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SEMINARIO

ALLA RICERCA DELL'INVISIBILE

NELLE POETICHE DELLE AVANGUARDIE STORICHE

2002/2003

 

L'EX-PRESSIONE DELL'INVISIBILE

Di Walter Lucchi

Ex-primere (premere fuori) l'invisibile (ciò che non è visibile, che non si dà alla visione ottica). È questo il mistero ri-velato nelle opere di quel modo di fare pittura d'inizio '900 conosciuto come Espressionismo. Già in Cézanne e in Van Gogh, i tocchi e i bastoncini quali elementi costruttivi dell'immagine ottica, tendono ad eccedere la pura percezione esteriore, esaltata dall'Impressionismo, per veicolare la sensazione quale unità di percetto e di affetto, attuando quindi una conversione verso l'interiorità, verso la visione dell'invisibile, di ciò ch'è sentito emotivamente. Come annota Deleuze:

La lezione di Cézanne, al di là degli impressionisti: la Sensazione non sta nel gioco "libero" e disincarnato della luce e del colore (impressioni), ma, al contrario, nel corpo, fosse anche il corpo di una mela. Il colore è nel corpo, la sensazione è nel corpo, non nell'aria. La sensazione è ciò che viene dipinto. Ciò che viene dipinto sulla tela è il corpo, non in quanto rappresentante un oggetto, bensì in quanto vissuto come affetto da quella particolare sensazione (quel che Lawrence, a proposito di Cézanne, definiva "l'essere melesco di una mela")[1].

L'immagine pittorica tende a diventare autonoma, a incentrarsi sui processi psico-fisici con cui viene costituendosi il reale attraverso la formalizzazione del fluire delle molteplici sensazioni. A dare espressione a ciò che Merleau-Ponty chiama la carne del mondo, cioè la realtà vissuta, compresa con la totalità del proprio esserci:

È la montagna stessa che, di laggiù, si fa vedere da lui, è lei che il pittore interroga a partire dal proprio sguardo. Che cosa le chiede precisamente? Di rivelare i mezzi, i mezzi visibili e nient'altro, con i quali essa si fa montagna sotto i nostri occhi. Luce, illuminazione, ombre, riflessi, colore, tutti questi oggetti della ricerca non sono esseri propriamente reali; hanno un'esistenza visiva, come i fantasmi. Stanno sulla soglia della visione profana, generalmente non vengono visti. Lo sguardo del pittore li interroga per sapere come possano far sì che esista all'improvviso qualcosa e proprio quella cosa, per comporre questo talismano del mondo, per farci vedere il visibile[2].

e più avanti:

La visione del pittore non è più sguardo su un di fuori, relazione meramente "fisico-ottica" col mondo. Il mondo non è più davanti a lui per rappresentazione: è piuttosto il pittore che nasce nelle cose come per concentrazione e venuta a sé del visibile, e il quadro, infine, può rapportarsi a una qualsiasi cosa empirica solo a condizione di essere innanzitutto "autofigurativo"; può essere spettacolo di qualche cosa solo essendo "spettacolo di niente", perforando la "pelle delle cose" per mostrare come le cose si fanno cose, e il mondo mondo[3].

Esperienza primaria, di contro alla successiva riflessione oggettivante, essendo quel livello esistenziale in cui soggetto ed oggetto non sono ancora contrapposti uno di fronte all'altro, ma si costituiscono a vicenda, sono un tutt'uno macchinico, per citare ancora Deleuze:

L'essere della sensazione, il blocco del percetto e dell'affetto apparirà come l'unità o la reversibilità del senziente e del sentito, il loro intimo intreccio, come le mani che si stringono: è la carne che si libera contemporaneamente dal corpo vissuto, dal mondo percepito e dalla loro intenzionalità ancora troppo legata all'esperienza - mentre la carne ci dà l'essere della sensazione e l'opinione originaria nella sua distinzione dal giudizio di esperienza. Carne del mondo e carne del corpo come correlati che si scambiano, coincidenza ideale[4].

Versante invisibile in cui la presenza coincide con la vita stessa, e dove non si dà distanza, quella distanza così essenziale alla riflessione teoretica. Perciò lo stile Espressionista tende a svelare ciò che non può essere riflesso, ciò che si sottrae ad ogni teoria critica, tramite un gesto pittorico tendente all'automatismo dell'ispirazione poetica, che affonda nell'inconscio, radicandosi nel versante oscuro in cui viene costituendosi la carne del mondo.

Da qui l'abbandono dello spazio prospettico, misurato con precisione dal movimento cronologico della ragione, per una spazialità puntuale che si radica nell'istante vivente, rinascendo sempre nuova e vergine nella vibrazione cromatica dell'emozione, dove affetto interiore e percetto esteriore sono fusi nella singola sensazione dell'Aperto, e dove la sola unità è data dall'Eterno Ritorno dell'Essere ideante in cui si accampano e si susseguono le molteplici sensazioni, ri-prodotte nell'immagine artistica, nel tentativo de esprimere le forze del divenire caos-mico:

In arte, in pittura come in musica, non si tratta di riprodurre o di inventare delle forme, bensì di captare delle forze. È per questa ragione che nessuna arte è figurativa. La celebre formula di Klee "non rendere il visibile, ma rendere visibile " non significa nient'altro. Il compito della pittura si definisce come il tentativo di rendere visibili delle forze, che non lo sono[5].

e anche:

Si tratta di un problema di cui i pittori sono perfettamente consapevoli. Quando critici troppo ortodossi rimproveravano a Millet di dipingere dei contadini che portavano un offertorio come un sacco di patate, lui già rispondeva che, in realtà, la pesantezza comune ai due oggetti era un dato più profondo della loro distinzione figurativa. Come pittore, si sforzava di dipingere la forza di gravità, non l'offertorio o il sacco di patate. E il genio di Cézanne non consiste proprio nell'aver subordinato a questo compito tutti i mezzi della pittura? Rendere visibile la forza di corrugamento delle montagne, la forza di germinazione della mela, la forza termica di un paesaggio, ecc. E Van Gogh, non ha forse anch'egli dato espressione a forze sconosciute - la forza inaudita di un seme di girasole?[6]

come pure:

Il romanzo si è spesso elevato al percetto: non la percezione della landa, ma la landa come percetto in Hardy; i percetti oceanici di Melville; i percetti urbani o quelli dello specchio in Virginia Woolf. Il paesaggio vede. In generale, quale grande scrittore non ha saputo creare questi esseri di sensazione che conservano in sé l'ora di una giornata, il grado di calore di un momento (le colline di Faulkner, la steppa di Tolstoj o quella di Cechov)? Il percetto è il paesaggio di prima dell'uomo, in assenza d'uomo.È l'enigma (spesso commentato) di Cézanne: "l'uomo assente, ma tutto intero nel paesaggio". I personaggi possono esistere e l'autore può crearli solo perché non percepiscono, ma sono passati nel paesaggio e fanno parte del composto di sensazioni. Certo che Achab ha la percezione del mare, ma soltanto perché è passato attraverso un rapporto con Moby Dick che lo fa divenire-balena e forma un composto di sensazioni che non ha più bisogno di nessuno: Oceano. Mrs. Dalloway percepisce la città, ma solo perché è passata nella città come "una lama attraverso tutte le cose", diventando impercettibile. Gli affetti sono precisamente questi divenire non umani dell'uomo, così come i percetti (compresa la città) sono i paesaggi non umani della natura. "C'è un minuto del mondo che passa", non lo si conserverà senza "divenirlo", dice Cèzanne. Non si è nel mondo, si diviene con il mondo, si diviene contemplandolo. Tutto è visione, divenire. Si diviene universo. Divenire animale, vegetale, molecolare, divenire zero[7].

L'immagine tracciata nell'operazione artistica, quindi, non si pone come un oggetto conoscibile a fronte di un soggetto che conosce, ma tende ad assorbire l'osservatore, ad agganciarlo a sé, attivandone la sensazione, a fare macchina, per produrre un'esperienza originaria del reale, capace di trasformare il fruitore anche suo malgrado, perché in grado di attuare nella sua struttura psico-fisica nuove possibilità esistenziali antropomorfiche, secondo un pro-getto che dal vivente si comunica al vivente, senza bisogno di alcuna mediazione logico-razionale. A questo proposito Gadamer:

Quel che ci preme è vedere l'esperienza dell'arte in modo da intenderla come esperienza. L'esperienza dell'arte non deve venir falsata riducendola a semplice momento della cultura estetica, in modo da neutralizzarla in ciò che autenticamente vuole essere. Come vedremo, in ciò è contenuta un'importante conseguenza ermetica, in quanto ogni incontro con il linguaggio dell'arte è un incontro con un evento non conchiuso ed è esso stesso parte di questo evento. È questo che si deve opporre alla coscienza estetica e alla sua neutralizzazione del problema della verità[8].

e per finire:

Ora, l'esperienza dell'arte che dobbiamo difendere dal livellamento della coscienza estetica era appunto che l'opera d'arte non è un oggetto che si contrapponga a un soggetto. L'essenza dell'opera risiede piuttosto propriamente nel fatto che essa diviene un'esperienza che modifica colui che la fa. Il subjectum dell'esperienza dell'arte, quello che permane e dura, non è la soggettività di colui che esperisce l'opera, ma l'opera stessa[9].

[1] Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Macerata, Quodlibet, 1995, p. 85 - 86.

[2] Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, Milano Se, 1989, p. 24 - 25.

[3] Ibid., p. 49.

[4] Gilles Deleuze-Félix Guattari, Che cos'è la filosofia, Torino, Einaudi, 1996, p. 184.

[5] Deleuze, op. cit., p. 117.

[6] Ibid., p. 118.

[7] Deleuze-Guattari, op. cit., p. 173 - 174.

[8] Hans Georg Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1997, p. 129 -130.

[9] Ibid., pag. 133.

 

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