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Museo e sperimentazione: sull'identità dell'arte al compimento del millennio*

di Luciano Nanni

* conferenza tenuta a Brescia, martedì 13 aprile 1999 ore 18 come apertura del ciclo "Incontri in Loggia: Arte, Musei e società"

Preliminari

"Museo, arte e società": temi, questi, ognuno dei quali rinvia a biblioteche intere, quindi di complessa e in sé impossibile trattazione, ma , per la vita dell'arte oggi, temi centrali e inevitabili. Se ne può parlare mettendoli in rapporto, scorciandoli insomma tramite la messa a fuoco di una qualche loro relazione e io ho provato a farlo con il titolo che ho dato alla mia conversazione, che comincerei con alcune considerazioni preliminari. Tre, per la precisione: due riguardanti le parole del titolo stesso e una circa la natura del discorso in generale. E' proprio un discorso che mi accingo a fare e allora forse sarà bene chiedersi come in esso ci si possa stare E ciò vale tanto per me quanto per chi  mi ascolta. Come insomma i suoi due poli possono occuparlo con reciproco rispetto e mutua, fattiva, collaborazione.

Ma veniamo al titolo. La prima osservazione la potrei dire di ordine retorico e riguarda le parole usate. "Museo" e "sperimentazione" non creano problemi. Sono parole pertinenti al tema e l'uso ne pare appropriato. La parola "millennio", e "fine del millennio" in specie, può sembrare invece un po' sopra le righe, scelta più come richiamo retorico che per reale esigenza di discorso. E per di più di una retorica senza fantasia, se non addirittura irritante. Il suo infatti è un uso ormai pervasivo, direi ossessivo; finisce per insinuarsi ovunque: perfino nella programmazione dei figli. E allora, perché consapevole di tutto ciò, non ho rinunciato a servirmene ? Perché qui non se ne poteva fare a meno, giacché penso che ciò che è successo all'arte in questo secolo, e che il suo volgere al termine non cancella ma accentua, non sia solo questione di questo secolo ma illumini di nuova luce anche il principio in base al quale l'arte in generale si costituisce e quindi anche nel suo insieme l'arte di questo nostro millennio che finisce. Il millennio insomma è chiamato in causa non per motivazioni retoriche, ma scientifiche, giacché soltanto uno sguardo a così ampio raggio può mettere in giusta luce quanto sull'arte di oggi e del passato intendo dire. Motivazione scientifica, e siamo così al secondo ordine di considerazioni che vorrei fare sul titolo. Da questo punto di vista metterei subito in stretto rapporto due dei termini che esso contiene: intendo il termine "museo" e il termine "identità". Lascerei invece da parte, per ora, la questione della "sperimentazione" che recupererò a fine discorso. Come ben si può capire i termini "museo" e "identità" non indicano cose diverse ma due facce della stessa medaglia. Sono legati a filo doppio, come la carne e la macelleria, la frutta e il negozio da fruttivendolo e così via. In parole più proprie, come il significato e il significante, insomma come il recto e il verso, per dirla con Ferdinand de Saussure, del segno. Trattando un versante si tratta anche, seppure implicitamente, l'altro. Io, vista la mia professione di insegnante di estetica, non potrò parlare di questa "cosa" che dal versante dell'identità dell'arte. L'identità dell'arte è da sempre uno dei problemi dell'estetica. Immaginando la vita di ogni entità di questo mondo divisa in due spazi, uno genetico ( lo spazio compreso tra  la sua assenza e il suo apparire ) e un altro che potremmo dire risolutorio ( lo spazio compreso tra il suo essere apparsa al mondo e il suo relazionarsi al resto, il suo vivere insomma), spazio dell'estetica è da sempre il primo. Lo spazio dove sono legittime domande del tipo di quella che si fa, per esempio, Nelson Goodman, che, in un capitolo del suo libro Vedere e costruire il mondo dedicato all'arte, si chiede Quando qualcosa è arte ? Oppure  che si fanno altri ( tra cui noi stessi ) tipo Che cos' è che fa di un messaggio un'opera d'arte ? O anche In base a quale principio qualcosa si costituisce come arte ? e così via. Da sempre quesiti come questi sono stati riconosciuti propri dell'estetica o, se non lo sono stati, hanno aspirato a diventarlo. A differenza dei problemi del secondo spazio propri, invece, della critica. E', il secondo, lo spazio dove l'opera, una volta riconosciuta come tale, può manifestare i suoi diversi aspetti, si può dire i suoi significati, e ciò le accade entrando in relazione con i suoi interpreti ( i suoi critici, in senso stretto ). Se i critici si occupano di domande da primo spazio, rigorosamente parlando, non sono più critici ( non attivano più la funzione critica), ma appunto estetologi. Li si vuole ancora critici in senso lato ? va bene, purché si sappia però che la funzione attivata è quella propria dell'estetica ovviamente, vedremo, concepita come scienza.

E sono, con questo, al terzo ordine di considerazioni, posto anch'esso come preliminare, e cioè alle considerazioni riguardanti il discorso. Considerato che  in una conferenza, o in una lettura che sia, si è inevitabilmente insieme, palante o scrittore e ascoltatore  o lettore, sarà bene chiedersi come si può stare sensatamente insieme in un discorso. E' bene che chi ascolta o legge si chieda e chieda a chi parla o scrive " che ne è di me nel tuo discorso ?", " che sono chiamato a fare io, ascoltandoti o leggendoti ?". Ed è bene che l'autore del discorso risponda a questa implicita domanda, precisando a che fine egli parla o scrive, a che fine coinvolge il suo interlocutore. Ne va, ripeto, oltre che della sensatezza del discorrere stesso, evitando, per quanto è possibile, fastidiosi equivoci e svianti spostamenti da motti di spirito, per dirla alla Freud, anche dell'etica dei nostri rapporti sociali, per non dire del galateo, che pure conta. Bene, sarà triste, sarà soffocante, ma noi, al fondo, non possiamo usare il nostro pensiero, e quindi il discorso con cui si sposa, che  in due soli modi: o al fine di intervenire sul mondo per modificarlo, producendo nuove cose e comportamenti ( fosse pure la difesa di cose e comportamenti già esistenti ) o al fine di descriverli, nelle loro logiche e relazioni. Il resto, diciamo è del maligno. Fuor di metafora, solo confusione e non senso. Certo, io posso non usare il mio pensiero e liberarlo da questa forca, ma qui è del pensiero usato che si sta parlando, non del pensiero lasciato nel limbo della nostra mente. Appena si passa al suo uso, la forca scatta. Lo sapeva bene Pitagora, quando, per spiegare cos'era la filosofia, raccontava, si dice, la storiella del mercato. Siano gli uomini, pare dicesse, a un mercato. Bene. Ci saranno quelli che  sono lì per perdere tempo, che non sanno che fare e non ci interessano ( sono gli uomini da limbo, dico io ); ci saranno poi quelli che sono lì per fare affari e sono gli uomini pratici; ci saranno in fine, forse, quelli  che sono lì solo per vedere che cosa succede e questi, pare concludesse Pitagora, sono i filosofi. Quando al nostro premio Nobel Rubbia è stato chiesto da un giornalista quale fosse la molla che lo portava a cercare quanto stava cercando, Rubbia ha risposto  " la curiosità". Rubbia scienziato è mosso oggi dalla stessa molla che per Pitagora muoveva il filosofo. Qui si potrebbe aprire una lunga riflessione sull'identità o meno di filosofia e scienza. Cosa interessantissima da fare, ma che qui bisogna lasciare da parte per tornare al fine per il quale l'aneddoto di Pitagora è stato raccontato. Bene. Anche in Pitagora abbiamo un modello a soli due poli di uso del pensiero: fine pratico o etico come io preferisco dire ( etico, etimologicamente, legato a cose e comportamenti ) e fine analitico o scientifico ( penso infatti che la buona filosofia sia sempre scienza, buona scienza si capisce e, ripeto, mi sia concesso qui di non dimostrarlo, l'ho fatto a parte in alcuni scritti che possono facilmente essere reperiti ). Ogni altro uso è  un non uso, roba da perditempo.

Si sarà intuito, allora, che quanto qui mi accingo a dire sarà detto secondo una finalità scientifica, tentare di vedere quale sia l'identità dell'arte nostra oggi e quale sia la luce che questa sua identità riverbera sulla sua storia ( dell'arte in generale, si capisce, per tutti noi e non in particolare per questo o quello ) e che l'impegno richiesto al mio interlocutore sarà quello di un controllore scientifico. Cosa implica un controllo scientifico? Implica che il controllore metta tra parentesi tutti i suoi gusti e amori personali e lì li lasci al fine di vedere soltanto se le cose stanno come il controllato dice, nel caso, se l'arte abbia o no, piaccia o non  piaccia, l'identità che il mio discorso si accinge a esplicitare. All'interlocutore si chiede insomma di collaborare, per dirla in termini medici, a una buona riuscita della diagnosi ( la scienza non è altro; la tecnica è ideazione pratica, usa il pensiero per modificare il mondo ), poi per la cura ognuno potrà tornare libero di perseguirla o non perseguirla diversificandosi dagli altri a piacere.

Quale l'identità dell'arte oggi ?

Il problema che si trova di fronte chi parte per rispondere alla domanda "Quale l'identità dell'arte per noi, oggi ?" mi pare sia stato tempo fa ben sintetizzato dalla pubblicità che uno dei nostri quotidiani nazionali "la Repubblica" ha largamente diffuso a sostegno della proposta, che il giornale stesso faceva ai suoi lettori, dei fascicoli della storia dell'arte di E.H. Gombrich. Si trattava di una figura composta in cui la testa mancante della Nike di Samotracia era sostituita da un'opera di Andy Warhol, una Soup Campbell. In che modo questa figura composita riassume icasticamente (visualizza insomma ) il nostro problema ? In questo modo: essa  raffigura due opere che convivono nel campo dell'arte, rappresenta insomma ciò che oggi troviamo nel museo. Nel museo, quindi nell'arte, stanno insieme cose diversissime, le due opere indicate, ma anche, che so, la Pietà di Michelangelo e lo scolabottiglie di Duchamp o ancora una Sinfonia di Malher e un Poema ventrale di Adriano Spatola o anche I promessi sposi di Alessandro Manzoni e la Merda d'artista di Piero Manzoni e chi più ne ha in mente più ne citi. Come pensare che queste cose così eterogenee possano essere tenute insieme da un qualche principio comune, come racchiuderle in una classe ? Impossibile dicono i miei colleghi estetologi e pare non abbiano torto.

Citerò una considerazione al riguardo di Emilio Garroni. La prelevo da un preprint edito dal Centro nternazionale studi di estetica diretto da Luigi Russo dell'università di Palermo. Un preprint in cui sono raccolti gli atti di un convegno avente per argomento Baumgarten e gli orizzonti dell'estetica. Garroni, non discostandosi granché dal clima generale del convegno, non crede nella possibilità di trovare un vero e proprio statuto disciplinare per l'estetica come filosofia dell'arte e ciò non secondariamente a causa dell'impossibilità di trovare un principio capace appunto di tenerne insieme il campo così diversificato delle opere. Ma leggiamolo: " Debbo dire innanzitutto di essere del tutto d'accordo che la definizione di 'estetica' quale 'filosofia dell'arte' ( nel senso disciplinare chiarito ottimamente da Leonardo Amoroso e da Ferraris) non sia più accettabile, anzi che in senso stretto non lo sia stato mai. Da molto tempo insisto, non senza ostinazione, su questo punto: che l''arte', in senso estetico moderno, è nozione relativamente recente e dai confini sfrangiati; che essa non designa una classe di oggetti di cui sia possibile esplicare il criterio di appartenenza, ma rimanda solo a esempi di un certo modo contingente di fare e di esperire la cui unità pragmatica non è esplicitabile concettualmente in modo anche solo approssimativo; che perciò non può pretendere di porsi come vero e proprio oggetto epistemico di una disciplina teorica, ma solo come referente insieme contingente ed esemplare di una riflessione che, su quella occasione, si interroga in realtà sulla possibilità e sulla condizione di senso del fare e dell'esperire in genere (pp. 65-66 )." Ora non è tanto il problema teorico del legame stretto tra individuabilità di un oggetto d'analisi e costituzione della relativa scienza di studio che qui interessa. E' problema teorico fondamentale, ma qui interessa altro; interessa il fatto che a Garroni l'insieme delle opere d'arte si presenta come privo di un principio unificatore, di un principio logico capace di farne una classe. E, di primo acchito, sembra difficile dargli torto. Che cosa può tenere insieme, infatti, i Promessi sposi di Alessandro Manzoni e, che so, appunto la Merda d'artista di Piero Manzoni ? E', questo, un confronto cui ho fatto ricorso altre volte e per lo stesso fine, ma continuo a trovarlo esemplarmente insostituibile. Quale tratto possono avere in comune ?  

Vediamo. Ognuno di noi, se ne possiede il libro, sente di possedere i Promessi sposi. Bene. Supponiamo che ognuno di noi decida di mettere questo suo libro su un tavolo assieme ai Promessi sposi degli altri. Bene. Non si fa grande fatica a ipotizzare che guardati così, tutti insieme, appariranno fisicamente diversi l'uno dall'altro, alcuni in edizione economica, altri in media taglia, qualcuno grande e preziosamente rilegato e così via diversificati. Nonostante ciò, tutti noi continueremmo a pensare di avere tutti la stessa opera. Che significa ciò ? Non significa forse che, dal punto di vista della costituzione dei Promessi sposi concepiti come opera d'arte, la materia fisica con cui sono fatti circolare non farebbe testo, sarebbe del tutto indifferente ? e non significa ciò che i Promessi sposi in quanto opera d'are  nascono e vivono in un puro spazio mentale ? Cosa diversa sarebbe infatti se in qualcuno dei libri suddetti mancasse una qualche riga, una qualche pagina. In questo caso saremmo tutti d'accordo che il possessore di quei libri monchi non avrebbe i Promessi sposi. E' ciò conferma quanto ipotizzato. I Promessi sposi in quanto opera d'arte coincidono unicamente con la catena dei concetti che li costituiscono. Solo una lesione a questo livello può minarne l'integrità, mentre ogni variazione sul piano della fisicità del significante che dà loro visibilità è indifferente. Ben diversamente sentiamo che vanno le cose con la serie delle scatole di Merda d'artista di Piero Manzoni. Ogni manomissione della loro fisicità, compreso la loro quantità numerica ( credo siano 99 in tutto), ne minerebbe l'identità. L'una opera, allora, totalmente realizzata in quanto arte sul piano mentale, l'altra, invece, totalmente realizzata sul piano della fisicità. Quale il tratto comune capace di unirle in un'unica classe? Nessuno. Sembra proprio che Garroni abbia ragione. Tuttavia, perché continuo ad usare dei dubitativi, perché continuo a dire "pare", " sembra" e verbi simili. Perché al fondo della mia mente una vocina continua a dirmi "guarda che se più cose stanno insieme e per di più in uno stesso luogo, un qualche principio in comune lo devono avere. Sarà super nascosto, super mimetizzato, difficilissimo da cogliere, ma ci deve essere. Non dobbiamo fare della nostra impotenza una questione da favola da uva acerba. Non dobbiamo trasformare la nostra deficienza in virtù. Non dobbiamo dire che non c'è semplicemente perché non siamo capaci di trovarlo. La logica ci dice il contrario: ci dice che in casi simili non può non esserci". Una volta mi sono trovato ad insegnare a dei bambini e feci anche tentativi di avviarli un po' alla logica del classificare. Presi un pezzo di legno, una pietra nera, un bicchiere d'acqua e una boccetta d'inchiostro ( la mia età è ormai veneranda ) e al primo bambino che si offrì di provare proposi di riunire queste cose in due gruppi ( in due classi ) secondo l'opposizione solido vs non-solido. Bene. Paolino, questo il bambino, di cui ricordo ancora anche il nome, mi mise da una parte  la pietra nera e l'inchiostro e da un'altra il pezzo di legno e il bicchiere d'acqua. E qui siamo al punto: Paolo non aveva classificato le cose che aveva davanti secondo il principio che io gli avevo suggerito, ma un principio capace di dividere le cose in due gruppi e quindi in due classi c'era: era l'opposizione nero vs non-nero. Questo mi dice la vocina logica insistente: se cose diverse stanno in uno stesso luogo, in un stesso gruppo, un principio d'unione ci deve essere, per forza. Se due persone stanno in una stessa casa devono starci in base a un qualche principio: sarà il matrimonio, sarà l'amicizia, sarà la parentela. E se sono insieme, ma non si conoscono per niente. Beh! Oggi, saranno extracomunitari. Non si scappa. Torniamo, ora, all'arte. Abbiamo opere tra loro le più diverse: l'abbiamo visto e siamo d'accordo, ma la regione dove stanno è una ( l'arte appunto ), regione cui corrisponde un luogo,  il Museo appunto. E allora il principio che le organizza in classe ci deve essere, per forza. Non è, allora, che non lo si è trovato perché si è guardato dove non era ? Perché pur questo mi dice la famosa vocina logica, mi dice che un principio d'unione, al pari di ogni altra cosa, va cercato dov'è, giacché, se lo si cerca dove non è,  è evidente che non lo si trova. E dove s'è cercato, fino ad ora, il principio d'unione tra i Promessi sposi e la Merda d'artista, la coppia di opere scelta a rappresentare la distanza anche tra tutte le altre, citate e no ? Nella materia di cui sono fatte e nella loro struttura. E non s'è trovato. E forse tutti coloro che non lo trovano, non lo trovano giacché è dentro all'opera che anch'essi forse guardano. Ma (attenzione! Attenzione!) questa non è l'unica strada: non è obbligatorio guardare solo dentro. Si può guardare anche fuori. Anzi, quella famosa vocina logica mi dice che il "fuori" è più importante del "dentro", che il "dentro" ( nei suoi diversi livelli di realtà) lo vediamo secondo e a partire dalle indicazioni del "fuori", dal modo in cui entra in relazione con noi, quindi dal nostro modo di usarlo ( qui "uso" ovviamente non vuole dire utilizzazione materiale, ma semplicemente relazione, uso appunto in senso lato, anche cognitivo ), quindi dal nostro modo di coltivarlo ( anche qui in senso lato: non si dimentichi, si coltivano i campi ma anche le menti e le amicizie ), dal nostro modo di prendercelo a carico. Non importa allora che i Promessi sposi e la Merda d'artista e tutte le altre opere presenti nel campo dell'arte , non abbiamo qualcosa in comune a livello della materia e della struttura di confezione, importa che, in quanto arte, vengano usate allo stesso modo, insomma secondo una stessa logica.

Vogliamo una prova della potenza costitutiva del "fuori" ? Pensiamo al linguaggio. Che cosa nomina il nostro linguaggio ? Gli enti e le cose ? Ma nemmeno per sogno. Il nostro linguaggio nomina le relazioni che noi intratteniamo con gli enti, con le cose e quindi il nostro modo di usarle, di prendercele in carico, appunto di coltivarle. Un esempio ? Bene. Prendiamo la parola "scolabottiglie". Se diciamo "scolabottiglie" e ci auto-invitiamo a pensare a che cosa significhi, credo non ci siano dubbi: ci accadrà spontaneamente di associare a questa parola l'immagine di un oggetto, in particolare un oggetto da cantiniere. Bene. Ma "scolabottiglie" alla lettera non significa questo. Alla lettera "scolabottiglie" ci rinvia ad una pratica " scolare bottiglie ", cioè a una certa relazione che esso arriva ad intrattenere con una nostra usanza. Tolto da questa relazione, allora, cosa diventa ? Tolto da questa relazione esso esce dal linguaggio, anche se in virtù del linguaggio stesso. Noi siamo chiusi nel linguaggio come siamo chiusi nell'atmosfera e se una cosa esce  dal linguaggio lo può fare solo in grazia del linguaggio stesso. Non c'è scampo. Come nell'uscire dall'atmosfera. Anche dall'atmosfera si esce in grazia dell'atmosfera stessa, grazie a quelle bombole d'ossigeno che gli astronauti si portano dietro. Lo sapeva Bene, per esempio, un nostro uomo politico, Occhetto, che, avendo deciso di cambiare nome al suo partito e non sapendo ancora come chiamarlo, lo lasciò fuori dal linguaggio chiamandolo la "cosa". Ma pure "cosa" è una parola, però una parola speciale, una di quelle parole, come "aggeggio" e altre simili, il cui significato è l'oscuramento di ogni significato determinato, appunto una pura direzione indicativa verso l'esterno del linguaggio stesso in attesa del rientro. Bene. Anche il nostro "scolabottiglie", tolto dal linguaggio diviene una pura "cosa" e se vogliamo continuare a chiamarlo "scolabottiglie" lo possiamo fare in memoria di ciò che  fu, in ricordo di un'identità sua passata e ora scomparsa. Nulla di strano allora che, entrando in relazione con la galleria d'arte - penso ovviamente a Duchamp - diventi opera d'arte. La parola "arte" non nomina l'oggetto, ma il tipo di relazione ( e siamo ancora al "fuori" ) in cui l'oggetto entra, non altro. Perché allora questa proposta, come quella della "merda", del resto e tante altri simili, ha suscitato tanto scandalo ? Ha suscitato tanto scandalo, perché in noi il linguaggio vive in occultamento di questa sua verità. Il linguaggio nomina sempre delle relazioni e mai delle cose in sé. In principio cognitivamente parlando ci sono le relazioni, non le cose e il linguaggio le relazioni nomina. Del resto la vecchia grammatica scolastica lo sapeva benissimo, quando ci diceva che la parte fondamentale del discorso non erano i sostantivi, ma i verbi, le azioni, appunto le relazioni. Senza verbo, esplicito o implicito che fosse, non c'era e non c'è discorso. E ciò non è pensabile come vero solo nelle parole composte come "scolabottiglie", dove  lo dice la parola stessa, ma anche per tutte le altre. Certo, può essere difficoltoso recuperare la pratica d'origine di parole non composte, ma questo che significa? Non vorremo, anche qui, farne una questione da favola da uva acerba ?  Verità, questa, che è stata occultata in noi dai nostri bisogni di metafisica e di solidità, nonché dalla tradizione culturale in cui siamo inseriti. Bisogni che hanno prodotto l'indebita ipostatizzazione del nome della relazione a nome dell'oggetto. Il bisogno di solidità ci ha portato a spostare il nome dalla relazione all'oggetto ( l'oggetto dura al di là di tutte le relazioni in cui può entrare), il bisogno di metafisica a estendere una di queste sue identità mobili a sua essenza, a sua anima; la tradizione culturale da cui proveniamo a pensare che  dove c'è un'anima non ce ne può entrare un'altra ( se la sua anima è quella dello scolabottiglie, come può diventare opera d'arte?). Tutta roba, questa, alla fin fine da realismo ingenuo e da smantellare, da de-costruire  ( per dirla con una parola corrente ), pena l'incomprensione di tutto quanto ci accade, arte compresa. E poi via, chi non ricorda il X libro del dialogo "Repubblica" di Platone e la domanda che, in esso, Socrate non si stanca di porre all'intelligenza di chi l'ascolta ? " Chi ha l'arte di fare la sella ?", chiede Socrate. " Il sellaio ", verrebbe da rispondere, anche a noi naturalmente. E ancora " Chi  ha l'arte di fare il liuto ?". "Il  liutaio" verrebbe da rispondere, anche a noi naturalmente. Verrebbe, perché le risposte vere sono, per Platone, altre. L'arte di fare la sella ce l'ha il cavaliere, non il sellaio. Se il sellaio sa fare la sella è perché ospita nella sua mente il sapere del cavaliere: il cavaliere, dice Platone, ne ha vera scienza, mentre il sellaio ne ha credenza, crede, cioè, a quanto gli dice il cavaliere. Altrettanto si può dire per il liuto e per ogni altra cosa. Il "fuori" la vince sul dentro, da sempre. Tragica storia la nostra, che passiamo la vita a reinventarci ciò che già sappiamo. Ma torniamo a cassetta.

Va bene, mi si potrebbe dire: ci ha convinti. Il principio d'unità di queste opere in classe va cercato fuori. Va bene. L'artisticità non è loro ma del modello d'uso artistico che le assume e questo modello è uno per tutte. Va bene. Ma quali sono le caratteristiche di questo modello. Beh! Intanto il modello che attualmente costituisce l'artisticità dice che le possiamo usare cognitivamente in modo polisemico, secondo una polisemia aperta e indeterminata che nulla ha a che fare con quella propria per esempio del Medioevo, polisemia che da altri, per esempio da Achille Bonito Oliva, viene detta contemplazione e che va bene, purché ammetta al suo interno la mobilità del punto di vista del fruitore, perché questa è la regola che la nostra coscienza collettiva artista sembra legalizzare. Il che non vuole dire che di queste opere la critica possa dire ciò che vuole fuori dal controllo dell'opera stessa. Vuole semplicemente dire che, in quanto arte, esse autorizzano il fruitore a frequentare i loro livelli di realtà secondo libertà. Non a inventare livelli di realtà che esse non possiedono. Dello scolabottiglie, in quanto opera d'arte, diventa importante tutto, la sua struttura, la materia di cui è fatto, la sua possibilità d'essere simbolicamente coniugato con i più diversi livelli del nostro spettro culturale, da quello antropologico a quello alchemico. Ma ciò non significa che un critico possa dire che ha 10 perni se ne ha solo 7, che è rosso se non lo è, che ha valenze alchemiche se non è dimostrabile per tutti. Lo scolabottiglie non ha alcun potere nell'orizzonte che, all'inizio di questa mia conversazione, ho chiamato genetico, quindi nessun potere a proporsi da solo come arte ( la sua artisticità non è, ribadisco, conseguenza di ciò che esso materialmente e strutturalmente è ), ma, una volta che una qualche cultura, una qualche poetica per dirla con Anceschi, l'abbia scelto e fatto opera d'arte, esso diventa il controllore di quanto la critica può dirgli attorno. La critica può frequentare volta a volta, a seconda del critico e del fruitore in genere, tutti i suoi livelli di realtà, ma non può attribuirgliene altri che non siano suoi. E ciò, si capisce bene, salva la differenza tra un'opera e l'altra. Tutte sono arte in grazia del modello polisemico ( Modello comune: è questo modello che fa arte le opere e non viceversa e qualsiasi cosa di questo mondo nasconde un'implicita polisemia ), ma dentro al modello ogni opera, se un'opera è diversa da un'altra, parla secondo le sue verità e non secondo quella delle altre. L'artisticità di cui partecipano ci dice che possiamo leggere polisemicamente tanto i Promessi sposi quanto la Merda d'artista, ma i significati che i Promessi sposi possono fare apparire nella critica non possono essere quelli propri della Merda d'artista. Ma non vorrei continuare a parlare nei dettagli di questo nostro contemporaneo principio d'artisticità collettiva, giacché la meta che ci siamo proposta si allontanerebbe imperdonabilmente. Ho scritto su questa questione della polisemia diversi libri e ad essi rinvio chi fosse interessato ad approfondirla. Qui, come da programma, interessa un'altra cosa. Interessa vedere in che misura tale, contemporaneo, accesso all'arte delle cose più disparate può far luce sul modo di costituirsi delle opere in arte nel passato o , come ho detto all'inizio, sull'identità di tutta l'arte passata. Vediamo.

Tutta l'arte ha una fondazione concettuale

Qualcuno potrebbe obiettarmi. Va bene, ciò che lei dice riguarda l'arte concettuale. Sappiamo, per il concettuale arte è ciò che decidiamo che sia arte, indipendentemente dalla natura della cosa scelta a tal fine. Ebbene, io dico invece che, a ben guardare, nell'arte concettuale, e quindi nel Novecento, viene a nudo un principio costitutivo ( ed ecco la ragione profonda per cui la fine del Millennio doveva essere chiamata in causa ) di tutta l'arte, anche di quella passata. Prima di tutto perché la dimensione concettuale è alla base della costituzione di ogni umana identità. Io stesso, infatti, non sono uomo per natura, non sono uomo perché sono nato fatto così e così, ma perché mio padre alla mia nascita, recependo le concezioni della cultura che entrambi ci ospitava, mi ha registrato in comune con un nome da uomo. Non per altro. Non sempre gli "uomini" sono stati uomini (si pensi ai negri, ai bianchi anche, schiavi, alle donne ); Si pensi anche ai bambini malformati: a Sparta considerati niente; oggi, al contrario, considerati gli esseri più umani, gli esseri dove l'umanità viene a nudo nella sua più profonda essenza, nella sua costitutiva imperfezione e finitudine. Bene. E perché tale principio nono dovrebbe valere per l'arte ? La Gioconda  non è arte in sé. E' arte per quella cultura che l'ha delegata a rappresentare la sua idea di arte, nel caso la nostra, ma non necessariamente per ogni cultura possibile. In una cultura diversa essa potrebbe non rappresentare nulla, non avere alcuna identità. Quanti affreschi sono stati coperti e poi, magari, riscoperti secondo una loro entrata e  una loro uscita nell'arte e dall'arte indipendente da loro e unicamente legata al gusto artistico delle culture che hanno incontrato. E non è forse, anche questa, un'entrata nell'arte di tipo concettuale. Sempre è arte ciò che una cultura decide di assumere (di delegare a funzionare ) come arte. Mai il contrario. L'identità di un ente, di una cosa, non è mai emanazione diretta dell'ente, della cosa stessa, ma del modello d'uso, della relazione culturale ( secondo l'etimo del termine, appunto ) in cui entra. Se entra in un modello che, in una determinata cultura, è considerato proprio dell'arte, diventa arte; se entra, se viene assunto, in un modello diverso non lo è. Questo può piacere o non piacere, ma se guardiamo quanto accade alle cose, come ho invitato nei preliminari a fare, con occhio scientifico ( analitico ), è verità difficile da smentire.

A chi fa fatica a credermi consiglio di solito un esperimento. Si tratta di una sorta di esperimento che potrebbe anche essere detto, con Galileo, mentale, nel senso che non è necessario realizzarlo concretamente per trovarlo convincente: appare convincente al solo pensarlo. Bene. Immaginiamo di entrare in un bar, e di rivolgerci al barista con queste parole: " Poesia ", poi, dopo breve pausa " Per favore, mi dà un caffè ?". Credo che non avremmo difficoltà ad ammettere un momento di imbarazzo da parte del barista, ad ammettere un suo momento (non importa se minimo, se appena percettibile, ma un suo momento) di immobilità. Ora, siccome nulla succede a caso, questo momento di immobilità si spiega soltanto con la verità di quanto ho appena detto sul ruolo degli enti in rapporto alle loro identità, arte compresa. Scientificamente parlando, si capisce, ma, ripeto, è in questa chiave che qui si sta parlando. E a chi avesse a minimizzarne la portata, vista  la piccolezza della cosa, risponderei con le parole con cui Edipo, in cerca di luce sulla grande tragedia della peste di Tebe, risponde a Creonte, che gli minimizza quanto del passato qualcuno può rammentare: " anche una sola cosa, anche minima, può essere buon principio e può aiutare a scoprirne molte se non la si lascia scappare". Non lasciamoci scappare l'immobilità, anche minima, cui il nostro barista è stato inchiodato dalla nostra domanda. Dicendola per immagini, egli ricorda l'immobilità  cui può capitare di essere costretto il fazzoletto bianco nel tiro alla fune, in una festa di paese. Essa, se il gioco è avviato, è semplicemente frutto dell'equilibrio tra le forze delle due squadre che tirano in direzione contraria. Quali allora le forze, gli ordini, che tirandolo in modo contrario costringono all'immobilità il nostro barista? Quelle (quelli) del "bar" e quelle (quelli) della "poesia". La parola "poesia", nel caso, non fa parte del testo, ma del meta-testo; è fuori dal testo e vicaria i luoghi dell'arte,  giustapponendosi direttamente al "bar". Egli, il barista, sente dentro di sé due  indicazioni d'uso contrarie. Il "bar" gli dice: " non far caso a come la frase è stata pronunciata, non ti chiedere nulla sul significato di questo rito mattutino nella nostra società, non raccogliere suggestioni simboliche  che la frase ti può suggerire ecc. ecc. Preoccupati soltanto di essere certo che chi parla ti ha veramente chiesto un caffè, daglielo e sia finita lì." Di contro sente che i termine "poesia" gli dice: " su questa frase fa tutto quello che vuoi, lasciati andare a tutte le interpretazioni possibili, compreso il suo rifiuto in quanto poesia brutta, ma non fare assolutamente quanto ti dice di fare il bar, cioè non dargli assolutamente un caffè." E' la compresenza di questi due sistemi di permessi e di divieti opposti che inchioda il barista all'immobilità. Non altro. La frase è la stessa, ma se sarà poesia o meno dipenderà dal modello d'uso in cui il barista la farà entrare. Se la userà secondo la logica d'uso propria dei testi che consideriamo poesia, sarà poesia, diversamente sarà non-poesia, cioè una semplice frase del nostro linguaggio quotidiano e strumentale, una frase da bar. Al fondo, non è il barman che ci dà il caffè, ma il bar, che, non avendo corpo, si serve a questo fine del corpo del barman. La frase in sé non ha identità, il suo essere poesia o meno dipende dalla relazione culturale in cui entra, dal modello relazionale con cui viene coltivata. La struttura di un oggetto è indubbiamente generata da una pratica, ma poi tale pratica non ne ha il possesso in eterno: un oggetto può sempre essere dislocato e usato ad altro fine. Non esistono, che so, le armi improprie, il ready-made e così via ? Conclusione: totale separazione tra sostanza delle cose e loro identità assoluta, come volevasi dimostrare. Può essere cosa di difficile accettazione, ma ciò non toglie che sia vera.

Considerazioni finali

Quali altri insegnamenti possiamo dedurre da tutto questo in rapporto ai temi di questa serie di conferenze?

Intanto, che non è più possibile pensare a un'arte ingenua, priva di questa dimensione che, con il filosofo analitico e critico d'arte del The Nation A.C. Danto, potremmo dire filosofica. L'arte non può essere ingenua. Se qualcuno crede di ospitarla o produrla secondo spontaneità, si limiterà ad occultare sotto tale pretesa spontaneità la consapevolezza di qualcun altro. Un po' come accade oggi al pittore della domenica, che, producendo quadri di stile impressionista, crede di essere visitato naturalmente dall'arte, senza sapere le battaglie consapevoli attraverso le quali l'impressionismo si è, a suo tempo, costituito come arte. Il che equivale a dire che l'arte non potrà ormai che essere, e sono al termine del mio titolo accantonato per questa fine, sperimentale. Certo, c'è sperimentalismo e sperimentalismo e un certo tipo di sperimentalismo può essere finito. Per esempio lo sperimentalismo che potremmo dire in senso stretto nuovista in senso estetico-percettivo. Partecipando, nel 1995, a un convegno negli Stati Uniti, all'Università di Yale, sulla fine del linguaggio e la sperimentazione a fine secolo, ho avuto modo di argomentare a fondo su questo. Credo  che tale sperimentalismo sia finito, perché non fa più scandalo. Alla lettera, non crea più inciampo nel fruitore. Ormai il fruitore, per questa via si aspetta di tutto. Ormai ogni materia e ogni tecnica è entrata nell'arte. Immettervi una materia nuova o una tecnica nuova non fa più pensare e quindi produce un'inerzia psichica che  con l'arte s'è visto andare poco d'accordo. Il che non significa però che lo sperimentalismo  non debba rimanere ancora la via dell'arte. Non può non rimanerlo, giacché è l'unica via in cui la presenza della coscienza e del pensiero è inevitabile. Per dove e come allora mantenerli attivi. Attraverso quello sperimentalismo che io chiamerei etico. Devo dire sempre più praticato. In esso all'arte non vengono portate più materie e tecniche in sé, ma grandi temi sociali morali, quali la violenza, l'ecologia, le modalità di tangibilità del nostro stesso corpo ( penso, per questa via, alla critica del modello di bellezza corrente nell'Orlan ) e così via.

E poi, come seconda ma non secondaria conseguenza, che non è più possibile pensare all'Arte, con la "A" maiuscola e quindi a un'unica storia dell'arte. Se l'arte è, come appunto mi pare che sia, legata a filo doppio con la cultura, la poetica s'è anche detto, che come tale la costituisce e tali culture ( tali poetiche ) sono tante e diverse l'una dall'altra, anche la storia dell'Arte si suddividerà e si moltiplicherà in tante possibili storie dell'arte quante sono le poetiche che la abitano. Fare storia sarà ancora possibile all'interno di queste poetiche o, per dirla con un termine caro all'epistemologo Kuhn, all'interno dei singoli paradigmi artistici. Che so, dentro all'impressionismo, si potrà fare una storie dell'arte impressionista, dentro all'espressionismo, una storia dell'arte espressionista; dentro al dadaismo una storia del dadaismo e così via. A questa luce la storia tradizionale dell'arte si rivela anch'essa la storia dell'arte dentro un paradigma, quello mimetico, imitativo, non importa se del mito, della religione o della natura. Paradigma anch'esso parziale, messo tra l'altro in crisi prima dalla fotografia e poi ancora di più dal cinema, capace di riprodurre perfino il movimento. Mi sembra che chi vede questo veda giusto. Conclusione: ormai più che di storia dell'Arte meglio forse sarebbe parlare di una sua  varia e sfrangiata fenomenologia.

E il Museo ? Che dire del Museo a fronte di tutto questo. Beh! Direi almeno due cose. La prima è che nessun direttore di museo potrà più delegare la responsabilità delle sue scelte alle ragioni dell' "Arte" con la "A" maiuscola, quasi fosse questa verità trascendente a guidarlo, ma dovrà responsabilmente giustificarle. Non gli è insomma più possibile una difesa scientifica delle sue scelte, ma solo retorica , legata cioè all'esplicitazione della cultura e quindi della visione del mondo che  ritiene vada per il bene di tutti perseguita e, naturalmente , anche conservata. La seconda è che la distanza tra il Museo e  le gallerie militanti e private si va indubbiamente assottigliando. I Musei già si sono messi, mi sembra, dentro questa linea di concorrenza con il privato. Organizzano eventi, vendono sempre più intensamente riproduzioni, libri ecc. In senso epistemologico non è un male, perché ne porta a visibilità la loro natura integrata con il livello vivente di una cultura e di una società. In senso etico-politico è  bene che non dimentichino, però, di essere luoghi "privati" sì, ma propri di una comunità e non di una porzione, a volte individuale, di essa come le gallerie private in senso stretto, e sarebbe allora auspicabile che nelle relatività quelle dei musei fossero il meno relative possibile, che sapessero insomma leggere  i valori di maggior peso rispetto alle esigenze, direi umane, comuni.

 

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