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Meridianità della filosofia
(Parol on-line, settembre 1999)

di Antonello Giugliano

Dissoltasi per sempre, da sé, ma con una dissolvenza che è ancora in divenire. Essa, oggi, rivela innegabilmente una forte inclinazione ad ammutolire. Il che solo indirettamente ha a che fare con le difficoltà, non sottovalutabili, connesse all'imporsi di una pluralità di opzioni culturali prima d'ora inedite, con l'accelerato declino dei cosiddetti saperi umanistici tradizionali, o con la vivace propensione di essa tanto alla chiacchiera quanto all'ellissi di sé.

Essa si afferma, dunque, ma al margine di se stessa: per poter sussistere, incessantemente evoca se stessa e attraverso ciò si riconduce dal suo ormai già non esser più al suo apparire pur sempre ancora, tuttora, di nuovo.

Come è possibile chiamarla ora, da capo? Cioè attraverso quali parole tratte non più da essa com'era e qual era, ovvero, pur se ridondanti delle antiche fattezze, che però siano parole all'altezza della sua attuale autodissolvenza e che perciò provengano dall'avanzare di questo suo proprio diventare altro?

Ciò può avvenire riprendendo le formulazioni che provengono da altre contrade in cui si giocano altri tentativi di rinominarla. Tentativi così lontani che non la chiamano nemmeno più con il suo vecchio nome. Sta qui un vantaggio. Ma anche il rischio di far scivolare un tropismo nell'altro.

Nondimeno da quelle contrade è possibile riattingere un nuovo passo, un nuovo respiro del pensiero: al cui contenuto azzardare di dare il vecchio nome non può solo apparire bizzarro, in quanto pure di là, da quella lontananza, si tenta di sbarazzarsi di un vecchio nome, e precisamente usandolo ancora come emblema di una singolarità che vale per tutti ed innanzitutto per sé: come propria uni-versalità. Il poeta la chiamerà poema e poesia. Altri, a cui nominare il sé ed il proprio sfugge maggiormente, filosofia. Non a caso, perciò, questo reimporto di nomi avviene dalla prosa (appunto) filosofica del poeta, non direttamente dalla sua intangibile poesia.

Con ciò essa, l'innominabile 'filosofia', che come tale può rendersi nominabile solo riprendendo le formule del poema in cui si è ormai oggi dislocata, prende l'accento acuto del presente, poiché essa non è qualcosa di atemporale: come rivendicazione di infinitezza, cerca di aprirsi un varco attraverso il tempo: attraverso il tempo ma non sopra il tempo ed a prescindere da esso: per afferrare l'individuatezza del tempo stesso sempre di volta in volta proprio di sé. Quindi come accento acuto del presente nella massima finitezza della storicizzazione esistenziale. E cioè non più l'accento grave della storia di un passato antiquario e falsamente monumentale, né l'accento circonflesso dell'estensione sovrastorica dell'eterno.

Porsi fuori della vecchia filosofia, durata fin oltre le soglie di questo secolo, è allora come un uscir fuori dell'umano, un trasferirsi - uscendo da se stessi - in un dominio arcano, inumano, perturbante e spaesante, che però è rivolto verso l'umano: quel dominio in cui sembrano essere di casa l'animalità dell'animale, l'automaticità della natura e della tecnica, la genialità artistica etc. Si tratta certo di arcani tanto perturbanti e spaesanti quanto quello della creaturalità della creatura, di quella totale finitudine che è ormai nell'aria stessa che ci tocca respirare ogni attimo.

A partire da questa ultrafinitezza che ha consistenza solo nel suo singolare autoapparirsi si sviluppa una, nel senso più autentico, radicale messa in questione della vecchia filosofia, una messa in questione cui la 'filosofia' odierna, il pensiero odierno, deve far sempre di nuovo ritorno se vuole continuare a essere interrogazione.

Non è più lecito, infatti, partire dalla filosofia come da un qualcosa di già dato e da presupporre incondizionatamente. Occorre pensare fino in fondo, fino alle sue estreme conseguenze, il pensiero di Heidegger, e cioè innanzitutto attraverso l'antifilosofia di Nietzsche (e assieme a ciò che a questa è apparentato, in termini di nuovo pensiero, 'poesia' etc.). Chi porta la vecchia filosofia negli occhi e nella mente, costui, come un io, è dimentico di sé (e del sé). Quella, che esige una determinata distanza e un determinato cammino in una direzione ben determinata, crea lontananza dal sé.

E la 'filosofia'? La 'filosofia' alla fin fine (cioè a quella che sarebbe perciò già la sua fine) non è tenuta a percorrere il cammino della vecchia filosofia? Essa, la 'filosofia', come la vecchia filosofia, non va forse con un io dimentico di sé (del sé) verso quel che di arcanamente perturbante ed estraneo per rendersi nuovamente libera? Ma libera dove? in che luogo? con che cosa e in quanto che cosa? In questo caso la vecchia filosofia non sarebbe niente di più e niente di meno che il cammino che la 'filosofia' ha dovuto percorrere e lasciarsi dietro per diventare se stessa.

Ma il senso unico dell'io, la direzione storico-mondiale dell'io, quella che veritativamente , aletheiologicamente, mette capo anche alla propria dissoluzione vetero-filosofica come ipseità del temporalizzarsi del tempo, non coincide con quella del sé più proprio che è il luogo individuale, uni-versale, della 'filosofia', del suo farsi libera per il passo in avanti della semplice ek-stasi temporale del sé in se stesso.

In tal senso, la 'filosofia' tenta di far apparire la figura, l'apparenza, nella direzione che le è propria: quella del suo proprio autoapparirsi. Questo 'è' l'autentico. Il luogo in cui risiede l'estraneo, il luogo in cui si libera l'apparire del sé. Ciò forse equivale , per dir così, a camminare sulla testa e perciò, per tale rivolgimento, ad avere il cielo come abisso sotto di sé. Ma non vale obiettare a questa 'filosofia' d'oggi la sua oscurità, in quanto essa invece proprio della mancanza di chiarezza fa professione: e cioè in quanto questa oscurità è la chiarezza propria della 'filosofia' in vista di un incontro che muove dall'autoapparire di una distanza o estraneità. E' perciò che, anche a proposito della vecchia filosofia, occorre tenere presente che esistono, e nella stessa e identica direzione, due diverse estraneità: l'una strettamente accanto all'altra.

La 'filosofia' può significare una svolta del respiro e del ritmo del pensiero. La 'filosofia' percorre il suo cammino, ripercorrendo anche il cammino della vecchia filosofia, proprio in vista di una tale svolta. Qui l'io si libera infine per il qui ed ora dell'autoapparire siffattamente del sé. E' a partire da questo punto che la 'filosofia' è se stessa e ora può percorrere, in questo modo afilosofico ed emancipato dalla filosofia - in modo antifilosofico -, le proprie altre strade, dunque anche le strade della filosofia: percorrerle più e più volte (anche nella cosiddetta ricostruzione storico-filosofica).

A ogni 'filosofia' rimane inscritta la 'data' del suo apparire in quanto simultaneo autoapparire del darsi proprio del sé.

La cosa nuova nella 'filosofia' che oggi si scrive è precisamente il fatto che si tenta con la massima chiarezza possibile di non smarrire il senso di quelle date. Anche di quella lunga data propria di tutta la lunga storia della filosofia (fosse anche solo quella del nostro secolo). E' da queste date infatti che ognuno di noi scrive il proprio nome, quello del proprio sé, e dalle quali l'esistenza indissolubilmente a quello unita individualmente e irripetibilmente consegue. La domanda è ogni volta perciò: a quali date ascriviamo ed imputiamo l'irripetibilità del nome e dell'esistenza individualmente propri del sé?

La 'filosofia' è di volta in volta memore delle proprie date, che sono date del sé di volta in volta suo, e perciò essa parla sempre e soltanto del suo più proprio sé. Si potrebbe anche dire che essa parla rigorosamente in prima persona.

Ma, qui, non si tratta proprio più della personalità di un io, quello della vecchia filosofia, immemore di date e di/del sé (delle date del sé). Infatti, da sempre, la speranza della 'filosofia', allorché essa appariva come filosofia, è stata quella di parlare, precisamente in tal modo, per conto di un altro, per conto di tutt'altro: per conto del sé (e di sé). Nessuno può dire quanto a lungo questo nuovo respiro e ritmo del pensiero possa durare, se e quando esso in quanto 'filosofia' verrà sommerso.

Il balenare di quel suo ritmo, il cui balenìo una volta la poneva fuori dalla filosofia, ha oggi guadagnato in velocità e consistenza. La 'filosofia' ne è consapevole e nondimeno ovvero proprio perciò si dirige, senza lasciarsi fuorviare, verso quel totalmente altro che essa pensa come raggiungibile, come suscettibile d'essere liberato, forse come già vacante, e con ciò allo stesso tempo orientato alla 'filosofia'.

Essa si afferma, dunque, attraverso l'incessante evocazione di se stessa e con ciò si riconduce dal suo ormai già non esser più al suo apparire pur sempre ancora, tuttora, di nuovo; ma questo apparire pur sempre ancora, tuttora, di nuovo, della 'filosofia', in quanto nuovo respiro e ritmo del pensiero del sé e dunque dell'altro, non può non essere che un parlare: epperò, come essa, non un linguaggio assoluto e perciò neppure un mero corrispondere di parole a parole, bensì un linguaggio attualizzato, affrancatosi sotto il segno di un processo di individuazione, indubbiamente radicale, ma, allo stesso tempo, permanentemente memore dei limiti e simultaneamente delle possibilità che la lingua e con ciò l'autoapparire dell'ostensione dell'esistenza storica stessa gli impone e insieme gli dischiude.

Questo apparire pur sempre ancora, tuttora, di nuovo, proprio della 'filosofia', lo si può certo ritrovare solo nella 'filosofia' di colui il quale non dimentica che sta parlando sotto l'angolo d'incidenza della sua propria esistenza, l'angolo di incidenza del suo esserci, l'angolo di incidenza della sua condizione creaturale. E allora la 'filosofia' sarebbe, ancora più chiaramente, linguaggio, diventato figura, ostensione, autoapparirsi, di un singolo individuo, e, perciò, nella sua più intima essenza: 'presente' e 'presenza'.

Perciò, la 'filosofia' è solitaria. Solitaria e in cammino. Chi la scrive le resta inerente. Essa si colloca, proprio per questa ragione, dunque già a questo punto, dentro l'incontro: dentro il mistero dell'apparire dell'incontro di un sé con un sé. In quanto la 'filosofia' tende ad un che di altro; essa ha bisogno di questo che di altro; essa ha bisogno dell'autoapparire del sé. Lo va cercando; e si assegna ad esso dedicandovisi. Ogni fenomeno, ogni cosa, ogni essere umano e non umano, anche la stessa storia della filosofia, per la 'filosofia' che è protesa verso l'altro, è l'apparire di una figura di questo altro.

L'attenzione che la 'filosofia' cerca d'ora in poi di dedicare a tutto ciò che le si fa incontro, il suo acutissimo senso per il dettaglio, il profilo, la struttura, il colore dell'apparire, ma anche e soprattutto per i 'balenii', i guizzi, le intermittenze, i sussulti, i palpiti e le 'allusioni' dell'apparenzialità stessa dell'apparire, tutto questo non è (o almeno non è solo) la conquista della forma specifica di un occhio filosofico che si vuole in gara o in concomitanza (adeguata all'epoca della 'scannerizzazione' e 'digitalizzazione' planetaria) con apparecchiature ogni giorno tecnologicamente più perfette, bensì è il raggiungimento di una concentrazione del pensiero che resta memore di tutte le proprie date, di tutte le date dell'autoapparire di sé, le date in cui questo autoapparire si dà.

Attraverso questa 'attenzione' che costituisce come la sua più propria e spontanea e laica pietas, la filosofia, pur tra infiniti condizionamenti, diventa la 'filosofia' di un sé che continua pur sempre ancora a percepire e perciò a pensare essendo rivolto al sé di tutto ciò che appare, e che interroga e rivolge la parola a questo autoapparire; essa diventa colloquio: e spesso essa è un colloquio disperato.

Solo nell'apparire dello spazio di questo colloquio si costituisce, appare, il sé a cui è rivolta la parola, il quale si raccoglie e aduna attorno all'apparire, al concostituirsi, del sé che gli rivolge la parola e lo nomina. In questa presente compresenza, il sé che rivolge la parola e nomina ed il sé di ciò a cui è rivolta la parola e che viene nominato diventano di volta in volta se stessi nella distinzione del loro esser altro e con ciò simultaneamente l'uno per l'altro.

In questa eterotesi dinamica, nel qui ed ora dell'unica e irripetibile presente compresenza, che è anche quella propria del pensiero della 'filosofia', la 'filosofia' fa sì che abbia voce quanto è il più proprio dell'apparire del sé dell'altro: ossia il suo tempo, l'apparire del suo più proprio ed autentico esser-fuori-di-sé.

In tal modo, parlando con le cose in questo modo, la 'filosofia' abita sempre nella questione circa la loro origine e la loro destinazione, più precisamente: circa il loro da-dove e il loro verso-dove; abita in una questione che, come si usa dire, rimane sempre aperta perché non perviene ad alcuna conclusione; in una questione che spinge verso un che di aperto e vuoto e libero.

Così, con questo abitare in tale questione, e dunque propriamente in se stessa, la 'filosofia' abita ampiamente fuori: nel fuori-di-sé. La 'filosofia' in quanto tale, in quanto se stessa, cerca proprio anche questo luogo/non-luogo. Epperò, ciò equivale ad affermare consapevolmente che - a partire dal tropismo proprio della 'filosofia', a partire dal suo apparire di volta in volta col darsi del suo sé, a partire dall'apparire della sua propria direzione, del suo proprio accento acuto, del suo proprio angolo d'incidenza storico-esisenziale, del suo proprio tempo ed intimo esser-fuori-di-sé, insomma a partire da quella determinata 'filosofia' - la 'filosofia' assoluta, senza date, non si dà, non può darsi. Ma ben si dà, con il darsi di volta in volta dell'apparire del più proprio sé di ogni 'filosofia' (anche di quella più modesta e senza pretese), quella ineluttabile questione e quella inaudita pretesa.

In tal senso, la 'filosofia' sarebbe come la ricerca sempre di nuovo ripetuta di un luogo del non-luogo. Le concettualizzazioni che la 'filosofia' intraprende, le sue immagini, sono ciò che viene percepito e deve essere percepito irripetibilmente, sempre di nuovo irripetibilmente e solo nel qui ed ora del sé.

In tal modo la 'filosofia' sarebbe il luogo in cui tutte le sue stesse concettualizzazioni vogliono essere condotte ad absurdum. Una topica dell'u-topia, nella cui luce appaiono e l'uomo e la creaturalità di tutte le creature animate ed inanimate: che sono tali ma senza un creatore, così come l'u-topia non è da confondere comodamente con l'utopia avvenire.

Infatti, le stesse comode rappresentazioni di un creatore e/o di un'utopia (entrambi modelli di un assoluto passato-presente-futuro) possono esse stesse apparire solo nella luce dell'u-topia benintesa. Ciò significa che è tempo ormai di invertire la marcia, di rientrare nel sé dell'autoapparenza, per essere al termine e con ciò essere di nuovo al punto di partenza.

Non si tratta perciò, come si dice, di ampliare la filosofia diffondendo in essa il provento delle cosiddette scienze positive specialistiche (teologia compresa) o, all'inverso, di filosoficizzare quest'ultime, rendendole criticamente autoconsapevoli etc. Piuttosto, si tratta di portarsi con la 'filosofia' nella più propria 'ristrettezza' dell'apparire del sé in se stesso: al fine di liberarlo per sé.

E' l'autoapparire di un circolo. Un circolo lungo la cui circonferenza il darsi del sé incontra il darsi del sé. Date che incontrano le proprie date. Così la 'filosofia' è insieme anche le sue 'filosofie': le sue vie, anche quelle che però sono pure soltanto sviamenti, deviazioni che portano il sé (pur ancora nella forma dell'io) al sé attraverso giri lunghi e lontani dal centro, vie creaturali, forse progetti d'esserci, un predestinarsi a se stessi alla ricerca di se stessi. Una specie di rientro del sé in sé. Cioè, simultaneamente, nel suo più proprio esser-fuori-di-sé.

L'apparenza, l'immagine, di ciò che tiene insieme ed unisce e che - come la 'filosofia' - conduce all'apparire dell'incontro del sé con il sé, attraverso la simultaneità di tutte le sue vie e sviamenti e deviazioni, attraverso la simultaneità fuori-di-sé di multiversi compresenti, può essere l'immagine di qualcosa che è, come il linguaggio, immateriale, eppure terreno e terrestre, qualcosa di forma circolare che ritorna in se stesso attraverso entrambi i poli e facendo questo interseca persino i tropi(ci), cioè le direzioni e i circoli di rivolgimento, qualcosa che è nel suo più proprio in sé essendo nel suo più proprio esser-fuor-di-sé, la 'u-topia' che congiunge simultaneamente i compresenti luoghi particolari: qualcosa come un 'meridiano', il circolo meridiano che è insieme un simultaneo fuori-di-sé di cerchi concentrici gli uni negli altri. La linea meridiana longitudinale che collega quei luoghi in cui allo stesso tempo il sole è allo zenit. Una allegoria di quella che è essa stessa una allegoria della dissolvenza della filosofia.

Ciò lo permette un poeta. Ma non, come si sarebbe immediatamente portati a credere, attraverso la goffa messa in prosa dei suoi versi. Bensì attraverso la ripetizione e la reiterazione, che sono appena ancora all'inizio, di un suo discorso sulla poesia che è però simultaneamente un lungo verso sulla 'filosofia'. Un lungo verso orientato verso la 'filosofia'. Forse anche l'ultimo. Esso reca appunto il titolo allegorico de Il Meridiano.

In una lettera di Celan a Otto Pöggeler, del 30 agosto 1961, dunque di poco successiva al discorso di Darmstadt, è contenuta una importante indicazione per la comprensione di questa allegoria e con ciò forse dell'orizzonte della 'filosofia' stessa: "Als ich aus Darmstadt zurückkam, stieß ich 'zufällig' auf ein Kepler-Zitat: 'Gott ist symbolisiert durch die Kugel. Der Schnitt durch die Kugel ist der Kreis; dieser bezeichnet den Menschen' (Ich zitiere aus dem Gedächtnis - sicherlich ein wenig ungenau)".

L'uomo è una delle infinite sezioni circolari di cui consiste un'unica e medesima insostanziale sfera (la quale appunto non esaurisce, come potrebbe sembrare a partire dal punto di vista umano troppo umano, la propria meridianità in quei meridiani percorsi dal sole in ventiquattro ore: la sfera che l'unione dei meridiani terrestri produce è essa stessa la proiezione, il luogo, di un non-luogo), essa stessa è, per dir così, l'u-topico orizzonte di possibilità della simultaneità di altri orizzonti di possibilità della simultaneità di comprensenze multiverse: il meridiano dei meridiani; e questa u-topica meridianità è la sua unica consistenza.

La meridianità in cui "dappertutto è Qui e Oggi", la meridianità che "venendo da disperazioni" è "lo splendore in cui i Separati entrano", come recitano i versi della poesia che conclude la raccolta del 1963 intitolata (rilkianamente?) Die Niemandsrose .

E la 'filosofia' sarebbe appunto l'autoapparire del non-luogo proprio di quella sfera e simultaneamente solo uno dei suoi infiniti piani (luoghi) circolari di proiezione: quello della comprensione di essa e di sé, e cioè innanzitutto la comprensione che vi sono altri piani (luoghi, topoi/tropi), altre sezioni circolari, il cui simultaneo apparire non è né comprensione né comprensibile, bensì pura ostensione, pura autoapparenzialità.

 

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