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Paolo Conti scrittore*

Lorella Pagnucco Salvemini

Paolo Conti, oltre che pittore e scultore, coltiva una grande passione letteraria, sfociata nella pubblicazione del romanzo "Rumore di fondo" (Alberto Perdisa editore). Agli inizi, l'autore preferisce restare in incognito e si firma  misteriosamente "Anonimo lombardo". Sceglie lo pseudonimo per proteggersi da eventuali accuse di dilettantismo, perché sa quanto spesso  pubblico e critica ragionino per schemi, per compartimenti stagni che impediscono di accettare che un artista possa essere versato contemporaneamente, e allo stesso livello qualitativo, in più discipline.  

Paolo Conti, già dalle prime pagine del libro, smentisce questo luogo comune. Il suo è un testo bellissimo - vale a dire seducente, difficile, inquietante, ironico, spietato. Uno scritto  a conferma che ognuno di noi è quello che è in ogni cosa che fa.

Si è già visto come le sue opere d'arte nascano dalla cultura del frammento. Come, nel suo caso, il rottame sottratto alla funzione primaria, venga decontestualizzato, ripreso, reinterpretato e assemblato con rigore scientifico. E la bellezza, il fascino, ma anche la durezza, la spigolosità dei suoi lavori sta proprio in questa precisione ordinatrice, in una combinazione di incastri eseguita secondo una logica matematica e poetica ad un tempo, fatta di ritmo e armonia, anche quando, soprattutto, si intrattiene con la dissonanza. Da qui, non è affatto un caso e non poteva essere altrimenti, lo sconfinato amore di Conti per la musica e la letteratura.

Quanto attiene alla sua opera visiva si rispecchia esattamente in "Rumore di fondo". Le frasi del romanzo seguono l'andamento del suo pensiero, che è il medesimo, sia quando dipinge e scolpisce che quando scrive. Deriva imprescindibilmente dalla cultura del frammento.

In letteratura, suo maestro e punto di riferimento assoluto è Joyce, l'autore più difficile e decisivo del novecento. È il Joyce dello Stream of consciousness. Del monologo interiore che si snoda nella coralità di molteplici monologhi interiori, registrando perfino le più impercettibili oscillazioni della coscienza come delle passioni e delle contro-passioni delle menti inconsce, con accenti ora teneri, ora sprezzanti, ora derisori, ora lirici, ora comici.

Se dell'Ulisse di Joyce "Rumore di fondo" riprende l'impianto strutturale (difatti, ritroviamo lo schema del flusso di coscienza, della pluralità dei monologhi e dei toni  di voce che si estendono da una potente invettiva a una altrettanto potente comicità) diversa e personalissima è invece l'attualizzazione che l'autore fa della grande lezione di Joyce, a cominciare già dal modo di procedere con la scrittura.

Lui stesso definisce il suo romanzo un figlio del computer. Lo ha iniziato 25 anni fa, annotando pensieri, riflessioni, così come gli venivano in mente, una dietro l'altra. Accumula una dopo l'altra frasi apparentemente scollegate fra loro, senza nesso, senza un filo conduttore. Poi, proprio come fa con i rottami raccolti  per realizzare le sculture, avanza per sottrazioni e suture. La mano sul mouse, in una alternanza di click su taglia e incolla, e le parole iniziano ad assestarsi in modo armonico, a trovare una loro collocazione, concatenazione. Fluiscono liberamente, ritmicamente, musicalmente. Prendono la forma della poesia e del racconto. Emergono una trama, un intreccio, il protagonista, l'antagonista. La storia si definisce, riconosce l'apice del dramma e il momento risolutivo del finale.

Un modus operandi che solo a uno sguardo di superficie  può ricordare la scrittura automatica dei surrealisti o le parolibere dei futuristi (anche Conti, come vedremo, omette la punteggiatura). La sua aspirazione  non è subire passivamente la scrittura, la ama troppo per permettere che diventi un semplice sfogo dell'inconscio. Semmai vuole possederla, se non dominarla perlomeno comprenderla, nel senso etimologico del termine: con-prendere, prendere con sé. Per lui l'opera d'arte non si può dare nella trascrizione ma nella trasposizione. Così il ricorso all'autobiografia (questa grande scoperta e peculiarità del romanzo novecentesco)  non segue  in "Rumore di fondo" la via dello svelamento, ma della rivelazione, dello stupore e della lotta  per conoscere se stesso e il suo destino. Ma non si tratta neppure di un Bildungs-roman , di un romanzo di formazione in senso stretto. È piuttosto un romanzo di vocazione. Racconta la storia di un uomo che cerca affannosamente di svincolarsi dai condizionamenti sociali, dal buon senso borghese che lo vorrebbe per sempre ingabbiato nel ruolo sicuro di impiegato in una fabbrica, e di tutti i suoi dubbi, angosce, tentennamenti, sensi colpa, fino al coraggio di compiere il grande salto nel buio, nell'incognita dell'arte e autodeterminarsi come artista.

Una trama, dunque, che se volessimo fare un dispetto a Conti definiremmo interessante, perché riassunta così brevemente non dice nulla dell'incanto della narrazione, che è dato dallo stile, dal linguaggio, dalla qualità della scrittura, dal modo di raccontare. Una prosa che in Conti non può che snodarsi attraverso il frammento, con frasi che riportano alla perentorietà dell'aforisma, concise, secche, taglienti e abbaglianti come schegge di diamante. L'autore omette di proposito i punti, le virgole, gli esclamativi: è in guerra con le convenzioni del linguaggio quanto il suo protagonista con le convenzioni sociali. Nel testo restano, tuttavia, i punti a capo e i punti interrogativi, a scandire assieme ritmo narrativo e possibilità di riscatto. È come se dicesse: finché siamo disposti ad andare oltre (e qui l'oltre è rappresentato dalla riga successiva) e a porci domande (l'interrogativo) siamo salvi.   

Una lettura complessa, che suscita reazioni opposte e contraddittorie. Che, mentre coinvolge e assorbe, spinge  alla fuga, tanto fanno male questi condensati di realtà, lapidari e fulminei, detti in una riga, che leggiamo e torniamo a rileggere.

Una lettura che sollecita a rifiutare l'identificazione, a mantenerci a distanza di sicurezza da questo io narrante. E chi è? Un folle, dopotutto, che rinuncia alla sicurezza economica e sociale in nome dell'arte e non spiega nemmeno come riesce a pagare le bollette. Ma dobbiamo restare distanti anche dalle voci del contrappunto, che si sollevano antipatiche e stridenti, in falsetto. Un coro irritante che inneggia al buon senso comune e non si accorge neanche delle sue stonature buoniste, perbeniste, ipocrite, invidiose, avide, meschine. E tuttavia Conti, da vero artista, il dubbio ormai ce l'ha insinuato. Non abbiamo scampo, anche noi dobbiamo decidere, diventare come lui o come loro, o zombi o artisti.

L'artista, l'artifex di un tempo, è nel nostro tempo l'outsider, colui che sta fuori, il diverso, il traditore. Lo scansafatiche che si permette il lusso di creare, mentre gli altri sono obbligati a produrre. Stretti nella morsa della catena di montaggio, dei bilanci da far quadrare. E sempre a soccombere per poter sopravivere: una vita a dire sissignore per le rate della macchina, il mutuo della casa, le spese della vacanza, per non fare brutta figura con i vicini, per la pensione. L'artista è chi ha avuto il coraggio e la forza di dire no a tutto questo, e di farlo a suo rischio e pericolo, attirandosi incomprensione, risentimento, odio. Fra essere e avere ha deciso. E agli altri, all'esercito delle diciotto e trenta imbottigliato nel traffico, alla marea abnorme e caotica dei pendolari nevrotici e frustrati fa sapere che non è diventato più felice di prima. Ma che semplicemente, finalmente, meravigliosamente è se stesso. E che il miracolo, a chi ci crede, accade.

*Intervento letto nell'Aula Absidale di Santa Lucia dell'Università di Bologna, il 16 gennaio 2003, in occasione della presentazione  del libro Paolo Conti: opere su tela a cura di Giovanni Granzotto e Leonardo Conti, Perdisa Editore, 2002 e del numero 16 della rivista "Parol", pure dedicato, per quella sua parte abitualmente dedicata agli artisti, a Paolo Conti.

 

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