events
themes
call for papers
ideology busters
links
staff

Home

Del procedere scientifico (Parol 13, 1997)

di Ettore Verondini

ad Angela e al suo bisogno di capire

1. Introduzione
2
. Il come e il perchè


3. Il metodo scientifico
4. Conclusione

Introduzione

Su questa stessa rivista, a più riprese, si è sviluppato un ampio dibattito sul problema della conoscenza scientifica [Carlo Sini, L'unità della scienza e il ritorno della filosofia, in Parol 8, 3 (1992); Edgar Morin, Ma che cos'è la scienza?, in Parol 9, 3 (1993) e Parol 10, 3 (1994); Leonard B. Meyer, Le scienze, le arti e gli studi umanistici, in Parol 11, 3 (1995).]. Mi riferisco, in particolare, al saggio di Edgar Morin, pubblicato sul n. 9 nel marzo 1993, in cui viene lucidamente ripercorso lo sviluppo della cosiddetta filosofia analitica e dei suoi tentativi di rispondere alla domanda "che cosa è la scienza?".

Questo intervento, come del resto gli altri che si sono via via succeduti, dà per scontato l'oggetto del dibattito, la connotazione, cioè, di quell'entità cui attribuiamo complessivamente il nome di scienza. Si dà per acquisito, in altre parole, che il termine scienza definisca univocamente un insieme di affermazioni nei riguardi del mondo, i cui ambiti di validità e le cui procedure di determinazione sono perfettamente note.

La cosa appare del tutto ovvia: se vogliamo discutere del ruolo dell'automobile nel determinare le attuali strutture della società italiana, dobbiamo immaginare di intendere tutti, con il termine "automobile", il medesimo oggetto. Se infatti accadesse che qualcuno degli interlocutori intendesse qualcosa di diverso, si creerebbero le condizioni per una totale incomprensione.

Non mi è chiaro se, nel caso della scienza, si possa dare per scontata una interpretazione altrettanto univoca, ma molti segni mi fanno credere che esista una certa approssimazione nell'intendere la portata delle affermazioni scientifiche, in particolare di quelle relative alle cosiddette "scienze della natura" (chimica, fisica, biologia).

Non mi è parso quindi inutile fornire alcuni elementi sullo svolgimento del procedere scientifico e sulla conseguente interpretazione che occorre dare alle "verità scientifiche". Nel fare ciò, mi riferirò particolarmente alla fisica, sia perché, è l'ambiente in cui mi muovo a maggior agio, sia perché, in ultima analisi, rappresenta la struttura di riferimento per tutte le altre scienze della natura.

Va comunque chiarito subito che ciò che mi spinge ad affrontare tale argomento non è una particolare competenza epistemologica, ma solo l'avere visto svolgersi per anni, nella pratica quotidiana della ricerca, i paradigmi scientifici che illustrerò, oltre, naturalmente, alla cortesia di Luciano Nanni che, con educata incoscienza, mi ha dato l'occasione per questo contributo.

Il presente saggio consta di due parti: nella prima si tenta di chiarire a quale tipo di domande voglia rispondere la scienza, nella seconda si espongono le procedure attraverso cui tali risposte vengono costruite.

 Il come e il perché

In uno dei più famosi aneddoti di tutta la letteratura scientifica, Isaac Newton, mentre si riposa all'ombra di un albero, vede cadere una mela e ha una fondamentale intuizione: la forza che fa cadere la mela è la stessa che tiene in orbita la Luna attorno alla Terra. Da questa intuizione si sviluppò la celebre teoria della gravitazione universale, secondo cui fra ogni coppia di oggetti dotati di massa si esercita una forza attrattiva inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. Tale teoria consentì di dedurre, fra l'altro, la forma delle orbite dei pianeti e le altre caratteristiche del loro moto.

A chi gli chiedeva perché, mai fra due oggetti massivi dovesse esercitarsi una forza, Newton rispose con la celebre frase "Hypoteses non fingo". Più che una risposta infastidita e arrogante, si trattava di una ricusazione decisa di affacciarsi a un'attività completamente estranea a quella dei fisici, il cui compito non è tanto quello di spiegare perché, la natura sia fatta in un certo modo, quanto quello di descrivere come essa è fatta.

L'equivoco nasce probabilmente dall'ambiguità del termine "spiegazione" spesso impiegato in relazione all'attività scientifica. Dire che il moto dei pianeti si spiega in base alla forza di gravitazione universale, significa ricondurre un determinato fenomeno (il moto dei pianeti) alla manifestazione di un'altra proprietà di natura (la forza di gravitazione) di cui siamo in grado di descrivere le caratteristiche, ma di cui non siamo tenuti a spiegare l'origine.

La spiegazione scientifica è sempre un'operazione di riduzione della molteplicità dei fenomeni a molteplicità di manifestazioni. Scrive Planck [Max Planck, Wege zur physikalischen Erkenntis, Leipzig 1933 (trad. it., La conoscenza del mondo fisico, Torino 1942).]: "La scienza della natura, fin dai suoi primordi, ha sempre avuto come ultimo e massimo scopo quello di riuscire a compendiare l'estremamente varia molteplicità dei fenomeni fisici in un sistema unitario, possibilmente in un'unica formula". Quando Maxwell ridusse l'elettricità e il magnetismo da fenomeni indipendenti a manifestazioni diverse del comportamento di una carica elettrica (in quiete nel primo caso e in moto nel secondo) si guardò tuttavia bene dal chiedersi perché, mai una carica in moto generasse un campo magnetico, limitandosi a descrivere come le caratteristiche del campo fossero legate al moto della carica.

Questa procedura può giungere a livelli di unificazione molto spinti: oggi pensiamo che tutte le forze presenti in natura (gravitazionali, elettromagnetiche, nucleari) derivino da un'unica forza, la cui esistenza va comunque assunta come dato, senza ulteriore approfondimento.

D'altra parte è talmente diffusa la credenza che la scienza ricerchi il perché, dei fenomeni, che R.P. Feynman, premio Nobel per la Fisica, sentì il dovere di rivolgersi ai suoi ascoltatori, in apertura di una conferenza [Richard P. Feynman, QED: the strange theory of light and matter, Princeton, 1985 (trad. it., QED: la strana teoria della luce e della materia, Milano 1992).] chiarendo che "mentre io vi spiego come la Natura si comporta, voi non vi rendete conto del perché, la Natura si comporti proprio così. Ma, vedete, questo non lo sa nessuno e io non sono in grado di spiegarvi perché, la Natura manifesti questi comportamenti".

Avendo così definito il limite delle affermazioni scientifiche, possiamo passare a esaminare come si giunge a formulare tali affermazioni.

 Il metodo scientifico

Il cosiddetto "metodo scientifico" risale, nella sostanza, a Galileo Galilei e fissa tre momenti nella procedura di costituzione della conoscenza scientifica:

a) la raccolta e l'organizzazione dei dati di misura;

b) la formulazione di un modello del fenomeno che si sta studiando che renda conto dei dati misurati;

c) il "cimento", cioè il confronto fra ulteriori previsioni ottenibili in base al modello adottato e l'esito degli esperimenti tesi a verificare tali previsioni.

Vediamo di approfondire il senso di ciascuno dei tre momenti, con riferimento alla rappresentazione schematica del metodo illustrata in Fig.1.

Figura 1

Fig. 1-Rappresentazione schematica del cosiddetto "metodo scientifico". Il termine "cimento", che denota il confronto fra le previsioni del modello teorico e i risultati di opportuni esperimenti, risale a Galileo.

a) La raccolta dei dati presuppone la capacità di isolare, fra la molteplicità di aspetti che caratterizzano il fenomeno, quelli intrinseci al fenomeno stesso, separandoli da quelli dovuti al suo manifestarsi in determinate condizioni. L'esempio classico di tale distinzione è lo studio della caduta dei gravi. La caduta di un grave è dovuta all'attrazione terrestre, mentre le modalità di caduta appaiono diverse in relazione all'ambiente in cui tale caduta avviene. Nell'atmosfera, oggetti di forma e densità diversa cadono in modo diverso e una giornata di forte vento può indurre le foglie morte a movimenti molto complicati; nel vuoto, forma e densità sono ininfluenti sulle modalità di caduta. Cosciente di questo, Galileo costruì un dispositivo (piano inclinato) che, riducendo l'effetto dell'attrazione terrestre, consentisse una caduta più lenta così da poterne più facilmente misurare le caratteristiche. Nello stesso tempo, questo accorgimento riduceva l'influenza dell'atmosfera in cui necessariamente Galileo doveva sperimentare.

Un altro esempio è rappresentato dal famoso problema della possibilità di un moto in assenza di forze, già presente in Aristotele. Se non si ha l'accortezza di eliminare dalla descrizione l'effetto della forza d'attrito, necessariamente presente in tutti gli

esperimenti sulla terra, ma non costitutiva del fenomeno, si arriva a conclusioni sbagliate. Aristotele, infatti, negò la possibilità di moto in assenza di forze, mentre, in realtà, le forze di cui riconosceva la necessità servivano solo ad annullare l'effetto dell'attrito, dunque a realizzare, di fatto, un moto in assenza di forze.

E' ovvio che non esistono regole per giungere alla identificazione delle caratteristiche essenziali dei fenomeni: solo l'esecuzione di numerosi esperimenti in condizioni diverse e l'intuizione dello sperimentatore possono consentire di raggiungere lo scopo.

Supponendo dunque di avere isolato le caratteristiche salienti del fenomeno in studio, una serie di misure potrà fornire dei valori numerici per le varie grandezze che esprimono tali caratteristiche (nel caso della caduta dei gravi, potremo costruire una tabella in cui, a determinati valori del tempo venga associata la posizione del grave). L'analisi dei dati potrà porre in evidenza l'esistenza di correlazioni fra i valori delle varie grandezze misurate (si trascurano qui tutti i problemi derivanti dalla presenza di incertezze sulle misure). Tali correlazioni vengono riassunte in un legame analitico fra le grandezze, ciò che più comunemente si chiama una "legge" (la "legge di caduta dei gravi" stabilisce che la distanza percorsa in un certo intervallo di tempo È proporzionale al quadrato dell'intervallo di tempo stesso).

Le leggi rappresentano dunque la descrizione di proprietà dei fenomeni dedotte empiricamente. La loro validità è pertanto limitata all'ambito di valori delle grandezze forniti dalle misure. L'estrapolazione della validità della legge a intervalli di valori non misurati è, a rigore, un procedimento arbitrario, e non mancano gli esempi di estensioni ingiustificate che sono state successivamente smentite da nuovi dati sperimentali. La giustificazione dell'estensione della validità di una legge empirica può essere fondata sulla base di un qualche modello.

b) Supponiamo che, in un determinato ambito, siano state stabilite una serie di leggi. Un tentativo di unificazione di queste leggi può essere compiuto considerandole come espressioni diverse di alcune caratteristiche dei sistemi non immediatamente accessibili all'osservazione; in quanto tali queste caratteristiche vanno "immaginate", sono, in qualche misura, frutto della fantasia. Il loro insieme costituisce un "modello" dei sistemi sotto osservazione.

Vediamo, con un esempio, come si realizzi tale procedura. E' noto che facendo avvenire una scarica elettrica in un gas viene emessa radiazione elettromagnetica. Nel caso delle comuni "lampade al neon" tale radiazione consiste nella luce che la lampada emette quando viene accesa. Se si analizza la composizione di tale radiazione elettromagnetica, si può stabilire che in essa sono presenti varie lunghezze d'onda e che i valori di tali lunghezze d'onda possono essere raggruppati in diverse "serie". Le lunghezze d'onda all'interno di ogni serie sono legate l'una all'altra da semplici relazioni algebriche.

L'insieme di questi risultati costituisce un complessi di leggi empiriche (leggi di Lyman, di Balmer, di Paschen, etc.). Si possono ricondurre a unità queste leggi, immaginando che ogni gas sia costituito di particelle non direttamente osservabili (atomi), che a ogni specie chimica diversa corrispondano atomi diversi, che ogni atomo sia costituito di particelle cariche negativamente (elettroni) distribuite attorno a un nucleo centrale carico positivamente (così che la carica totale dell'atomo sia nulla), che l'energia posseduta dagli elettroni possa assumere solo valori discreti e, infine, che ogni volta che un elettrone diminuisce la sua energia venga emessa radiazione elettromagnetica di energia pari a quella persa dall'elettrone. L'insieme di queste assunzioni consente di riprodurre le leggi empiriche osservate: esso costituisce un modello della emissione elettromagnetica da parte di un gas in cui si provochi una scarica elettrica.

Un altro esempio, forse più familiare, è rappresentato dalle leggi di Keplero, che riassumono alcune proprietà osservate del moto dei pianeti. Newton si immaginò che fra ogni pianeta e il Sole si esercitasse una forza (di gravitazione) inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza (non era evidentemente in grado di verificare tale ipotesi) e mostrò che da questa sola assunzione si potevano dedurre le leggi di Keplero.

Se dunque alla base dei modelli stanno le leggi empiricamente stabilite, non c'è dubbio che la loro formulazione È essenzialmente un atto di fantasia con cui viene immaginato un sistema che possieda caratteristiche tali da manifestare i comportamenti riassunti nelle leggi empiriche stabilite sperimentalmente. In una famosa lettera a K. Popper (che concorda), Albert Einstein ricorda come "la teoria non possa essere fabbricata a partire dai risultati dell'osservazione, ma possa solo essere inventata" [Karl R. Popper, The logic of scientific discovery, London 1959 (trad. it., Logica della scoperta scientifica, Torino 1970).].

Non è il caso di entrare, dato il carattere piuttosto generale del presente contributo, sul contenuto di realtà che un modello possiede. Basti osservare che non c'è alcuna ragione per cui la definizione del modello debba essere univoca, per cui è possibile trovarsi in presenza di più modelli in grado di riprodurre gli esiti delle medesime osservazioni sperimentali, o anche di modelli diversi che rendono conto di comportamenti diversi che il medesimo sistema presenta in differenti condizioni sperimentali.

Se allora "un modello può essere considerato un modo di riassumere... una gran quantità di informazioni sperimentali" [Amos de Shalit e Hermann Feshbach, Theoretical nuclear physics, New York 1974.], la sua utilità sembra esclusivamente quella di concentrare le informazioni. In realtà non è così, in quanto, assumendo la validità di un determinato modello, è possibile formulare previsioni quantitative in merito alla risposta del sistema a sollecitazioni diverse da quelle che hanno portato alla formulazione del modello stesso.

c) Supponiamo dunque di avere assunto un qualche modello per descrivere il comportamento di un sistema fisico. Mediante un procedimento deduttivo possiamo prevedere come il nostro sistema si comporterà in una determinata condizione sperimentale.

Ad esempio, assumendo valido il modello dell'atomo brevemente illustrato più sopra, potremo prevedere che esso sarà in grado di assorbire energia solo nel caso in cui essa sia almeno pari a quella necessaria a fare compiere un salto energetico a un elettrone.

A questo punto un esperimento potrà stabilire se la previsione del modello risulti confermata o meno.

E' chiaro che quanto più le previsioni del modello risulteranno confermate, tanto più aumenterà la nostra fiducia nel fatto che quella creatura di fantasia descriva uno stato di cose effettivamente esistente. Ma potremo mai raggiungere la prova definitiva della "verità" di tale stato di cose?
La risposta non può che essere negativa.
Esaminiamo infatti la procedura logica che consente di effettuare delle previsioni circa il comportamento di un sistema. Si assume la validità di un'ipotesi (il modello) e se ne deducono, utilizzando le regole della logica formale, alcune conseguenze.

Tali conseguenze sono l'esito necessario delle assunzioni fatte, o, come si suole dire, condizioni necessarie alla validità dell'ipotesi (se l'ipotesi È vera, deve necessariamente essere vera la conseguenza). Il fatto che tali condizioni siano confermate dagli esperimenti non ci consente dunque di "provare" la validità dell'ipotesi.

E' noto che, ad es. nella geometria, esistono condizioni necessarie e condizioni sufficienti, ed È solo la verifica di queste ultime che consente di confermare la validità delle ipotesi. Ma, una volta formulato un modello, non siamo in grado di costruire condizioni sufficienti, bensì solo necessarie, come È implicito nell'uso della deduzione.

Ne consegue che un modello non può mai essere definitivamente "provato"; esso può, al massimo, non risultare contraddetto. Ogni qual volta gli esperimenti confermano l'esito delle previsioni, si acquisiscono ulteriori comportamenti del sistema compatibili con il modello assunto.

La "prova" della validità del modello potrebbe essere data dalla verifica sperimentale di tutte le possibili conseguenze del modello stesso, ma questo programma è manifestamente impraticabile.

E' possibile, ovviamente, che una o più previsioni dedotte dal modello siano contraddette dagli esperimenti. In tal caso la conclusione È univoca: il modello non descrive correttamente il comportamento del sistema e deve essere abbandonato, o modificato, o perfezionato.

Infatti, le nuove evidenze sperimentali che non corrispondono alle previsioni del modello possono essere assunte, a loro volta, come costitutive dell'insieme di dati che il modello deve riassumere. Un nuovo atto di fantasia creerà un modello totalmente nuovo o introdurrà in quello preesistente le modificazioni necessarie a conciliarlo con i nuovi fatti. Si riprende, a questo punto, la procedura descritta a partire da a).

Nella scienza, e nella fisica in particolare, si ha dunque a che fare con due insiemi diversi di affermazioni che abbiamo rispettivamente chiamato "leggi empiriche" e "modelli". Quest'ultima denominazione non È univoca, parlandosi spesso, anziché, di "modelli", di "leggi teoriche" o "leggi astratte" [Rudolph Carnap, Philosophical foundations of physics, New York 1966 (trad. it., I fondamenti filosofici della fisica, Milano 1971).].

Le leggi empiriche possono ricevere conferma diretta dagli esperimenti. Esse riguardano grandezze osservabili, il cui valore può essere, direttamente o indirettamente, misurato. Anzi, come abbiamo visto, esse rappresentano spesso la sintesi dei risultati di una serie di misurazioni, connettendo fra di loro i valori di due o più grandezze accessibili alla determinazione diretta.

A questa categoria appartengono, ad esempio, le leggi che connettono i valori della pressione di un gas a quelli della temperatura e del volume, o la famosa legge di Ohm (secondo cui la corrente che attraversa un resistore È proporzionale alla differenza di potenziale applicata ai capi del resistore stesso), ma anche leggi qualitative, come la celeberrima "tutti gli uomini sono mortali", o "tutti i cani hanno quattro zampe".

I modelli hanno natura completamente diversa. In primo luogo essi fanno affermazioni su oggetti non direttamente accessibili all'esperienza (atomi, nuclei, quarks, ma anche "big bang"). In secondo luogo essi non possono essere confermati dall'esperienza, ma solo contraddetti (o "falsificati", per usare la terminologia di K. Popper [Karl R. Popper, The logic of scientific discovery, London 1959 (trad. it., Logica della scoperta scientifica, Torino 1970).]).

A questa categoria di leggi appartengono i modelli in senso stretto (modello atomico della materia, modello dell'atomo, modello del nucleo, modello standard dell'origine dell'universo, etc.), ma anche quelle proposizioni cui ci si riferisce in fisica come a "principi" (i principi della meccanica, della termodinamica, etc.). Si pensi ad esempio al famoso principio di azione e reazione, secondo qui quando due corpi (ad es. due cariche elettriche) interagiscono, la forza che il primo esercita sul secondo ha la stessa intensità di quella che il secondo esercita sul primo.

In base a tale principio la forza che la Terra esercita su ciascuno di noi (nella sostanza, il peso che ciascuno di noi possiede) è pari alla forza che ciascuno di noi esercita sulla Terra. Lo stesso dicasi per l'interazione Sole-Terra, Terra-Luna, etc. Orbene, tutte le volte che la proprietà enunciata ha potuto essere verificata, si è trovata una conferma; il moto dei razzi è reso possibile proprio dall'esistenza del principio di azione e reazione, etc. Ma tutte queste verifiche non ci consentono altro che di avere una fiducia provvisoria nel principio, l'affermare la sua validità sempre e ovunque non può chiaramente essere soggetto a verifica sperimentale. Stando cos¡ le cose non può essere negata la possibilità che un bel giorno (o, forse, un brutto giorno) un esperimento contraddica l'enunciato di azione e reazione, possibilità tanto più remota quanto più le verifiche sperimentali si accordano con le previsioni del principio, ma mai definitivamente escludibile.

Esistono esempi, nella storia della scienza, in cui principi (o modelli) a cui per secoli si era data fiducia sono stati smontati da un unico esperimento. Uno dei più famosi è quello che ha portato alla nascita della teoria della relatività ristretta.

Nella sua opera fondamentale, i Philosophiae naturalis principia mathematica, Newton aveva introdotto il tempo come parametro geometrico, che scorreva con la medesima cadenza per tutti i possibili osservatori, indipendentemente dal loro stato di quiete o moto. L'intervallo temporale che separa due eventi - ad es. l'accendersi e lo spegnersi di una lampadina - è, secondo Newton, indipendente dal fatto che l'orologio utilizzato per la misura sia in quiete o in moto rispetto alla lampadina. Da questo "modello", per via esclusivamente deduttiva, era stata dedotta la cosiddetta "composizione galileiana delle velocità", secondo cui la velocità di un oggetto rispetto a un osservatore si ottiene sommando la velocità dello stesso oggetto rispetto a un secondo osservatore e la velocità di quest'ultimo rispetto al primo (avendo tenuto conto, beninteso, dei versi in cui avvengono i moti). Così se un viaggiatore passeggia nel corridoio di un treno in moto, la sua velocità rispetto a un ipotetico casellante si ottiene combinando la velocità con cui passeggia rispetto al treno e la velocità del treno rispetto al casellante.

Le verifiche sperimentali della composizione galileiana avevano sempre dato risultati soddisfacenti, fino a quando a partire dal 1881 Michelson e Morley sottoposero a verifica la composizione delle velocità, utilizzando come oggetto in movimento la luce e combinandolo con il moto della terra sulla sua orbita. Il risultato fu che la velocità della luce non si combinava secondo le regole della composizione galileiana, anzi, essa appariva avere lo stesso valore qualunque fosse lo stato di moto (rispetto alla sorgente luminosa) dell'osservatore che eseguiva la misura.

Dopo molti vani tentativi di spiegare questo risultato nell'ambito dei modelli esistenti (teoria dell'etere), toccò ad Einstein risolvere radicalmente il problema sulla base di un nuovo modello che prevedeva un diverso ritmo di scorrimento del tempo in relazione alla velocità di moto dell'orologio.

Questa vicenda è largamente rappresentativa del fatto che non esistono modelli sicuri oltre che, naturalmente, della difficoltà con cui si perviene alla formulazione di nuovi modelli, un argomento profondamente studiato da Kuhn [Thomas Kuhn, Structure of scientific revolution, Chicago 1962 (trad. it., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino 1969).], le cui conclusioni sono riportate nel già citato articolo di Morin.

 Conclusione

Abbiamo cercato di illustrare quale sia la struttura logica delle affermazioni scientifiche che stanno alla base delle cosiddette "spiegazioni" che la scienza dà dei fenomeni naturali.

E' chiaro che questo costituisce solo il primo passo di una riflessione sui contenuti dell'attività di ricerca che la scienza incessantemente produce.

Occorre infatti chiedersi anzitutto a quale tipo di domanda tali affermazioni rispondano, quale cioè sia il senso della spiegazione scientifica, senza trascurare d'altronde la funzione di previsione che le leggi scientifiche assolvono.

Andrebbe poi approfondito il problema della convalida dei modelli e di come si possano costruire le corrispondenze fra le grandezze oggetto dei modelli e quelle di cui trattano le leggi empiriche.

Alcuni di questi argomenti sono stati affrontati in altri numeri di questa stessa rivista.

Chi scrive si augura che la lettura del presente saggio possa aiutare a meglio intendere quegli scritti. Questo costituirebbe un motivo di grande soddisfazione, tale da oscurare parzialmente la consapevole inadeguatezza di quanto precedentemente esposto. Vorrei, infine, esprimere un vivo ringraziamento ad Alessandro Spada per la competenza e la disponibilità con cui mi ha assistito nella stesura del testo. 

 

Logo Parol
© 1985/2003 Parol - quaderni d'arte e di epistemologia
Per qualsiasi utilizzo delle risorse presenti sul sito contattare la redazione
Site designed and managed by Daniele Dore