è la linea che parte dalla teoria greca dell"ethos" (sostenuta da Damone e molti altri teorici, fatta propria anche da Platone e Aristotele) e arriva alla teoria degli "affetti" tardo-rinascimentale e sei-settecentesca (ancora Zarlino, Vincenzo Galilei, Kircher, Mattheson, Scheibe, ecc.) per sfociare nell'estetica romantica del "sentimento" (Hegel, Schopenbauer, Hoffmann, Wackenroder, Mendelssohn, Schumann, ecc.). Anche in questo caso un percorso internamente differenziato, contenente posizioni talvolta solo indirettamente semiologíche o che configurano strutture semiotiche diverse. La teoria dell'ethos, ad esempio, sembra occuparsi, in prima istanza, più dell'effetto morale che del significato della musica - secondo un approccio dunque più vicino alla psicologia che alla semiologia della musica in senso stretto. E tuttavia - a parte i legami saussuriani fra semiologia e psicologia sociale - la stessa dottrina greca (specie con Aristotele) riconduce tale effetto morale alla capacità della musica di "imitare" i sentimenti e le passioni umane: e francamente semiologiche appaiono le vere e proprie tassonomie elaborate nella Grecia antica sulla corrispondenza fra precisi modi e generi musicali (in senso strettamente tecnico) e determinati stati d'animo ed effetti morali (significati insomma: iconici e non-referenziali - a meno di prendere alla lettera certe considerazioni platoniche sul comportamento che ne deriverebbe - anche se extramusicali); basti pensare al celebre passo della Repubblica in cui Platone censura le armonie mixolidia e sintolidia perché "lamentose", e quelle ionica e lidia perché "molli" e "languide", salvando solo le armonie dorica e frigia perché "imitanti" il "coraggio" e la "fermezza", la "saggezza" e la "moderazione".

Ancora più esplicito e molto articolato è poi il parallelo con il linguaggio verbale sviluppato dall'"Affektenlehre" barocca. Le sue origini anzi risiedono nei "madrigalismi" di fine '500 e nella nascita del melodramma seicentesco: forme musicali dunque strettamente connesse con la parola e dove tale rapporto viene spinto fino all'invenzione di "metafore" musicali del corrispondente senso verbale. Appunto questo è il procedimento codificato, ampliato ed esteso anche alla musica strumentale dalla "teoria degli affetti": che giunge alla definizione di veri e propri vocabolari musicali in cui una vasta gamma di sentimenti sono significati da precisi tratti del significante musicale (determinati intervalli e figure melodiche, l'uso di accordi consonanti e dissonanti, certi ritmi e timbri strumentali, ecc.) ricorrendo addirittura alla traduzione musicale di molte figure retoriche.

Più complessa è invece la situazione in ambito romantico: da un lato il significato della musica (e il Sentimento che essa significa) viene esaltato proprio perché indefinibile e sfuggente al linguaggio verbale (ciò soprattutto nell'estetica musicale di parte filosofica e letteraria); dall'altro (da parte dei musicisti romantici) si parla invece di significati e sentimenti molto precisi e determinati, arrivando persino a darne traduzioni verbali estremamente particolareggiate (cfr. Schumann) ma per lo più carenti circa il nesso con il significante musicale: è l'intera opera nel suo complesso cioè a significare contenuti sentimentali anche molto ricchi e articolati, senza che però ne siano indicati in maniera altrettanto articolata gli elementi significanti. Il problema in un certo senso verrà risolto nel secondo Romanticismo con la "musica a programma" di Líszt e con il teatro wagneriano: dove il testo musicale (strumentale o vocale che sia) viene costruito sulla base di un programma narrativo-letterario o del testo drammatico. Un rapporto di significazione che però a questo punto va ben oltre il puro significato sentimentale per riaprire forme di significazione molto più ampie, magari pur sempre iconiche ma spesso anche referenziali: dal momento che ai diversi significanti musicali (melodie, accordi, strumenti, ecc.) possono corrispondere sia stati d'animo e contenuti ideali (l'Amore, la Morte, ecc.) ma soprattutto personaggi, situazioni, perfino oggetti più o meno simbolici (l'Anello dei Nibelunghi, ecc.). Una soluzione quindi ricollegabile ad un'altra linea, più o meno subordinata e díscontinua ma frequente nel corso della storia della musica colta europea: la linea cioè del "descrittivismo" musicale: da quello "onomatopeico" delle Stagioni di Vivaldi (che imitano i suoni della natura: uccelli, temporale, vento, ecc.) a quello ottocentesco di matrice appunto letteraria, fino alle sinestesie píttorico-musicali dell'ímpressionismo debussiano.

Ma per questa via (seguendo Liszt, intendo) ho un po' deviato dal problema centrale finendo nell'inesauribile campo delle significazioni di opere o repertori musicali specifici: mentre il tema di partenza era proprio l'esistenza di una significazione musicale di base, anteriore e più generale rispetto ai singoli testi. Riprendo allora il filo ripartendo da Hanshck: dalla sua polemica antiromantica e "antisentimentale" di metà '800. La musica non esprime i sentimenti - dice Hanshck - tutt'al più la loro "dinamica" (che è pur sempre qualcosa). Più in generale: essa esprime contenuti "puramente musicali". Ci risiamo: il contenuto (il significato) della musica è "difficile da definire" (da "tradurre") a parole, è "diverso" da quello del linguaggio verbale. Ma persino il "formalista" Hanslick parla di "contenuto" della musica. A cosa si può riferire? Certo a significati non-referenziali, addirittura neppure "sentimentali" (se non per via di pure analogie "formali"); che altro? Hanslick a un certo punto parla della musica come "arabesco": torna così in mente la prima linea, quella di un significato "spaziale" della musica come organizzazione del movimento. E credo che qualcosa di più preciso lo si possa trovare in proposito nella teoria musicale, in quel vasto insieme di "codici" e di "grammatiche" normative che troppo spesso la semiologia musicale (Stefani, per certi versi lo stesso Nattiez) si limita a considerare come pura organizzazione del significante musicale. Credo invece che proprio li dentro si "nascondano" anche veri e propri "significati". Un solo esempio: l'armonia tonale classifica gli accordi musicali in consonanti o dissonanti ma gli stessi accordi sono stati classificati in modo opposto dall'armonia modale pre-tonale o da quella pantonale post-tonale (o da altre teorie armoniche ancora diverse). E - così come una "consonante sonora" può essere o non essere riconosciuta come tale, ma non può certo essere riconosciuta come "non-sonora" - alla stessa stregua le diverse caratteristiche materiali di un accordo musicale potranno essere riconosciute come pertinenti oppure no, ma non potranno certo essere riconosciute in maniera opposta. Se ciò avviene (com'è di fatto avvenuto) vuol dire che i concetti di consonanza e dissonanza individuano non caratteristiche materiali del significante ma piuttosto veri e propri significati cui corrisponde, volta per volta, una diversa pertinentizzazione dell'universo sonoro. E lo stesso vale, a mio giudizio, per l'insieme delle funzioni sintattiche e gerarchiche che la teoria musicale (cfr. A Rameau di cui sopra) assegna ai diversi intervalli melodici e ai gradi della scala musicale (non è forse piena di significato anche la sintassi?). Intendiamoci: si tratta di significati molto semplici, una sorta di "topologia" elementare simile a quella che si può trovare (che so) nel gioco degli scacchi o della dama... o nella danza (tutti fenomeni non a caso spesso correlati, direttamente o metaforicamente, alla musica). Ma pur sempre di "significati" si tratta, e "interni" alla teoria musicale: e forse proprio ad essi allude tutta l'ampia letteratura sul significato "puramente musicale" della musica. Una significazione che forse la semiologia potrebbe (dovrebbe potere) mettere in chiaro, oggi, senza più incorrere nell'equivoco di una musica asemantica o "puramente sintattica", o nell'ambiguità di significati musicali aconcettuali o "immanenti" (solo perché non-referenziali e fortemente iconici). Il che non esclude naturalmente l'esistenza e lo studio di altre significazioni musicali più ricche (ma, temo, meno generali e costanti) e d'altro tipo (penso ad esempio alla musica di danza o da ballo il cui ritmo significa - in modo iconico ma referenziale - la danza o il ballo corrispondenti, o più in generale al fatto che ogni musica - come dice Stefani - "significa" la funzione che è la propria: sacra, d'intrattenimento, ecc. - o alle multiformi significazioni legate a determinati repertori, sottocodici stilistici, singoli testi, e così via). Ma qui davvero mi fermo e mi scuso per l'involontaria prolissità di questa "lettera". Grazie per l'attenzione e a presto.*

*Saremmo contenti se questa lettera del prof Ballardini, della quale ovviamente lo ringraziamo, aprisse un dibattito sull'argomento. Ce l'auguriamo.

La risposta di Fausto Garbin

 

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