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Il giardino dell'Imelde

Una mostra di Giorgio Zucchini.* (Parol 1, 1985)

 * La mostra, cui qui si fa riferimento, è quella tenuta da Giorgio Zucchini (sesta di una serie dedicata ai pittori bolognesi contemporanei, comprendente Cuniberti, Partisani e altri) presso la Biblioteca comunale di Castel S. Pietro (Bologna), nell'ottobre del 1984, e trasferita, al momento in cui questo quaderno va in stampa, a Milano, c/o lo " Studio d'arte Annunciata " a cura di Renato Barilli e Roberto Passini.

 1- Una domanda: qual è il momento buono per dare pennellate?

Caro Giorgio, adesso proverò a dire cosa ho pensato dopo avere visto i tuoi quadri e cosa ho pensato guardando un po'

più attentamente l'unica riproduzione che sono riuscito a portarmi a casa: quella d'un quadro intitolato Tempera gialla con ciliegia, che hai dipinto nel 1984. Ho pensato a una cosa in particolare: quando viene il momento buono per dare una pennellata? I tuoi quadri, più di altri, mi sembra permettano di formulare questa domanda.

Suppongo che una pennellata da dare, o una sequenza di frasi da scrivere, abbiano un loro momento e che questo momento sia sempre una determinazione esterna. Se uno deve scrivere qualcosa entro le quattro, la determinazione è abbastanza chiara, è quella del tempo secondo l'orologio. Mi sembra però che un problema del genere possa venire in mente solo quando la determinazione esterna uno deve produrla da solo. Ad esempio: se nessuno ti chiede mai di scrivere o di dipingere niente, sei tu che devi produrre la determinazione esterna. Ma come?

I tuoi quadri secondo me permettono queste domande perché, in quelli che ho visto, c'è una superficie di fondo vuota (dopo dirò che tipo di vuoto) e tracce di raffigurazioni che la percorrono soprattutto nelle zone centrali, mi pare.

Che differenza c'è tra una traccia di raffigurazione e una raffigurazione in piena regola? Credo che sia la stessa differenza che esiste tra gli appunti che si scrivono per strada, vedendo qualcosa, e ciò che si scrive poi utilizzando quegli appunti. Nel primo caso c'è una attività legata ad un momento buono, dato da qualcosa che sorge nello spazio davanti a noi. Nel secondo caso l'attività non è più legata al " momento buono ", ma ad un'altra sequenza di momenti determinata poniamo da orari, scadenze ecc. Una sequenza in cui, entro certi limiti, tutti i momenti sono buoni, e quindi si tratta in realtà di "momenti qualsiasi", come quelli segnati dall'orologio .

Notiamo: se dovessi fare un quadro come quelli bellissimi di Domenico Gnoli, la questione del momento buono non si porrebbe, perché la serie delle pennellate è predeterminata dal tempo (dalla quantità di tempo) che ci vorrà per tracciare tutte le sfumature esatte, poniamo, d'una camicia che voglio rappresentare. Allora, mi sembra che sia proprio il vuoto come fondo, o il fondo vuoto dei tuoi quadri a sollevare la questione.

Quando tu indichi Tempera gialla con ciliegia, il tuo vuoto di fondo fa già parte dell'orizzonte pieno della pittura e anche della tecnologia di produzione di colori. Mi sono chiesto in che modo, questo ti vincoli. Ad esempio, i pittori Zen usavano inchiostro nero sul fondo bianco della carta, e poiché la carta assorbiva molto, questo rendeva assolutamente vincolante il " momento buono " in cui una traccia di raffigurazione solcava il vuoto. Nel tuo Tempera gialla con ciliegia credo di vedere alcuni vincoli, innanzi tutto coloristici, poi costruttivi (disposizione centrale e ciliegia come punto focale), infine vincoli di pennellata perché, guardando bene, riesco a riconoscere le pennellate e ciò vuol dire che non hai fatto un altro lavoro per dissolverne i contorni.

Cosa posso concludere sul " momento buono "? In realtà non lo so bene, ma so che non è una questione psicologica.

E' invece una questione del genere: se c'è o non c'è il tempo per concentrarsi su un singolo pensiero-pennellata che si ha davanti. Come si fa a concentrarsi su queste cose? Bisogna prendersi il tempo per farlo, ecco la determinazione esterna che produciamo noi. Credo che sia proprio come prendersi il tempo per pensare: allora ci si accorge subito che il pensiero che si ha davanti è soltanto un'esitazione, cioè un piccolo problema da risolvere nella testa. La soluzione di una piccola esitazione ha un segnale, " Ecco ", che è il segnale del momento buono. E lì davanti, allora, c'è un piccolo tratto da percorrere, una piccola apertura che dissolve categorie e giudizi già dati, dissolve le generalizzazioni e i concetti, di solito.

Insisto sul fatto che per far questo bisogna prendersi il tempo, e che il pensare richiede dei momenti buoni, non dei momenti qualsiasi, e che poi tutto questo si coglie in tracce di raffigurazione che non sono categorie o concetti spiegabili e svendibili. Ci insisto perché, a giudicare da ciò che scrivono, mi sembra che i critici d'arte, e gli esperti in genere, a pensare loro non ci pensino proprio: e forse non possono neanche farlo, perché non possono prendersi il tempo, devono restare dentro la determinazione dei momenti qualsiasi, riempiendo ognuno di questi momenti con concetti e generalizzazioni svendibili.

Detto questo mi sembra anche di averti detto perché, nei tuoi quadri, le tracce di esitazione di pennellata mi hanno fatto venir voglia di pensarci su. E in conclusione: sono contento di aver visto i tuoi quadri, perché mi hanno costretto a prendermi il tempo per pensarci. Speriamo che a nessun critico venga mai in mente di usare il tuo " vuoto di fondo " come un concetto. Le cose che fanno le persone come te, le persone che prendono il tempo, sono enormemente fragili, temo. Gli umilianti sproloqui di critici ed esperti sono invece potentissimi. Loro ci distruggono, se vogliono, appena aprono la bocca. Pensa un po' se possono capire qualcosa del vuoto.

Gianni Celati

2. Percezioni interrotte dietro un vetro zigrinato.

Ci sono oggetti e raffigurazioni di oggetti, anzi ritratti di oggetti. Si crea un particolare rapporto tra le immagini di quegli oggetti e loro stessi, ma non si tratta di raddoppiamento o di moltiplicazione. Sembra piuttosto che, tra l'oggetto e la sua raffigurazione, sia collocata una specie di interferenza. Sulla qualità di questa interruzione, che lo sguardo deve accettare quando si riferisce alle opere di Zucchini, mi sembra opportuno riflettere.

Non la considero una interferenza calcolata e sperimentalmente riproducibile. Ho provato anche a considerarla in questo modo, ma, quando tentavo di applicare le regole che credevo di avere individuato, scoprivo sempre una specie di ribadita e complessiva eccezione, e dovevo ricominciare dall'inizio. Così ho cercato di costruirmi due strumenti interpretativi e di usarli in modo alternativo oppure anche intrecciato.

Penso prima di tutto a Piaget e mi immergo in un'altra logica, ovvero nei labirinti di un altro sguardo, quello infantile, di cui immagino la capacità di produrre sequenze che a me, come adulto, sono negate. Sono però un adulto capace anche di vagare fra remote memorie di antiche percezioni. In questo modo ricostruisco una specie di sintassi in cui vedo animali, fiori, ombre di animali e di fiori, triangoli visivi che si nutrono di ipotetici collegamenti e di rinvii.

Non posso rinunciare a sentirmi un protagonista, anzi quasi un fabbricatone di una specie di risultato finale a cui riesco a pervenire, perché Zucchini si è limitato a fornirmi alcuni riferimenti, o forse alcune scansioni. Indulgo brevemente nel tragitto personale di una camera delegata al gioco dei bambini, una camera-teatro, lei stessa presenza e condensatrice di tutto quanto si rammenta o si esprime, come in Solaris di Lem. A questa scoperta mi sento di potere aderire con una partecipazione quasi irresistibile.

La camera dei giocattoli fornirebbe allora fondali molto omogenei, tutti resi operanti da una luminosità piatta, decisa a definire lo spazio di un eterno mattino. Ma, camere simili hanno anche la luce e i silenzi e gli ascolti ovattati di un convalescenziario, o di una casa di riposo, in cui, invece dei bambini, potrebbero sopravvivere e vegetare i vecchi. Penso, infatti, anche ad una percezione appunto vegetale, proprio allo sguardo di una felce o di un ibisco, personaggi guardanti ma anche inevitabili, precisi, contraenti nei confronti delle regole.

Forse il ricordo di Piaget si attenua allora un poco, se non altro perché devo ammettere che, sia io che l'autore di queste opere, conosciamo Piaget, e quindi organizziamo una strategia di costruzione e una di decifrazione, fondate sulle stesse premesse. Potremmo proprio risultare reciprocamente inconoscibili se solo non accettassimo di separarci per capirci.

Abbandono Piaget e seguo le tracce dei bambini autistici di Bettelheim. Tutta la felicità dei colori lindi, dei ricalchi sottili, dell'inevitabile presenza dei giochi, o anche dei giocattoli, si trasfigura allora in pena, i frammenti diventano le briciole di un universo autocluso, ma anche autosegregato, le cui interruzioni non sono segmenti occasionalmente godibili, ma grida mute che provengono dalla " fortezza vuota " dell'autismo.

Segnalo questa possibilità di nascondere, una tragedia silenziosa dietro l'opacità di un colore inevitabilmente lieto, non tanto perché io sia davvero tentato di aderire ad essa, ma solo in quanto non mi sento di negare che esista. Del resto, ad una " tragedia dell'infanzia " che si può solo supporre, ma che non va catalogata, è legittimo rinviare tutte le occasioni in cui si incontrano cose o spazi dove si sospetta la presenza del bambino.

In questo senso, allora, Gombrich, con il quadro delle Tre grazie, posto sotto la superficie, che lo ridefinisce interamente, di un vetro ondulato, è il legittimo difensore di un'alterità infantile di cui possiamo solo e semplicemente immaginare i codici visivi, perché non li conosceremo mai. Il percorso percettivo è sedotto, da molto tempo ormai, dalla possibilità di munirsi di occhi diversi. Si può essere tentati di rendersi selvaggi, primitivi, giapponisti, matti, o bambini, appunto. Però credo che sia doveroso riconoscere che tutti questi sguardi sono ibridi, perché sono, in realtà, posti dietro lo schermo disvelante di un vetro zigrinato, non ondulato, un vetro, quindi, che non vorrebbe ottenere un nuovo codice, ma solo attestarsi nel silenzio gelatinoso di una incompletezza conclamata come tale.

Siamo tutti giapponisti, primitivi, bambini, folli, selvaggi e perfino ingenui, ma ognuno di noi è tutte queste cose insieme e altre ancora. Perché in Zucchini affiorano anche tracce riferibili a brandelli di cultura che non sono taciuti proprio nella loro più dichiarata collocazione. Gialli, copertine di gialli, e possibili frammenti di film, sciolti come in una liquidità che peraltro consente di riconoscere le allusioni.

Un'infanzia troppo colta, oppure tradita, o presa a pretesto per giochi in cui essa, in realtà, non è assolutamente considerata come tale? No, è ancora solo una scelta dello sguardo. Nella camera dei giocattoli dei bambini potrebbe esserci un acquario e allora ogni cosa si vedrebbe sempre scegliendo di stare dietro di esso, quasi occultando sé, ma soprattutto cercando di assegnare un contorno acquoso a tutto quanto si percepisce.

Non riesco, nel pensare alle opere di Zucchini, ad evitare di transitare, più rapidamente di come avrei voluto, nel secondo livello, tra i due indicati come capaci di alludere al mio modo di percepire quelle opere. Pensavo di trattenermi ancora a lungo in quella stanza, dentro quello spazio dominato dall'acquario, in mezzo a quei silenzi su cui potrei riversare infinite parole. Ma in Zucchini ci sono passaggi da cui non posso prescindere, che mi attirano immediatamente e mi inducono a proporre un altro genere di illazioni.

Considero il ritratto di un'ochetta, che però rimanda ad un altro ritratto, in legno, della stessa, e solo al termine della traiettoria può pervenire a identificare un originale, come il mio personale biglietto di viaggio verso un itinerario sempre indefinito, sempre preciso, al cui termine c'è sempre Andersen. Cito Andersen e il suo mondo perché studio questo narratore e le sue costruzioni, e sono sempre posto solo in grado di non capire, di porre altre domande.

Anche Andersen non usa animali, nelle sue storie, ma ritratti di animali riprodotti. Descrive talpe ad acquerello che si rifanno a talpe di legno modellate su talpe vere. Nel percorso c'è Andersen, e il suo fiabesco è come il catalogo di un grande magazzino dell'Ottocento, in cui si vendono cose che sono sogni di cose. Deve essere sempre stata irresistibile, per i favolisti, la tentazione di dialogare con gli oggetti. Ma in Andersen le cose restano aliene proprio mentre lo scrittore le accarezza, concede loro un'anima, le fa parlare. In questo mondo pieno di schiaccianoci, di aghi, di soprascarpe, di caffettiere, di vasi da fiori, lo scrittore si muove come un Robinson piombato all'improvviso dentro i meandri di un negozio dove tutto ciò che vede gli complica la vita, gli rende arduo il conoscere, gli sconvolge i piccoli assetti con cui è riuscito a definire come percepibili le sue giornate.

C'è un'aria livida e tesa nelle fiabe di Andersen, ma anche in esse è sufficiente assegnare obliquità al proprio sguardo, e subito si fruisce di un'inattesa felicità. Tutto diventa allora accettabile e amico, tutto si trasforma secondo le necessità e le richieste di chi vuole ascoltare, vedere, annusare, perfino assaporare. Ho pensato a un complessivo tumulto percettivo, nella quiete tersa e nitida di Andersen: gli oggetti parlano usando più lingue, è come se volessero attrarre lo scrittore verso molte destinazioni, verso una pluralità di esistenze in cui non vuole interamente riconoscersi.

Anche in Zucchini vedo, sotto la compostezza e il silenzio, una drammatica violenza, quasi una rappresentazione urlata. Sono anche infiniti i modi per non comunicare e tutti questi calcolati raggiri, tutti questi reticoli di presenze, tutto questo disvelarsi e sparire, possono anche freddamente voler dire che, appunto, non si comunica.

Ma ci sono anche squarci improvvisi, tagli brevissimi, attraverso i quali appaiono presenze che riescono a palesarsi mentre si decompongono, a fornire un breve grido proprio mentre tacciono, a testimoniare di sé nel brandello di un'esistenza subito zittita. Allora l'occhio torna ad un'infanzia che non ha padri, né poeti, né psicologi, né, tanto meno, descrittori. E' un'infanzia che dialoga solo col tempo e allude al rapporto tra una rapidissima sparizione e un eterno condizionamento della memoria.

In questi segmenti che condensano misure tanto diverse, vedo davvero i quadri di Zucchini e posso fermarmi a guardarli.

Antonio Faeti

3. Forme e movimento. Zucchini qui: e là i Lumière.

I rapporti, i prestiti, le influenze fra diversi ambiti di operazione artistica sono, probabilmente, una delle ragioni di maggior fascino per la critica. Finché il cinema - e più in generale il racconto per immagini in movimento - era rimasto una parte, un momento del nostro quotidiano, fu la pittura a fornirgli di tanto in tanto suggerimenti, ma oggi che la narrazione cinematografica, la natura stessa del cinema si è realizzata nel quotidiano, oggi che il reale è più cinematografico del cinema, quest'ultimo può a sua volta fornire idee e ispirazioni al pittore, allo scultore, all'artista delle immagini " immobili ".

Nelle opere di Zucchini questo è ancor più vero dal momento che, in esse, si fondono elementari tecniche di proiezione e impianto scenografico, impiegato non come oggetto fra gli altri del quadro, ma come elemento imposto, che concorre a una diversa dimensionalità di esso, a un suo differente statuto spaziale.

Sulla sperimentalità di Zucchini non vi sono dubbi. Due diversi sistemi di rappresentazione (il " quadro " da un lato e la riproduzione fotografica dall'altro) si sovrappongono a creare nuove tensioni figurative e coloristiche. Non si tratta evidentemente di approfondire il senso di questa o quella forma, ma di studiare la possibilità di ottenerne di impensate, imprevedibili. Ho l'impressione che il cinema - per quanto riguarda il suo aspetto di " proiezione " - sia essenziale, insostituibile, per la pratica artistica di Zucchini, soltanto (soltanto?) perché per ovvia legge fisica due immagini " ritratte " non possono compenetrarsi, mentre attraverso la tecnica combinatoria adottata dall'autore l'una rimane solida, corporea, tangibile - realistica o non poco importa - e l'altra (quella fotografica, cioè la diapositiva) è invece fantasma impalpabile, immagine che percorre invisibilmente l'aria fino allo " schermo ", su cui si materializza in modo effimero. Così il vero materiale plastico diventa paradossalmente quello fotografico, non quello strettamente pittorico. 0, quantomeno, il primo diventa il dispositivo che innesca la plasticità complessiva dell'insieme.

La tecnica-diapositiva, dunque, non ha qui nulla dell'ispirazione e della motivazione iperrealistica, non ha nulla della volontà di denunciare la natura fotografica della realtà, la sua riduzione a immagine senza soggetto, e nemmeno l'equazione fra arte e merce. La realtà non viene semplicemente osservata e fotografata, ma piuttosto raccolta e miscelata in un sorprendente mondo di immagini inusitate, prodotto, risultante di una fantasia tecnica. Questo naturalmente non richiede particolari e complesse scelte tematiche. Il mondo di Zucchini è fatto di uccelli, di frutta, di piccoli animali, di semplici figure. Diciamo: le unità discrete della narrativa primaria. Della fiaba, ad esempio, che però egli riesce a drammatizzare, come si accennava, attraverso l'impiego di dispositivi, che dimensionalizzano lo spazio dell'opera. E anche qui si tratta di componenti elementari: una sorta di quinta di proscenio, una mensola sulla quale accadono eventi, ecc.

Parleremo allora di una pittura di movimento. Di una messa in scena che intende duplicare e confezionare forme e colori. La combinazione di astrazione e naturalismo, che ne sortisce, è alquanto particolare e rimanda, in sede teorica, ai fondamenti stessi di quel cinema - inteso non solo come fatto comunicativo ed eventualmente artistico, ma anche e soprattutto in senso etimologico - che concorre alla ricerca formale dell'autore. Cosa di più astratto ed insieme naturalistico del treno dei Lumière che entra nella stazione? Forme e movimento, l'immagine rende la perfezione riproduttiva del reale; eppure quel treno esce dallo schermo e dalla vista senza toccare minimamente la realtà dell'osservatore, dello spettatore, senza travolgerlo, ma solo impressionandolo per perfezione realistica ed insieme assenza di concreta sostanza.

Le sperimentazioni di Zucchini, dicevo, partecipano dello stesso meccanismo; i suoi sentieri sono quelli che portano al reame di Oz, alla Città di Cristallo, un mondo incantato eppure così tangibile nei suoi colori e nelle sue invenzioni. Ma c'è una differenza: Zucchini è ben conscio dello spettacolo - reale o immaginario che sia - o piuttosto della natura spettacolare di questi tempi, ormai componente inalienabile della creazione (e non solo in sede visiva: penso a tanto romanzo europeo e americano per lo meno dall'école du regard in poi).

Per questo egli inventa le sue " storie " tenendo ben presente la necessità di un palcoscenico, vale a dire di un accorgimento che ci renda una dimensione di rappresentazione continuata. Ed è questo il senso di quelle quinte e di quelle mensole, che introducono non tanto altri elementi di narrazione nelle storie, ma un senso di preparazione formale attraverso la costruzione di una spazialità che diventa perciò stesso temporalità. E non è questo un primario dato del cinema?

Lo spazio di Zucchini non vive della convenzione spaziale tipica del teatro, non si realizza attraverso un evidente ammiccamento con l'osservatore. Al contrario, esso si dilata lungo la combinazione dei dispositivi con il segno, la dimensione, il colore stesso. Non è realtà, ma è immagine cinematica di essa, complesso di funzioni al servizio del movimento, che ci provvedono, di una sorta di vita bloccata, il cui moto è affidato alla pittura, o meglio alla scena, alla combinazione di materiali inerti. Una scienza alchemica, se vogliamo, che ricostruisce la vita nella sovrapposizione delle sue unità elementari. Un'opera di regìa che collega e muove momenti fissi riscattandoli all'azione. La prospettiva che ne esce è puramente dimensionale, segnica: non c'è fonte luminosa ma solo la luce del colore. In certo senso la realtà è già trasformata prima dell'operazione, ma per diventare movimento essa attende la combinazione della fotografia e della pittura. E il cinema sembra divenire qualcos'altro da se stesso.

Franco La Polla

4. Giorgio Zucchini o del segno creolo.

jurij M. Lotman individua nell'effetto creolizzazione (nell'effetto lingua creola) uno dei tratti più propri - se non il più proprio - del segno artistico. In quanto tale, segno non più designante, ovviamente, il singolo elemento lessicale (la singola parola), bensì un costrutto di parole, una serie anche, conclusa, di costrutto di parole e allora, semioticamente - generalmente - parlando, un intero discorso, qual si sia la natura materiale degli elementi (parole, appunto, gesti, figure ecc.) che lo compongono.

Con il termine " segno " si fa riferimento nel caso (della sua predicazione come " creolo " si dirà tra poco) al complesso di quadri che costituiscono, per Giorgio Zucchini, il suo Giardino dell'Imelde e insieme, naturalmente, a tutto ciò che, in feed-back, essi riattualizzano del suo lavoro passato. Macrosegno, allora, inevitabilmente strutturato a diversi livelli. Livelli che non saranno più solo quelli a-concettuali (tratti puramente estetici: visivi, sonori, tattili, se di tratti tattili si può parlare, ecc.) del segno-elemento (della singola immagine, della singola azione, della singola parola ovviamente ecc.), ma già segni a loro volta e quindi, in qualche modo, sistemi di rappresentazione (lingue), che in Zucchini si presentano pluralizzati e diversi. C'è, direttamente, il codice della pittura nelle sue articolazioni di fondo (colori, linee, disegno ecc.), ma ci sono anche, direttamente nel quadro, in ostensione le cose in carne e ossa, che la pittura può, appunto, dipingere (animali imbalsamati, oggetti, ombre e così via): ci sono poi sincreticamente questi due livelli di realtà e, insieme con essi, le tracce del codice che li nomina (i titoli dei quadri si limitano spesso a duplicare o a triplicare quanto nel quadro è, in qualche modo, già presente) e che li scrive (i titoli sono appunto scritti). Tautologicamente? Sì e no.

No (anche del " sì " si dirà in seguito, più precisamente alla fine), perché tutto questo è sempre tagliato da altro, da codici (è un po' pesante questo termine per Zucchini: se, Però, lo si assume in fede delle scamozzature cui questo discorso lo sottoporrà, diventa non solo utile, ma necessario) stilistico-retorici in senso stretto, che, differenziandoli da quelli primari appena citati, potremmo dire di secondo grado. Codici culturali, allora, di vario tipo. Innanzi tutto teatrali. I suoi quadri, spesso, si dispongono in sequenze di piani sfasati, capaci di liberare in ribalta (a mo' di quinte) apparizioni inattese. E ancora, il teatro è nei quadri, intendo dentro la loro struttura, magari in forma di mensola (mensoletta), dipinta o anche in rilievo: luoghi, tutti questi, dove entità materiali varie e pure forme euclidee recitano incontri stupefacentemente (lì, qui) probabili. Codici fotografici, anche, e - perché no? - cinematografici? In senso stretto non so, ma in senso lato si può dire: tutta l'opera di Zucchini, ovvio frutto anch'essa, come ogni altra entità culturale, di movimenti (di pratiche), giunta a compimento, non può proprio permettersi, e qui in base ad una necessità tutta sua, di dimenticarsene. E non se ne dimentica (non le cancella queste pratiche), tanto è vero che pare potere vivere solo in loro memoria o, meglio, secondo una loro riattivazione continua: valga, per ogni altro esempio possibile, il suo rapporto con la luce. Una luce senza sorgente determinata (anche per questo Zucchini è tanto attaccato alla tempera, piuttosto che all'olio), non tecnica (non strumento descrittivo), ma una luce che, caso mai, descrivendo altro, descrive sempre anche se stessa: una luce oggetto-soggetto, in conclusione, che appunto, e soprattutto, al cinema pare in potere di tentare e così via ... e così via per sistemi di rappresentazione spontaneamente dei più lontani e, si può dire in senso letterale, dei più differenti (sistemi che ci portano letteralmente in più luoghi - fisici e mentali - ad un tempo).

Sistemi di rappresentazione, che vanno da codici simbolico-folclorici, diciamo così, a codici del tutto pratici, a codici estetici, se non di consumo, certamente a presa diffusa, a impervie letture d'élite... così che convivono, in lui, elezioni paradossali: accanto al suo amore per il presepe, ad esempio, come serbatoio capace di alimentare in modo continuo il suo immaginario, troviamo l'irenico collezionista di subdoli simulacri da richiamo venatorio (molti suoi uccelletti trovano in questi simulacri la loro inquietante matrice) oppure il narratore (il mitologo) delle memorie stilistiche del giallo (quello degli anni '50 in specie) e allora sospetti nel pittore di corvi (nell'ostensore di corvi) il disincantato lettore di E.A. Poe e nell'orchestratore insieme dei corvi e del vuoto ad essi sotteso, scommessa suprema, un insospettato frequentatore di J. Lacan. E con questa, scommessa, eccoti l'instabilità del tutto: il vuoto (vastissime campiture di colore sono da Zucchini lasciate a se stesse) può non essere vuoto affatto. Posso essere io (puoi essere tu) a non riuscire a rubargli, anche solo in traligno, ciò che magari Zucchini vi vede, ciò che per lui magari è evidente.

Anche questo è stile, ma questa volta è di Zucchini e allora un metastile, che non può che porsi come principio organizzatore di tutti gli stili-oggetto citati. Un modo di "scrivere" (" stile ", etimologicamente, non significa altro) tutto suo, all'interno del quale i materiali più disparati, di cui Zucchini s'è visto essere in caccia, sono costretti, se non a un ordine, certamente a un rapporto e allora liberati a una comune significazione, nei termini di R. Barthes si potrebbe dire, a una scrittura. Non si dimentichi che, per Barthes, la " scrittura " può crescere su qualsiasi supporto (parola, immagine, suono o gesto che sia). Ebbene, se questa " scrittura " di Zucchini ha un tratto (un carattere) tutto suo, esso mi pare proprio identificabile con una grande e sapiente opera, appunto - e si è allo sviluppo della prima anticipazione posta ad apertura di queste,pagine -, di creolizzazione di tutto il suo materiale di lavoro.

Come accade alle lingue che si creolizzano, anche i codici diversi che costituiscono l'opera di Zucchini, non potendo - né volendo - prevaricare l'uno sull'altro e non avendo nemmeno licenza di sparire, risolvono brillantemente il problema della loro reciproca convivenza nella comunicazione, riducendo all'osso, ciascuno, la propria struttura, tanto a livello grammaticale che sintattico. Essi ci sono nella pittura di Zucchini (Che diamine! Di che cosa ci si è preoccupati fino ad ora se non di documentare tale affermazione?), ma al modo in cui in L. Carroll, il Gatto del Cheshire continua a vivere, dopo essere scomparso, nel suo aereo " sogghigno ": in snodato lessico, allora, e per semplici tracce, si può dire, di sintagmi mai detti, mai chiaramente esplicitati. Viene in mente anche Flaubert e il suo Bouvard e Péchuchet.

Anche in Zucchini, come in Flaubert, lo spazio creolo non coincide con il rapporto opera-interprete (come accade, invece, in Lotman, che pur ci è ben servito d'abbrivio), ma con il piano dei soli rapporti tra i diversi codici costitutivi dell'opera stessa: è l'opera che si fa catalogo del mondo, qui come là - anche se i mondi sono poi diversi -, ed è proprio questo cataloga, questa cultura ridotta alla propria primarietà (primarietà del secondario, si capisce) e alla propria radiografia, che la memoria (Imelde, emblematicamente, in Zucchini) tra incanto e decantazione ci comunica. Per questo si diceva: niente tautologia. Qui, però, non ci si può ancora fermare: non ci si può contemporaneamente impedire di sapere che siamo (che Zucchini si propone) nel meta-codice dell'arte, il quale ha le sue regole, ovviamente, i suoi imperativi, quali ad esempio, oggi, quelli che vogliono che, se in un quadro trovi un corvo, beh!, non necessariamente è solo un corvo e se trovi un'ombra non necessariamente è solo un'ombra. Un catalogo, insomma, può non essere un catalogo; una cosmogonia può non essere una cosmogonia e così via: ciò che la struttura intrinsecamente comunica, la sua struttura d'uso (il suo uso come arte) lo zittisce, ma per farlo parlare più intensamente. Le cose, rigettate in sé, in se stesse sprofondano e da questo loro insondabile abìme tornano, ma tramite le nostre differenziate lingue, a parlare. Il " sì ", appena riconcesso, come si era promesso, alla tautologia, anche per questa strada ben poco resiste: troppo carico di senso paradossalmente determinato, troppo controteso.

L'abisso, su cui Zucchini sospende queste sue cose, non le grava affatto di peso, ma al contrario funge da suo deterrente (troppo metafisiche per essere veramente metafisiche) e ce le lascia leggerissime negli occhi (nelle mani), per altre, più adeguate, figure di descrizione, per altre retoriche. Difficile dire esattamente quali, anche se quell'Empire des signes, che Zucchini si rigirava tra le mani quando l'ho salutato, può indicarci in proposito un non impertinente spiraglio, un non improbabile guado.

Luciano Nanni

 

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