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Intervista ad Edoardo Sanguineti

Di Pesce Maria Dolores

Ho incontrato Edoardo Sanguineti, nel suo studio presso la Facoltà di Lettere dell'Ateneo genovese, ove, molto cortesemente, ha accettato di rispondere ad alcune domande.

D: Professor Sanguineti, a Palermo nel 1963, in occasione del convegno della neoavanguardia, durante la prima serata venne proposto uno spettacolo teatrale. Tra gli undici testi presentati per la regia di Gozzi e Dewey misero in scena il suo "K". Cosa è rimasto nel suo lavoro di drammaturgo della esperienza nella neoavanguardia in seno al gruppo '63?

Credo che per tutti quelli che parteciparono al Gruppo63, le giornate di Palermo nell'anno della fondazione e poi gli incontri successivi nel corso degli anni 60, siano stati molto rilevanti. Non tanto perché si elaborasse una poetica comune, dato che tutti quelli che erano a Palermo nel primo anno erano già autori che avevano pubblicato loro testi, chi più chi meno anche a seconda dell'età, e quindi avevano un loro profilo, una loro strada. Però il fatto di discutere molti problemi e di confrontarsi, agì inevitabilmente su tutti quelli che discutevano e leggevano testi in quella occasione. Io credo che, quando poi il Gruppo si sciolse e ognuno riprese la propria strada, ciascuno ha conservato quello che gli era parso utile da questo confronto da questo dibattito che, soprattutto sul piano delle poetiche, aveva dato indubbiamente un impulso a nuovi modi di ricerca, aveva agito su più giovani scrittori. Personalmente, all'epoca in cui avevo scritto "K", che era il primo testo e che non pensavo destinato alla scena, anche se l'avevo scritto sperando naturalmente che fosse messo in scena, quell'esperienza penso che sia rimasta come germe operante poi in seguito. Cioè l'uso di un linguaggio che non ha nessuna ambizione, anzi cerca di prendere tutte le distanze da una mimesi di tipo naturalistico. Cercavo un tipo di dialogo e comunicazione che sotto apparenze di una redativa quotidianità però si allontanasse da questa sorta di comunicazione "ingenua" del rifare la vita sulla scena. Cosa che poi mi ha condotto a spingere in questa direzione più fortemente in seguito, cercando di costruire anche delle opera non fondate sul colloquio, in cui i personaggi o le voci siano numerosi ma viene meno il colloquio. E' il caso di "Traumdeutung" oppure di "Protocolli" dove ogni personaggio racconta una propria vicenda, un proprio sogno, o quello che è di volta in volta, ma non comunica dialogicamente con gli altri.

  1. Quale rapporto esiste, dunque, tra la sua scrittura per il teatro e l'esperienza lirica di quel periodo, soprattutto con riferimento alla funzione, all'uso e alla manipolazione della parola?

Credo che il rapporto sia abbastanza stretto, nel senso che anche quando scrivevo poesie, le pensavo sempre molto destinate ad una voce che le eseguisse. Questo non significa pensare in termini teatrali, ma pensare comunque ad un primato della comunicazione orale su quella visivo scritta che è quella da noi dominante, perché di solito la comunicazione poetica nella maggior parte dei casi, e soprattutto, direi, in quegli anni, avveniva attraverso la pagina scritta che è la forma più frequente, più normale, anche quella scolasticamente meglio istituita, proprio come abitudine sociale. Io sin dai primi testi pensavo piuttosto ad una voce recitante, e questo è un elemento che poi circolava abbastanza nel Gruppo63, perché anche gli atri poeti "novissimi" spesso trasferivano le poesie stesse sulla scena, spingendo appunto in questa direzione di vocalità, di resa vocale. Io ho cercato sempre di tenere comunque distinti i due livelli, ma era abbastanza naturale che il teatro mi interessasse, perché l'idea di comunicazione vocale era molto forte, oserei dire che persino i romanzi, che sono un genere di letteratura per eccellenza muto, anche se oggi, per esempio, è molto frequente che si incidano romanzi su nastro, che li si ascolti, vengano letti per radio e via dicendo, però anche nella scrittura romanzesca pensavo sempre in qualche modo ad una presenza della voce, e la presenza della voce è di per sé una presenza corporea, che implica almeno a livello immaginativo, se non a livello di fatto, una realtà anche gestuale. La voce è corpo.

  1. Attualmente quale spazio dedica sia personale che professionale, e quale significato ha per Lei oggi, il teatro ?

L'attività teatrale, a parte proprio il caso di "K" che era un caso iniziale, è sempre stata per me eminentemente collegata a delle occasioni precise. Non ho mai né scritto un testo, né preparato un Travestimento in senso stretto, né elaborato una traduzione di testi teatrali se non pensando ad una certa realizzazione scenica. Questo perché, di norma, per me è molto importante avere in mente anche chi la realizza, il luogo dove la realizzazione avviene, gli attori, in quanto uno cerca anche di costruire i testi in relazione ad un destinatario, che prima di essere il pubblico è colui che opera sulla scena. Ci sono periodi in cui ho lavorato di più e periodi meno al teatro, proprio in relazione alle circostanze esterne, all'occasione. Se scrivo una poesia e poi la metto in un cassetto, la cosa non mi disturba, in effetti scrivo la poesia e poi, quando c'è l'occasione di comunicarla la comunico, tramite libri, riviste ecc.. La stessa cosa può essere per una scrittura saggistica e romanzesca. Riguardo al teatro, invece, penso che stia male nel cassetto, essendo qualcosa che deve nascere come è naturale, poiché è qualcosa che è fatto per una rappresentazione, per una messa in scena, deve avere un destinatario preciso, ed è legato anche a circostanze più definite. Naturalmente può accadere qualche volta, ed è il caso del Testo più lungo che abbia scritto, cioè "Storie Naturali" , che la cosa nasca in vista di una realizzazione che, poi, non si verifica immediatamente perché per ragioni pratiche non accade, ma allora anche il testo si trasforma automaticamente. Voglio dire che, per esempio, "Storia Naturali" era nato, per l'appunto, in germe, in origine, come idea prima in vista di un'opera musicale che era destinata alla musica di Berio e doveva essere messa in scena da Ronconi, quindi doveva essere un lavoro che nasceva da questa collettività. Poi per ragioni accidentali la cosa non si realizzò, e a quel punto io lavorai il testo senza più pensare né a Berio, né a Ronconi e andai per conto mio. Questo non toglie che poi, naturalmente, un testo che è nato per una certa occasione, venga poi ripreso. Io in effetti ho tradotto "Le Baccanti" per Squarzina poi molti anni dopo, poniamo, la mette in scena Ronconi. Recentemente a Napoli c'è stato un convegno sul mio "Faust un travestimento" durante il quale ci fu una serie di seminari all'Università, organizzati da una scenografa, con gli studenti che facevano esercizi di proposte scenografiche per il "Faust", cui parteciparono quattro registi che avevano messo in scena il "Faust" successivamente, a partire dal primo che l'aveva realizzato a Napoli, a quelli che l'avevano messo in scena in Italia e fuori (perché tra l'altro c'era anche una regista che l'aveva messo in scena a Berlino), nonché un musicista, Lombardi, che ne aveva ricavato un'opera. Ci fu dunque questo confronto. Allora poi un testo rivela tutta una sua storia che dipende appunto dalle varie realizzazioni, ma che è utile avere in partenza, all'inizio. Nell'ultimissima fase i rapporti con il teatro, si può dire, sono stati dominati da questi tre lavori con Liberovici , perché in tre anni di seguito, uno dopo l'altro, con "Rap", con "Sonetto" e con questo "Macbeth Remix" abbiamo avuto modo di fare in tempi brevi tre realizzazioni sceniche in musica.

  1. In quale rapporto stanno, con il teatro e nell'ambito della sua attività di drammaturgo, le sue opere "originali" e i suoi "travestimenti" ?

Uso, volentieri, la parola "travestimenti" in due significati che tendono poi a sconfinare l'uno nell'altro, ma che possono essere anche, in qualche modo, distinti. Da un lato il "travestimento" è, come dire, un genere teatrale specifico. Si lavora su un materiale che, in qualche modo, preesiste, che può essere un testo già teatrale o un testo non teatrale, e viene elaborato in vista di una particolare messa in scena. Allora, in questo caso, il lavoro è molto vicino a quello che si potrebbe definire proprio del "drammaturgo", nel senso che la parola ha, per esempio, nel teatro fuori di Italia, soprattutto in Germania. Noi viviamo di un rapporto tra gli autori ed il regista che mette in scena, lavorando sugli attori. Poi c'è il pubblico cui lo spettacolo è destinato. In una cultura, poniamo come quella tedesca, la figura del "dramaturg" è una figura diversa dall'autore e diversa dal regista. E' colui che progetta le modalità della realizzazione scenica, e poi, lavorando sul canovaccio o sul copione dato dall'autore, sul testo letterario, diciamo così lo gira, dopo averlo in qualche modo elaborato e ripensato, al regista che lo realizza, poi, con gli attori. In fondo il lavoro di travestimento è un lavoro di drammaturgia, ecco, in questo senso. Ma credo che, al limite, chiunque scriva un testo teatrale, se lo pensa realmente per il teatro, è, non tanto un autore nel senso in cui letterariamente si usa questa categoria, quella per cui, appunto, sono cattedre separate, per dirla in termini accademici, quella della Letteratura Teatrale e quella di Teatro e Spettacolo. E' la sintesi tra le due insomma: è l'apprestamento di un materiale destinato alla scena. Allora in questo senso, travestimento è, un po' sempre, ogni forma di teatro, se davvero opera di un autore teatrale, il quale appresta dei materiali e li destina alla scena, avendo in mente proprio la realizzazione concreta e non la lettura muta, come è invece molto frequente nella tradizione letteraria, soprattutto italiana, dove di solito accade che anche uno scrittore si rivolga al teatro, ma in fondo spesso lo considera un genere un po' marginale e lavora, poi, pensando soprattutto all'opera della scrittura. E' un teatro, insomma, molto letterario di norma il nostro e forse anche in generale. La reazione che si è avuta appunto nell'età delle avanguardie, delle nuove avanguardie, è stata una reazione molto rivolta alla scena concreta, ad un teatro immagine, si diceva volentieri, cioè un teatro in cui l'elemento di ciò che si vede è almeno ugualmente importante, spesso molto più importante, di ciò che si ascolta come comunicazione logica, e questo reagiva appunto ad un eccesso invece di teatro di conversazione, iperletterario.

D. Lei considera il teatro odierno un teatro di autori, un teatro di registi ovvero un teatro di attori?

Purtroppo è queste tre cose un po' insieme. Dico purtroppo perché, indubbiamente c'è un relativo declino dell'attore almeno nel senso tradizionale, dell'attore mattatore insomma. Il teatro in chiave di regia ha molto meglio organizzato queste cose. Molto debole il teatro di autore, perché sono veramente pochissimi, quasi inesistenti gli autori puramente teatrali. I casi migliori forse si hanno quando si riescono a fondere queste cose insieme. Penso, non so, ad autori come Carmelo Bene, che elabora lui stesso i testi teatrali, magari operando per travestimento, appunto, oppure a Leo de Berardinis. Anche lui elabora dei testi suoi, magari parte da Shakespeare ma poi procede per conto proprio. Il teatro di regia nel complesso è stato un progresso rispetto al teatro di esibizione dell'attore, però quello che poi finisce di accadere è che questo teatro si è accademizzato molto e la sperimentazione registica viene ad essere un po' bloccata. Per questo dicevo, è importante la figura del drammaturgo, e in Italia questa è una figura o che non esiste o che opera in maniera poco efficace.

  1. Quale è, secondo lei il ruolo oggi di un poeta nel mondo teatrale?

E' una formula che si può prestare ad equivoci, nel senso che spesso si è parlato, da parte di alcuni registi, di un teatro di poesia, e la formula può essere anche seducente, se per teatro di poesia si intende un teatro antinaturalistico e che cerchi di suscitare un mondo immaginativo molto più libero, molto più mosso, molto meno legato al racconto di una storia e di una vicenda secondo la tradizione del teatro borghese. Però c'è anche il rischio di liricizzare il testo teatrale al di là di quello che è scenicamente efficace, cioè di fare della poesia sulla scena; allora c'è il rischio di un certo lirismo e questo anche presso registi che partono con buone intenzioni. Io credo che il problema importante sia, come accennavo, quello dell'oralità, se il poeta è un poeta che pensa a dei testi lirici orientati verso la loro " dicibilità ", allora, il suo lavoro per il teatro, ha maggior probabilità di riuscire efficace e se no, no.

D. Vorrei, per finire, che lei stesso si ponesse una domanda, magari quella che avrebbe desiderato sentirsi porre sul teatro.

Forse la domanda più semplice potrebbe essere quella: perché ho scritto testi teatrali. Come accennavo prima la cosa poi si è sviluppata secondo occasioni esterne, ma certo quando ho scritto il primo testo nessuno mi obbligava. Quello che mi stimolava era genericamente l'idea di non rinchiudermi in un modulo di genere, cioè poniamo la sola poesia, e la stessa cosa che mi ha scritto a scrivere dei romanzi e non limitarmi appunto all'operare in versi. Però quello che mi colpiva nel teatro era una sorta di" irresponsabilità ", se posso dire così, colorendo un poco il fenomeno, che sentivo nella scrittura teatrale. Cioè, chi scrive per il teatro affida a una o

a molte voci, a uno o molti personaggi, quello che viene detto e agito sulla scena, e a un certo punto finisce per credere davvero ad una sorta di passaggio della parola a una figura immaginaria, davvero ad un altro, che parla al suo posto. Insomma il poeta è ancora tutto sommato come il narratore, un "io" che racconta, e questo io può essere molto fittizio molto simulato, può cancellarsi,( la poetica dei Novissimi nacque proprio dall'idea di deprimere il ruolo dell' io) ma nel teatro questo ruolo, in qualche modo, si cancella davvero. In scena è un personaggio, e il personaggio non è l'autore. Può essere anche un portavoce dell'autore, come spesso si verifica, ma nella maggior parte dei casi, e alcuni casi teatralmente davvero efficaci, è proprio qualcuno che parla in qualche modo per conto proprio. Allora si ha l'impressione di scrivere come scriverebbe un medium, o di scrivere, è il caso di dirlo , proprio in" maschera", in "travestimento". Il personaggio che parla non sono più io, è un personaggio del tutto immaginario, è una figura di bambino, di vecchio, di giovane, di donna, e a un certo punto si ha la sensazione che parli per conto proprio, di avere dinanzi dei personaggi, per dirla pirandellianamente, che si ribellano anche al proprio autore e dicono quello che hanno voglia di dire. Allora il "travestimento" è in fondo una sorta di trascrizione che si opera, ed è l'autore che si traveste nei suoi personaggi. Devo dire che quando mi capita di assistere ad un mio pezzo teatrale, quello che provo è persino, mi è accaduto già di confessarlo, quasi un senso di imbarazzo, perché mi trovo dinanzi ad un testo che non sento totalmente mio, e certe volte, con un certo stupore, scopro di aver detto, cioè fatto dire, da un personaggio, da una voce, delle cose che in fondo mi meravigliano. E' come se si desse una certa maggiore apertura a degli elementi inconsci. Siccome l'elemento inconscio ,per me, è sempre stato molto importante nella scrittura, qualunque fosse la modalità assunta, nel teatro questo l'ho sentito in maniera, anche più forte, in maniera più precisa, liberarsi e articolarsi.

 

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