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XV Festival Internazionale Cinema Giovani di Torino

Suggestioni latine: Percorsi arbitrari tra i generi classici dell'età d'oro del cinema messicano

di Marco Monsurrò

Quando i cineasti stranieri vengono a girare qui, pretendono di spiegare il Messico in un solo film. Per questo quasi tutti i film sul Messico sono molto brutti. Ci sono cascati anche personaggi importanti: John Ford, lo stesso Ejzenstejn. Fu una fortuna che Ejzenstejn non finisse il suo film, sarebbe stato un pessimo film, pieno di luoghi comuni e falsità.

Emilio García Riera

Dalla Nouvelle vague francese al Free Cinema inglese, dal Junger Deutscher Film alla Nova Vlna cecoslovacca, il Festival Cinema Giovani di Torino ha da sempre gettato uno sguardo inquieto, spesso provocatorio sul passato cinematografico europeo, favorendo inusitate riscoperte critiche e (mai troppo tardive) rivalutazioni ideologiche. Con questo spirito quasi archeologico, negli ultimi anni, l'interesse si è esteso a cinematografie extraeuropee, spesso ingiustamente sconosciute al pubblico italiano: è questo il caso del florido Cinema Nôvo brasiliano, cui fu dedicata una ricca retrospettiva in una scorsa edizione e del cinema classico messicano, protagonista della retrospettiva di quest'anno, in cui il Festival celebra il suo quindicesimo anniversario.

Il periodo assai esteso (1933-1960) preso in esame nella rassegna, che è intitolata "Le età d'oro del cinema messicano" è in evidente attrito con la diffusa consuetudine critica che individua negli anni quaranta il decennio di maggiore interesse ed originalità della produzione nazionale. Andrea Martini e Nuria Vidal, nell'introduzione al libro-catalogo pubblicato in occasione della retrospettiva, rivendicano l'interesse dei periodi precedenti e successivi alla cosiddetta "Epoca de oro" che sarebbe comunque un imprescindibile momento di svolta perchè: "da un lato la produzione cinematografica perde i connotati artigianali della prima decade sonora, dando vita tra l'altro ad uno star-system assai ricco. Dall'altro il conflitto mondiale prepara il cinema messicano a una svolta insperata, le cui conseguenze saranno ancora apprezzabili alla fine del decennio". [Andrea Martini e Nuria Vidal (a cura di), Le età d'oro del cinema messicano 1933-1960, Lindau ed., Torino, 1997.]

Il successo di Allà en el Rancho Grande (Laggiù al Rancho Gande, 1936) di Fernando de Fuentes, che ebbe un'eccezionale affermazione su tutti i mercati ispanoamericani e la chiara posizione politica assunta nel quadro del conflitto mondiale, furono due elementi determinanti per la nascita dell'industria cinematografica messicana. Il Messico infatti, fu l'unico, tra i paesi dell'America Latina a schierarsi con decisione al fianco dei vicini Stati Uniti, che contraccambiarono finanziando produzioni locali (si pensi alla costruzione da parte della RKO degli studi di Churubusco) e rifornendo i produttori messicani di pellicola vergine. I cineasti messicani seppero, inoltre avvantaggiarsi dell'embargo subìto dalla Spagna, che perdendo la sua supremazia nell'esportazione di melodrammi, lasciava un grande vuoto sui mercati latinoamericani, grandi consumatori di quel genere di prodotti.

La vicinanza geografica e la pressione economica americana saranno due forze costanti e decisive nello sviluppo cinematografico (oltre che, naturalmente, politico ed industriale) nazionale. Gli esiti commerciali catastrofici dei film statunitensi preconfezionati ad hoc per il pubblico ispanofono, con accenti e lingua convenzionali, convinsero immediatamente gli americani a produrre quei film direttamente in America Latina, con la evidente finalità di abbattere i costi di realizzazione e conquistare nuovi, appetitosi mercati. Il pubblico sudamericano rifiutò l'artificialità ed il folclore studiato ad arte del cinema spagnolo fatto negli Stati Uniti e così, il cinema messicano accettò la sfida di rinnovarsi. Negli anni quaranta moltissimi attori messicani che nel decennio precedente avevano riscosso un certo successo nella vicina Hollywood diffondendo il mito della sensualità latina (è emblematico il caso di Dolores Del Rio) ritornarono in patria e contribuirono alla nascita di un vero e proprio star-system, al punto che il pubblico cominciò a notare appena il nome del regista ed iniziò a seguire fedelmente le carriere di divi come María Félix, Pedro Infante, Jorge Negrete e pochi altri. Ed è all'insegna dell'influenza, spesso sinergica, del cinema hollywoodiano che si consumarono le stagioni migliori del cinema messicano che, pur conservando caratteristiche peculiari e generi propri (pensiamo alla commedia ranchera) seppe con grande disinvoltura mutuare stili e modelli del cinema americano ibridandoli con temi e situazioni specificamente nazionali. Come afferma Paulo Antonio Paranaguà nel suo saggio Dieci motivi per amare o odiare il cinema messicano e non restare indifferenti: "Negli stessi anni in cui nazionalizza il petrolio, il Messico nazionalizza, per così dire, i principali generi hollywoodiani, conferendo loro tratti originali. Il melodramma, la commedia picaresca, la commedia musicale, il dramma urbano o delle periferie nascono altrove, ma in Messico assumono caratteristiche proprie. Nessun'altra cinematografia è riuscita a creare mitologie così riconoscibili. Preso nella trappola dello star-system, il cinema messicano vede nascere al suo interno delle personalità che negano i loro stessi archetipi [...]".[Paulo Antonio Paranaguá, Dix raisons pour aimer ou détester le cinéma mexicain et pour exclure toute indiférence, in id. (a cura di), Le cinéma mexicain, Édition du Centre Georges Pompidou, Paris, 1992.] Un contesto così innovativo e stimolante non poteva non attrarre un maestro come Luis Buñuel, che coltivò sempre un rapporto conflittuale con il suo paese, dove decise di vivere, lavorare e morire. E se "una certa critica eurocentrista o semplicemente interessata" ha sempre teso a sottovalutare il rapporto di Buñuel con il Messico (lui stesso, tra l'altro, ha favorito questa prospettiva), agli storici più attenti non sono sfuggite affinità ed ascendenze tra il maestro surrealista e la produzione nazionale di quel periodo. Buñuel trovò in Messico tutto quello che non aveva trovato negli otto anni trascorsi negli Stati Uniti; girò oltre venti film in meno di venti anni. Le condizioni erano chiaramente quelle di adeguarsi ai codici commerciali, narrativi, di rappresentazione che l'industria gli imponeva ma, nonostante i tempi di lavorazione strettissimi (in media 18 giorni) e i budget ridottissimi, riuscì a conservare la sua personalità e a dar sfogo alle sue ossessioni, lavorando sul sottotesto delle sue opere, per quanto convenzionali fosse la loro confezione. Il cinema messicano di Buñuel è ovviamente molto diverso da quello francese e spagnolo: è carnale, intriso di vita: "vi è una sorta di densità e di materialità messicana, mentre è quasi del tutto assente quel cerebrale gioco di scacchi con i fantasmi (idee di personaggi più che personaggi) che farà parte del cinema da lui realizzato in Francia negli ultimi anni" [ José de la Colina, El cine mexicano de Luis Buñuel in Tomás Pérez Turrent (a cura di), El ojo: Buñuel, Mexico y el surrealismo, Consejo Nacional para la cultura y las Artes, México D.F: 1996.]. Quando il maestro surrealista gira Los olvidados (I figli della violenza, 1950) il melodramma urbano aveva ormai percorso tutte le possibili strade di rappresentazione; eppure il suo sguardo lucido e disincantato fotografa le bidonvilles di Città del Messico, in tutta la loro struggente autenticità, come non erano mai state rappresentate prima.

Se Buñuel con Los olvidados mostra la durezza della miseria metropolitana (e viene ferocemente attaccato dagli intellettuali connazionali), Città del Messico, capitale in continua espansione geografica e demografica, si impone sugli schermi degli anni quaranta e cinquanta come simbolo nazionale della trasformazione industriale in atto nel paese. Simbolo totalizzante, complesso e contraddittorio, microcosmo in cui convergono tutte le energie, le speranze e gli stati d'animo di quegli anni. "Da società eminentemente agricola, il Messico, aggiogato all'ideale del progresso, si trasformava in un paese moderno. La vita cittadina sembrava offrire le migliori opportunità: istruzione, salute, lavoro, intrattenimento. Divenuta meta e destinazione per un vasto numero di messicani, la città cresceva senza potersi piu' fermare". [Susana López Aranda, Frammenti di un ritratto incompiuto: Città del Messico nel cinema in, Le età d'oro..., cit..] Città del Messico si trasforma in una miniera inesauribile di tipi umani, caratteri, parlate, accenti di cui il cinema si appropria immediatamente. La comicità di Cantinflas (ricordiamo tra i suoi tanti successi: Ahí está el detalle, 1940) e di Tin Tan (El rey del barrio, 1949) i due attori comici piu' popolari dell'epoca, in questo senso è emblematica. Pur nelle loro profonde differenze espressive ed ideologiche (reazionario e moralista il primo, anarchico e trasgressivo il secondo), entrambi rappresentano l'uomo comune alle prese con le quotidiane difficoltà di sopravvivenza in una metropoli caotica ed insidiosa. Cantinflas è il peladito, il perdigiorno scroccone e vagabondo, che si esprime in modo confusionario e incomprensibile, al limite della afasia; una sorta di personificazione del picaro messicano. Tin Tan invece sfrutta un tipo di comicità piu' musicale che radiofonica, è il pachuco, simbolo surreale della modernità in cui "cerca i punti su cui far leva per rovesciare l'ordine costituito" [Nuria Vidal, Il pachuco e il pelado in ibid..], usa un linguaggio ricco di espressioni inglesi, poi battezzato spanglish. Tin Tan e Cantinflas incarnano l'anima piu' popolare della cultura messicana.

Ma Città del Messico non è solo la palpitante metropoli de La ilusión viaja en tranvía (La illusione viaggia in tranvai, 1953) di Buñuel, è anche la capitale del peccato e della tentazione, il rovescio speculare dell'idilliaco rancho visto in decine di commedie ambientate in tranquille haciendas di provincia. Bar malfamati, squallidi cabaret e licenziose case da appuntamento fanno da ideale sfondo a centinaia di melodrammi postribolari. Film come Víctimas del pecado (Vittime del peccato, 1950) di Emilio "El Indio" Fernández, Perdida (Perduta, 1949) di Fernando A. Rivero e soprattutto La mujer del puerto (La donna del porto, 1933) di Arcady Boytler, dal breve romanzo di Guy de Montpassant adattato ben quattro volte per lo schermo, rappresentano la figura stereotipata di donne ingenue ed innocenti, trascinate con l'inganno in luridi bordelli. L'immaginario cinematografico messicano è popolato da madrecitas e mala mujeres, madri e puttane, sante e peccatrici, archetipi della sensualità latina in cerca di catarsi. Solo le doti canore, esibite nei cabaret, potevano sottrarre le belle peccatrici alla dissolutezza dei postriboli ed alle minacce di ambigui protettori e riscattarle definitivamente.

Storie forti per spettatori sanguigni. D'altronde, come scrisse una volta un attento intellettuale sudamericano: "Amato o odiato, il cinema messicano non ha peggior nemico dell'indifferenza".

 

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