events
themes
call for papers
ideology busters
links
staff

Home

Bruno Rosada

Notte in fa minore di Lorella Pagnucco Salvemini

E’ la storia di una donna, una pianista, Éléonore, che ci parla di sé. Ma potrebbe essere un’altra donna. Non una donna qualsiasi, però. Éléonore  è una donna eccezionale. Ma è un esempio di donna.

Lo leggi di un fiato. Alla prima lettura insegui una pagina dopo l’altra con una sorta di fretta di sapere e di capire. E la prima impressione è che lo stile, sia - anzi no, che lo stile è, senz’altro è - avvincente: la soave melodia del dire ti culla ed ammalia. Verrebbe fatto di considerarla prosa d’arte, se non fosse che troppo spesso riscontriamo il nulla che questo genere di prosa dissimula e svela. Invece in questo libro di Lorella Pagnucco Salvemini, Notte in fa minore, la scelta lessicale così accurata, che si basa sulla demarcazione chiara delle aree semantiche dei soggetti e l’aderenza al significato originario, la condensazione del significato, l’uso sapiente delle vocali chiare e cupe, delle consonanti che si inseguono spietate o annaspano alla ricerca di un momento sereno, dà al testo il valore di un testo poetico, anzi, pourquoi pas? dato il titolo, possiamo dire il valore di un testo musicale. Ma fa anche intravedere, “come per acque nitide e tranquille, non sì profonde che i fondi sien persi”, il contenuto concettuale configurando la forma così tersa e nitida come forma simbolica.

E quando hai finito di leggerlo, questo libro, avverti dapprima la delusione che il piacere di una lettura così gradita e stimolante, carezzevole, sia finito così presto, poi ti accorgi che lo devi rileggere perché avverti che nella furia della prima lettura ti sono sfuggite un sacco di cose importanti. E quando lo rileggi ti senti rapito e confuso, perché c’è una pluralità di sensi e di significati che risulta abbastanza difficile raccogliere e ordinare. Però sa si sente la necessità di farlo e la tassonomia concettuale che ne deriva è estremamente illuminante, anche se, come tutte le tassonomie, è convenzionale (come sarà questa) in quanto frutto di (opportuna) astrazione prammatica.

Già, il titolo: Notte in fa minore ha bisogno di una spiegazione. E’ la lunga notte d’attesa dell’io narrante, Éléonore, in un albergo lussuoso nel sud del mondo in una calda notte di febbraio. Éléonore  attende trepida, sperduta nel suo amore carnale sconfinato e insaziato in un albergo anonimo, uno strano amante, un arabo più anziano di lei, che dispone anche di un harem.

Lei è una pianista, ma nell’Islam il pianoforte è lo strumento del diavolo [pag. 67], ed è lui a dirlo, quasi a prendere certe distanze per predisporre la lunga disperata sofferta attesa.

Non è bello, neppure da giovane lo deve essere stato. Lui è, contemporaneamente, imbroglio e verità dei sensi. Lui è quasi vecchio, quasi un eroe, quasi un mito. Credo di aver cominciato ad amarlo prima che per quella sua pelle che sa di tabacco, sudore e deser­to, prima che per quegli occhi così abili a denuda­re anche la donna più pudica e velata, per questa sua approssimazione che lascia spazio a un cammi­no, a una indeterminatezza, a un destino non anco­ra del tutto compiuto. E sto qui ad attenderlo, nella trepidazione, nel­l’orgoglio e nella paura di incarnare quel po’ di futu­ro che gli resta. Una scelta definitiva, se non fosse che niente a questo mondo lo è mai completamente. Se non fosse che sono ancora in tempo per fuggire da questo amore. Se non fosse che fuggire da questo amore significasse fuggire da me stessa. Mancare l'appun­tamento con il culmine - o con l'abisso, che è la stessa cosa - della mia vita [pag. 9].

E questo è l’aspetto intensamente soggettivo. Il  risultato lo troviamo molte pagine più tardi quando Éléonore dichiara: Era come se fossi diventata invulnerabile, al riparo dal passato e da un futuro che non mi assomigliasse [pag. 66].

Questo è sostanzialmente il dato oggettivo faticosamente realizzato, l’oggettivazione degli stati d’animo, che per questo processo di oggettivazione costituiscono messi insieme un “sé” che ha sostituito l’”io” e si sottrae alla temporalità.

Ma se andiamo a pagina cinquantacinque leggiamo una cosa simile, ma assolutamente soggettiva: Mi sono detta: ci potrebbe essere qualcosa che annuncia una strana gioia che favorisce la speranza in questo assalto di sangue al cuore, in questa caparbietà dei sensi che non ascoltano che se stessi e come tiranneggiati da un delirio di fuoco. In questa spe­cie di febbre che sento pulsare nelle vene e alle tempie a conferma che, scegliendo lui, ho scelto me.

Deve venire da qui questa insolita fiducia nel futu­ro, questo inconsueto entusiasmo senza ragioni per la vita, questa voglia che ho, inusitatamente, di sor­ridere, di diventare leggera, di danzare.

Non mi era mai capitato di conoscere un uomo e, subito, di riconoscerlo. Che il mio corpo, per una volta in anticipo sui pensieri, lo avrebbe ricono­sciuto. [pag. 55]

Qui l’auscultazione di sé raggiunge il culmine è ritrasforma il “sé” in “io”, come se una sorta di Einfühlung consentisse al “sé” di raggiungere gli abissi estranianti dell’”io”, come se la “Iità”, il “das Icht”, si fosse improvvisamente fatto protagonista.

C’è un elemento rivelatore di questa intensa “umanità umanistica” (si perdoni il bisticcio) di Notte in fa minore, ed è la struttura della narrazione: l’io narrante si confessa, e nel momento in cui con questa procedura celebra la sua massima soggettività in effetti (e non è contraddizione, o meglio è una contraddizione dialettica) oggettiva gli stati d’animo e li trasforma in cose.

Sono davvero piccola – dice parlando dalla sua infanzia in collegio dalle Mantellate - e già sospetto che, brutte e severe come mi sembrano, le devote spose di Gesù che ora formano il mio mondo abbiano rimediato quelle strane nozze con un morto per carenza di spasimanti vivi [pag. 17]

Ed allora il “diario” diventa un “reportage”, e l’io un inviato speciale nell’inesplorata terra del “sé”.

E’ così che ti chiedi: che cos’è questo? Un diario? una confessione? Si dice: flusso di coscienza stream of consciousness. Ma di che cosa è fatto il flusso di coscienza? Ricordi, rimpianti, sogni, illusioni, desideri: tutto questo insieme. Si tratta di una cosa estremamente rischiosa per uno scrittore, che dal miscuglio di tali eterogenei ingredienti rischia di trovarsi sommerso.

Lorella Pagnucco Salvemini nello scrivere Notte in fa minore ha presente un dato, che nella sua occulta ovvietà è quasi sempre trascurato dai più, che la coscienza non è un luogo “dove” stanno quelle cose che abbiamo appena nominato e tante altre ancora, la coscienza è una condizione ed una azione insieme: insomma non è un recipiente. Proviamo ad adoperare un suo sinonimo, chiamiamola consapevolezza, e allora ci accorgiamo che tutto cambia aspetto. E scopri anche che l’inconscio c’entra meno di quanto si creda. Infatti questa scrittrice domina dall’alto desideri e stati d’animo, delusioni ed esaltazioni, capricci e doveri; e ciò è perché ne ha la consapevolezza: del resto si tratta di un flusso di coscienza, non di incoscienza! E questa è una  rivelazione che nasce proprio nella scrittura di questo libro, Notte in fa minore, un libro che “si fa”, che cresce fra le righe e che sotto l’ingannevole apparenza della confessione diaristica cela le fattezze del trattato di filosofia. Non di psicologia; sì, anche di psicologia, ma soprattutto è la Weltanschauung (nella quale la psicologia gioca un ruolo apparentemente primario, ma in realtà di sutura) che trapela attraverso asserzioni che sembrano (sono) aforismi. Fin dall’inizio.

Non so in quale storia, in quale mare, in quale amore mi stia perdendo o, forse, ritrovando. Non so più chi sono.  [pag. 7]

Inizia con queste parole il libro. E nella pagina successiva: Non capisco sulla spinta di quale impulso sia arrivata in questo posto, punto oscuro di un impreciso atlante dell’anima. Accetto la mia impossibilità di comprensione, questa novità che non mi fa più essere padrona di me stessa. Questa debolezza e questa forza, questo smarrimento che, probabilmente, è quello di cui parlano i poeti e i folli quando sfiorano l’essenziale.

Non so quando è successo e perché. Che cosa, improvvisamente, mi abbia fatto decidere che non c’è saggezza senza pazzia, che neanche il meno impalpabile dei    pensieri rinuncia a passare attraverso il corpo.

Qui sta la chiave di lettura: o meglio una delle innumerevoli chiavi di lettura del romanzo. Rileggo: neanche il meno impalpabile dei pensieri rinuncia a passare attraverso il corpo”: E’ quella che lei chiama la sapienza del corpo [pag. 16], e, dato che determinate variazioni di fattori fisici o fisiologici provocano accentuate variazioni soggettive, si riscontra un gran numero di variabili nelle diverse situazioni. Ma c’è anche la direzione inversa, quando lei denuncia certe idee da intellettuale controcorrente [ce l’ha con suo padre] che scomoda la filosofia per giustificare le bizze del suo testosterone [pag. 15].

La conseguenza concettuale è che “non c’è saggezza senza pazzia”, e questo è il punto di scontro senza mediazioni tra razionale e irrazionale, che la scrittrice rappresenta naturalmente con assoluta razionalità.

E’ una chiave di lettura probabilmente centrale, dico “probabilmente” dato che consente di costruire una tassonomia delle diverse affermazioni, anche se l’inevitabile soggettività della lettura consente innumerevoli altre impostazioni. Da essa a cascata ne nascono altre, col carattere del paradosso (ma è una verità, parà tèn dóxan) la prima delle quali a me pare sia questa: “Si tradisce solo chi si ama, altrimenti non si tradisce nessuno” [pag. 15] da cui discende quest’altra: “di quanto possano inibire il genio certe forme di virtù che negano la vita e spingono a interpretare ogni cedimento della carne come una catastrofe” [pag. 76].  E’ il problema fondamentale della consapevolezza a livello cognitivo e della responsabilità a livello etico.

Si tratta di risultati ai quali si può pervenire anche con percorsi diversi, che oltre a tutto sono spesso reciprocamente incompatibili, e tuttavia non è chiaro se è l’esperienza di quel meta-personaggio che è l’io narrante, a produrli o se entrano in gioco per motivi intrinseci: il fatto è che considerazioni di carattere pratico ed etico rendono difficile analizzare situazioni effettive di crisi e la raffigurazione è sempre parcellizzante.

C’è un episodio terribile per gli eventi che comporta e per la qualità delle persone che ne vengono coinvolte, che viene descritto in termini essenziali e con una sorta di nonchalance tipicamente classicista, anzi (sarebbe dir meglio) neoclassica: la protagonista, appena adolescente, viene sedotta dal padre confessore del collegio di monache dove è stata “educata”, resta incinta e successivamente abortisce e non è chiaro quanto l’aborto sia stato spontaneo o procurato.

Questa è la fredda reazione:  Provare compassione per lui [questo “lui” è il padre confessore] aiutava a non averne per me [pag. 21].

E l’etica assume un carattere primario perché si plasma sulla condizione umana. Si veda verso la fine del libro la narrazione di un evento imbarazzante: il tentativo operato da uno sconosciuto, in treno, lo scompartimento era deserto, con atteggiamenti osceni, di sedurla o di violentarla. La sua imperturbabilità collima con la saggezza e rasenta la complicità: … in quell’essere, che pure mi tratta con una delicatezza da fanciulla, si potrebbe nascondere il maniaco, l’assassino.  Non resta che fidarmi di lui, della lentezza esasperante con cui sta conducendo entrambi alla voluttà soffocata dei ladri [pag. 92]. 

Prima aveva parlato di “stupore del corpo, che segue regole ancora sconosciute, una armonia dei movimenti e del respiro che si scioglie in spasmi e sperma” [pag. 76,] che nasce da quella sapienza del corpo, che qui [in Oriente] conoscono bene, e da me, in Occidente, per l’ostilità di un dio nessuno insegna più da duemila anni” [pag. 16].

Essa consiste in un particolare filtraggio per il quale neanche il meno impalpabile dei pensieri rinuncia a passare attraverso il corpo [pag.8].

Lo so che a parlare di epicureismo si rischiano due fraintendimenti, il primo è di attribuire alla visione del mondo di questa raffinata scrittrice la grossolanità di un equivoco già denunciato da Orazio col famoso porco del gregge di Epicuro; l’altro è quello, per i più scaltri e acculturati, di confondere questa “sapienza del corpo” col materialismo “crasso e volgare” settecentesco, che anche Karl Marx aveva deplorato. Invece c’è una classicità nelle lettere di Epicuro e nella sua dottrina, che si ritrova in questo romanzo (romanzo o saggio?) di Lorella Pagnucco Salvemini, naturalmente fatta salva la distanza di ventitré secoli.

I benpensanti hanno inventato la parola “felicità” per distinguerla dal “piacere”; pare che la felicità si trovi in Paradiso e il piacere conduca all’Inferno. Invece il nostro secolo ha bisogno di una rivisitazione (e di un adeguamento, certo!) del pensiero del grande filosofo di Samo per separare il piacere dal peccato, e per operare la sottile distinzione tra “star bene” e “benessere”, recuperando l’identità dei sinonimi, piacere, gioia, felicità, benessere. “Una ferma conoscenza dei desideri – scrisse appunto l’antico saggio - fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell'animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall'ansia. Una volta raggiunto questo stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa”, e questa è la dottrina di Éléonore.

E da questa base si dipartono altre e diverse sequenze concettuali, la prima delle quali è la temporalità, che assume la dimensione della memoria e della rappresentazione dell’evento memorando, ma che nella narrazione si intreccia in una serie di anticipazioni e di flashbach.

Sento che il tempo comincia a riprendere fatico­samente il suo corso: il ritmo non è più scandito dal cuore dell'arabo. Devo essergli grata per aver calpestato il mio pas­sato, per avermi così permesso di smaltirlo. Verranno l'alba e poi la mattina. E poi ancora il momento in cui tutti i pensieri tramontano, costret­ti precipitosamente a farsi azioni. Vortice in cui annegare il peso della sua mancanza. [pag. 101, passim]

Queste parole precisano il senso della doppia temporalità vissuta da Éléonore, nella quale per usare le parole di Henri Bergson possiamo le temps e la durée, però fortemente aggrovigliate nella realtà narrativa, dove le anisocronie assumono il senso della forma simbolica. Lo scarto forte è fra l’interiorità, che nella formulazione stilistica propone inevitabilmente momenti lirici, e la oggettivazione che usa sapientemente le forme del realismo a volte crudo, se pur contenuto entro i canoni della classicità; si veda per esempio la descrizione della tentata violenza da lei subita alle pagine 90-92, ma anche il ritratto del marito Pierre nelle diverse posture. E a tratti anche  l’amante atteso dal nome simbolico Rajul (che vuol dire uomo) presenta tratti estremamente realistici:

Incurante della morte, affascinato dalla morte. Selvaggiamente eroico, spietato, perverso - le rea­zioni della bestia ferita - non poi tanto distante da chi si ritrova a sparare all'altro lato del fronte [pag. 97].

E questo accade all’esterno, dove la temporalità distesa nella spazialità si fa materia, in questa caparbietà dei sensi che non ascoltano che se stessi [pag. 55]. Ma sono sensi che non hanno solo a che fare col piacere del sesso e dell’amore (talvolta). C’è qualcosa di più spietato: I bei tratti nobili e alteri stravolti dalla furia omicida, gli occhi e le mani assetate di sangue, si vede già nella mischia, ad avanzare calpestando sprezzante cadaveri nemici [pag. 97].

Forse è questa la radice degli odi e dei rancori umani

Un lampo. Ancora il bagliore spettrale di un altro missile a squarciare la vastità di un cielo sotto cui era bello perdersi e sognare.

Un boato, fuoco, fiamme: è lo spettacolo della bat­taglia. L'eccitazione dello scontro. Di chi si ostina a cercare la propria fine, di chi prega per poter riab­bracciare una persona cara e, nel frattempo, estrae dal fondo di una tasca una fotografia stropicciata come la sua anima e la bacia. Di chi si rinserra in una corazza di durezza per non ricordare, percepi­re, desiderare più nulla.

E’ tempo di allarmi, di rifugi, di terrore. Dentro, o fuori questa stanza d'albergo - deve essere l'alcol a confondermi, non distinguo. Non saprei se le macerie e i corpi atrocemente mutilati che ho davan­ti agli occhi siano in televisione, a qualche centinaio di metri o di chilometri da qui [pag. 97].

Non si può evitare la necessità di postulare meccanismi di assunzione di questo genere per utilizzare come indice la distanza, o spaziale o, più spesso, temporale: Due eventi straordinari quali l’amore e la guerra ci hanno messi nella stessa situazione di pericolo [pag. 98].

Quando la suggestionabilità è alta e l’azione e la percezione non possono venir regolate in base alla esperienza passata, la tendenza ad isolare se stessi dagli eventi circostanti induce a conservare una organizzazione percettiva stabile e ad agire secondo schemi familiari: ed Éléonore tra sé realizza. Adesso comprendo. In questo buio, comprendo che esiste una forma di cecità peggiore di non vedere il mondo: non voler vedere l’anima [pag. 94].

E allora tutti gli eventi perdono forma; l’amplesso semiincestuoso col secondo marito di maman,  il concerto alla Fenice di Venezia, porte aperte furtivamente ad amanti da dimenticare in fretta. Scelti mai a caso ma, scrupolosamente, fra chi meno avrebbe potuto corrispondere all’uomo che, se me lo fossi concesso, avrei desiderato attendere  [pag. 77]. Situazioni incontrollate di comportamenti incontrollati, non catastrofiche ma intensamente emozionali. Bastava poco a negare l’avvenire [pag. 77]. I personaggi che ruotano attorno ad Éléonore diventano così consapevoli dei significati del loro agire in quanto questi risultano stimoli di altre azioni e di altri comportamenti, perché al di là di questi si manifesterebbe una sorta di cecità totale: Prendere atto di quanto possa essere arida e finta la cosiddetta buona salute dell’anima. Di quanto possano inibire il genio certe forme di virtù che negano la vita e spingono a interpretare ogni cedimento della carne come una catastrofe [pagg. 75-76].

Lorella Pagnucco Salvemini
Notte in fa minore
Marsilio Editori
2006 Venezia
pp 103,  € 12,00

 

Logo Parol
© 1985/2003 Parol - quaderni d'arte e di epistemologia
Per qualsiasi utilizzo delle risorse presenti sul sito contattare la redazione
Site designed and managed by Daniele Dore